Ma la colpa è sempre dei giornalisti? 


Ma io non ho capito. Pochi giorni fa. Sassari: lei decide di separarsi, il marito le dà fuoco. Fine maggio scorso. Roma: la 22 enne Sara Di Pietrantonio, viene bruciata viva dal suo ex. Domenica, Silvano Maritan, uno dei boss della Mala del Brenta, in piazza a San Donà di Piave, ammazza con due coltellate, di cui una fatale alla gola, il convivente della sua ex. Ieri a Mogliano, nel trevigiano, un 27 enne, giordano, accoltella al torace il rivale e poi viene preso a martellate. La settimana scorsa il direttore del reparto di Cardiologia di Modena viene aggredito con l’acido. E ora è grave.

Gli esperti dicono: “Attenzione, a forza di parlarne nei giornali, scatta l’emulazione”. Emulazione? Sì certo. Come quando ci furono le storie dei sassi dal cavalcavia o come la moda attuale: stendersi sui binari per farsi un selfie. Tutti copiano. Tutti emulano. Ma nessuno si chiede perché.

E intanto noi scriviamo, sparando a caratteri cubitali il puro fatto di cronaca. Come se quello bastasse. Non basta. Poi a dare la colpa ai giornalisti sono gli assi di coppe. La gente che commette certi crimini, chi arriva a sfregiare con l’acido una persona, chi nel mezzo di una piazza veneta, in una affollata sera domenicale, molla due fendenti a un rivale in amore è un ossesso. Andiamo a vedere dove era fino a pochi mesi fa Silvano Maritan. In galera. Andiamo a vedere se non ci aveva già provato a far fuori il nuovo compagno della ex.

Allora è colpa dei giornalisti o è colpa della legalità che mai e poi mai ha coinciso con la giustizia? È colpa di chi?

Il compagno della 22 enne romana, Vincenzo Paduano, dopo aver confessato di aver bruciato la sua ex, avrebbe avuto anche diritto al rito abbreviato con sconto fino a un terzo della pena. Anche perché secondo il giudice non ci fu premeditazione. Balle. Una persona che arriva a darti fuoco, qualche istinto in precedenza deve pur averlo avuto, deve pur aver provato almeno per un istante a volerti vedere bruciare. Ma intanto anche lui in attesa di definizione. I giornali dopo qualche giorno scrissero: “Vincenzo Paduano dal carcere: ho paura, è stato un momento”. Un momento? Così, come andare in bagno e tirare l’acqua? Un momento che ha tolto la vita a una ragazza di 22 anni. Allora colpa nostra sì.

O è anche colpa di questo sistema che non funziona? Di questo codice fatto di continui leggi, leggine, rimandi. Di tre gradi di giudizio, che poi finiscono a cinque. Di tutti questi sconti di pena, confessioni, riti abbreviati, patteggiamenti, condizionali e buone condotte. Si può dare la buona condotta a uno che ha bruciata viva una donna? Allora di chi è colpa? Il bengalese che a Padova, ma poteva essere pure italiano, ha stuprato una disabile nel 2014 adesso è libero. Libero. Il padre mesi fa scrisse una lunga lettera a Il Gazzettino. Noi chi dobbiamo tutelare? Le vittime? Gli imputati? Perché se sono italiani gli spacciatori all’occhiello non mettiamo il nome? Mettiamo solo le iniziali.

Dobbiamo tutelare i pazzi? O dobbiamo avere riguardo anche per vittime e collettività? Dovremmo forse non scriverne? Allora non scriveremmo mai nulla. Il bilanciamento degli interessi è difficile. Dovremmo tutelare le persone da quegli ossessi spinti dal commettere qualcosa, perché qualcuno prima di loro lo ha già fatto. Insomma, non siamo padreterni, ma in un lavoro dove le parole pesano più del piombo, dovremmo avere e utilizzare tatto. Sana indignazione. Senza farci prendere da aspetti morbosi che attirano i benpensanti. Ma le leggi, in tutto questo bordello, cosa fanno? Se qualcuno le pesasse queste leggi.

