La prima volta che vidi la diga del Vajont non mi resi conto di cosa fosse. Mi dissero che quella era la causa di migliaia di morti, che un pezzo di montagna quella notte si staccò e franò nella diga. Mi dissero che l’ acqua che vi era contenuta straripò e inondò completamente i paesi sottostanti. Ci furono un sacco di morti. Addirittura mi dissero che le case venivano spazzate via per la sola forza dell’aria di quel muro d’acqua che avanzava, non serviva nemmeno che l’acqua le toccasse.
Avevo circa nove anni credo quando mi spiegarono questa cosa. Ero in cima alla diga e ricordo che quel giorno la struttura era aperta e ci camminai sopra. Rimasi impressionata da due cose, che ancora oggi ricordo come se fosse ieri.
La prima era un’aquila reale, avvistata lì sopra la diga, come se stesse vegliando su di noi.
La seconda era quello strapiombo che si apriva sotto di noi. Un muro bianco di cemento armato che finiva velocemente nel vuoto. Provai paura, panico, una sensazione di un abbandono che soffoca, che istantaneamente ti ammazza. Pensai che se lì fosse scivolato qualcuno, di sicuro non l’avrebbero trovato.
Poi con il passare degli anni, questa diga del Vajont mi rimase sempre impressa, ma non me ne interessai molto.
Fino a che un giorno, una decina di anni fa, con alcuni amici decidemmo di andarla a visitare. Era agosto e io tornavo dall’ Austria. Era un ottimo giorno per decidere di fermarmi a Longarone.
Ecco, quel giorno capii che quello che mi aveva impressionato da bambina era lì, nitido, davanti a me.
La parte di montagna che si era staccata, la zolla bruciacchiata ingiallita di dove non cresce più l’erba, quell’immenso muro di cemento che si erge vincitrice come un’ imponente opera creata dall’uomo e fatta per distruggere altri uomini, quella sensazione di vuoto, di silenzio, di morte che soffoca e come una cappa opprime e soprattutto quella scritta su un’insegna di bronzo scuro: 9 ottobre 1963, ore 22.39.
Quel giorno una enorme massa di 270 milioni di metri cubi di roccia e detriti si staccò dal monte Toc e franò a valle.
Fu l’Apocalisse. La gente a quell’ora stava dormendo ma chi riuscì a svegliarsi, venne svegliato per l’enorme boato. La parete del Toc, larga quasi tre chilometri e formata da boschi, coltivazioni e case, affondò nel bacino sottostante e provocò una devastante scossa di terremoto.
Il lago, quell’immenso lago, contenuto nella diga che doveva proteggere, in quel momento straripò e scomparve. Al suo posto un’ enorme massa d’acqua che prese sempre più una velocità inaudita.
Un muro d’acqua, alto più di cento metri, contenente alcuni massi di diverse tonnellate che era in grado di spazzare via le abitazioni per la sola forza dell’aria che avanzava.
La vallata, dopo che i tralicci della luce vennero tranciati, rimase nel buio più totale.
La forza d’urto della massa che si staccò creò due ondate: la prima a monte, venne spinta a est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allargò. Questo consentì all’onda di abbassare il suo livello e di risparmiare le case di Erto, spazzando via i paesi più bassi, lungo le rive del lago: Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino.
La seconda ondata si riversò verso valle superando la diga artificiale, scavalcandola, fino a raggiungere le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario sul coronamento della diga venne distrutto, così come la palazzina di cemento a due piani della centrale di controllo e il cantiere degli operai.
Ma questa ondata di 50 milioni di metri cubi d’acqua, scavalcò la diga, precipitò a piombo in picchiata con una velocità impressionante e sbatté sulla vallata sottostante.
La stretta gola del Vajont inoltre contribuì a darle maggiore forza, maggiore energia.
Allo sbocco della valle l’onda era alta 70 metri e produsse un vento sempre più intenso. Fu la fine.
Le persone non fecero nemmeno in tempo a rendersi conto di quanto stesse accadendo. E anche qualora l’ avessero capito, scappare ormai era impossibile.
“Il greto del Piave fu raschiato dall’onda che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall’acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l’onda perse il suo slancio andandosi a infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle: una azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla direzione di spinta”. (http://www.vajont.net/page.php?pageid=HOMBO001)
Altre frazioni lì vicino furono distrutte: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone e Codissago di Castellavazzo.
Il Piave che era diventato una enorme massa d’acqua tornò al suo flusso normale dopo una decina di ore.
Alle prime luci dell’alba Giampaolo Pansa, inviato de La Stampa cominciò così il suo pezzo: “Scrivo da un paese che non esiste più”.
La tragedia del Vajont costò all’ umanità 1910 morti.
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