Se qualcuno, finalmente, facesse in modo che quella bilancia sorretta dalla Giustizia si equilibrasse, forse, prima di commettere qualcosa ci si penserebbe due volte. Magari con la prospettiva del carcere a vita la percezione di severità aumenterebbe. Forse bisognerebbe rivedere alcune disposizioni troppo garantiste. Forse bisognerebbe non consentire a un indagato di apparire sui giornali con scritto: “Ho paura”. Forse allora potremmo raccontare che se ammazzi qualcuno o se sfregi con l’acido una persona, o se stupri una donna, o se tenti di ammazzarla, finisci in galera. E ci rimani per tutta la vita.

Forse anche questo codice attende una riforma. E non può essere incredibilmente un’utopia.

#buonanottesbetti

Vajont: le case crollavano ancor prima dell’impatto con l’acqua 


La prima volta che vidi la diga del Vajont non mi resi conto di cosa fosse. Mi dissero che quella era la causa di migliaia di morti, che un pezzo di montagna quella notte si staccò e franò nella diga. Mi dissero che l’ acqua che vi era contenuta straripò e inondò completamente i paesi sottostanti. Ci furono un sacco di morti. Addirittura mi dissero che le case venivano spazzate via per la sola forza dell’aria di quel muro d’acqua che avanzava, non serviva nemmeno che l’acqua le toccasse.

Avevo circa nove anni credo quando mi spiegarono questa cosa. Ero in cima alla diga e ricordo che quel giorno la struttura era aperta e ci camminai sopra. Rimasi impressionata da due cose, che ancora oggi ricordo come se fosse ieri. 

La prima era un’aquila reale, avvistata lì sopra la diga, come se stesse vegliando su di noi. 

La seconda era quello strapiombo che si apriva sotto di noi. Un muro bianco di cemento armato che finiva velocemente nel vuoto. Provai paura, panico, una sensazione di un abbandono che soffoca, che istantaneamente ti ammazza. Pensai che se lì fosse scivolato qualcuno, di sicuro non l’avrebbero trovato. 

Poi con il passare degli anni, questa diga del Vajont mi rimase sempre impressa, ma non me ne interessai molto. 

Fino a che un giorno, una decina di anni fa, con alcuni amici decidemmo di andarla a visitare. Era agosto e io tornavo dall’ Austria. Era un ottimo giorno per decidere di fermarmi a Longarone. 

Ecco, quel giorno capii che quello che mi aveva impressionato da bambina era lì, nitido, davanti a me. 

La parte di montagna che si era staccata, la zolla bruciacchiata ingiallita di dove non cresce più l’erba, quell’immenso muro di cemento che si erge vincitrice come un’ imponente opera creata dall’uomo e fatta per distruggere altri uomini, quella sensazione di vuoto, di silenzio, di morte che soffoca e come una cappa opprime e soprattutto quella scritta su un’insegna di bronzo scuro: 9 ottobre 1963, ore 22.39.

Quel giorno una enorme massa di 270 milioni di metri cubi di roccia e detriti si staccò dal monte Toc e franò a valle. 

Fu l’Apocalisse. La gente a quell’ora stava dormendo ma chi riuscì a svegliarsi, venne svegliato per l’enorme boato. La parete del Toc, larga quasi tre chilometri e formata da boschi, coltivazioni e case, affondò nel bacino sottostante e provocò una devastante scossa di terremoto. 

Il lago, quell’immenso lago, contenuto nella diga che doveva proteggere, in quel momento straripò e scomparve. Al suo posto un’ enorme massa d’acqua che prese sempre più una velocità inaudita. 

Un muro d’acqua, alto più di cento metri, contenente alcuni massi di diverse tonnellate che era in grado di spazzare via le abitazioni per la sola forza dell’aria che avanzava. 

La vallata, dopo che i tralicci della luce vennero tranciati, rimase nel buio più totale. 

La forza d’urto della massa che si staccò creò due ondate: la prima a monte, venne spinta a est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allargò. Questo consentì all’onda di abbassare il suo livello e di risparmiare le case di Erto, spazzando via i paesi più bassi, lungo le rive del lago: Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino.

La seconda ondata si riversò verso valle superando la diga artificiale, scavalcandola, fino a raggiungere le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario sul coronamento della diga venne distrutto, così come la palazzina di cemento a due piani della centrale di controllo e il cantiere degli operai. 

Ma questa ondata di 50 milioni di metri cubi d’acqua, scavalcò la diga, precipitò a piombo in picchiata con una velocità impressionante e sbatté sulla vallata sottostante. 

La stretta gola del Vajont inoltre contribuì a darle maggiore forza, maggiore energia.  

Allo sbocco della valle l’onda era alta 70 metri e produsse un vento sempre più intenso. Fu la fine. 

Le persone non fecero nemmeno in tempo a rendersi conto di quanto stesse accadendo. E anche qualora l’ avessero capito, scappare ormai era impossibile. 

“Il greto del Piave fu raschiato dall’onda che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall’acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l’onda perse il suo slancio andandosi a infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle: una azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla direzione di spinta”. (http://www.vajont.net/page.php?pageid=HOMBO001

Altre frazioni lì vicino furono distrutte: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone e Codissago di Castellavazzo. 

Il Piave che era diventato una enorme massa d’acqua tornò al suo flusso normale dopo una decina di ore.

Alle prime luci dell’alba Giampaolo Pansa, inviato de La Stampa cominciò così il suo pezzo: “Scrivo da un paese che non esiste più”. 

La tragedia del Vajont costò all’ umanità 1910 morti. 
#sbetti  

#vajont #digadelvajont #longarone

Facciamo un referendum per modificare l’articolo che modifica la Costituzione


Forse non tutti sanno che nel referendum del 4 dicembre non serve il quorum. C’è poco da riempirsi la bocca al bar, tra un croissant e un cappuccino, e dire “io non voto, tanto fanno quello che vogliono”. Ebbene, sì cari miei. Adesso fanno quel cazzo che vogliono. Nel referendum costituzionale del 4 dicembre manca il quorum. 

A stabilirlo è quel secondo comma di quell’articolo 138 che aleggiava nel vuoto e nel mistero. Una di quelle disposizioni che fino a che non ne hai a che fare un po’ te ne freghi. Ebbene ora quel comma da punto interrogativo piega la sua schiena e diventa esclamativo, diventa realtà. Ora è comprensibile a tutti. 

Questo vuol dire che se vanno a votare 50 persone e di quelle 50, 48 decidono di cambiare la Costituzione, stop, retro. Alt. Si cambia. 

Quarantotto persone cambiano la Costituzione.

Questo è di una gravità inaudita, un simile scempio in una forma di governo repubblicana che promana dai principi di democrazia e maggioranza. Una contraddizione, un rovescio alla sovranità popolare, un gancio al principio di democrazia e maggioranza che sbattono la guancia contro la finestra, infrangono i vetri e cadono di sotto. Ecco perché è importante andare a votare. Per far sì che non siano gli altri a decidere. Potete votare sì, come potete votare no. Basta che votiate. Bada però che non è referendum abrogativo e quindi se vogliamo cambiare la Costituzione voteremo sì, se non vogliamo voteremo no. Al bando tante chiacchiere: “Se perdo vado a casa”. Renzi l’ha buttata su un gioco di potere. Qui c’è in ballo una Carta che sta alla base dei nostri diritti. 

Perché se dovessimo arrivare a fare la figura dei quattro poltroni che nemmeno una croce hanno la forza di apporre, allora sì, fanno bene a toglierci i diritti, farebbero bene a toglierci anche i doveri. Allora sì che avremo fallito. In tutti i sensi. Allora sarà la snaturazione del principio di responsabilità, l’affossamento della nostra identità e sovranità, l’ammissione che l’Italia davanti a una scelta è codarda, incapace di decidere. 

Il fatto che la riforma costituzionale, contenuta nel ddl Boschi, sia comunque oggetto di un referendum senza quorum è di una gravità bestiale. Un procedimento, quello dell’articolo 138, che forse era uno dei pochi che meritava revisione. Un procedimento che dovrebbe essere aggravato ma che fino a che non ci tocca non ci preoccupa, non ci tange. 

Ora però, sì, ci tange eccome. 

Ora non possiamo dire “hanno deciso loro”, ora decidiamo noi. 

#iovotoebasta #buonanottesbetti