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“Quando feci sparire mia sorella Udilla”. Mago Silvan si racconta a Libero

Qui la mia intervista 👇

“Sto scaricando il taxi. Sono appena arrivato da Milano. Un attimo e le rispondo”.

Non ha di certo bisogno delle nostre presentazioni Mago Silvan. Mago. Prestigiatore. Chiamatelo come volete. Appartiene a quella schiera degli artisti di fama internazionale, secolari, vecchia maniera, che ancora scaricano i taxi da soli. Perché Silvan c’è da sempre. C’è sempre stato. 

Quando lo incrociamo ha appena finito uno spettacolo da standing ovation a Treviso, al teatro Del Monaco. 

Mago Silvan, appena arrivato da Milano. Ma dove la trova la forza?

“Genetica. Sono felice, amo la vita i miei figli, nipoti e le persone che mi stanno accanto. Sono un uomo fortunato. Ho sempre cercato di raggiungere i miei traguardi artistici con onestà”. 

A proposito, ha appena girato per “Splendida cornice”, per la Rai. Sempre in movimento.

“Sì, mi sono trovato benissimo. Mi piace Geppi Cucciari. È spontanea, sagace, impertinente, colta e intelligente”. 

Ci racconti il suo primo spettacolo.

”Troppo lungo! Annoierei il lettore. Le dico soltanto che a undici anni, sotto la tettoia dell’Oratorio don Bosco a Venezia, città nella quale sono nato e che amo visceralmente, presentavo uno spettacolo di quattro ore e mezza… Presenti preti, laici e le famiglie dei miei coetanei. La magia intesa come prestidigitazione è parte integrante della mia natura”. 

Anche se suo padre per lei sognava una carriera da avvocato. 

“Era amico di un avvocato di grande notorietà, principe del foro Carnelutti”. 

E come l’ha presa quando ha saputo che voleva fare il mago?

“Convinto si trattasse di una professione alquanto bizzarra configurandomi come Sik Sik l’artefice magico di Eduardo, era contrario. Successivamente diventò il mio più grande estimatore. È diventata la mia professione e la mia passione. O viceversa”. 

Direi. Lei è celebre a livello nazionale e internazionale. Che effetto le fa? 

“Sono compiaciuto e gratificato anche se ritengo ci sia ancora da apprendere e studiare. Non ci crederà ma nonostante abbia scritto una dozzina di libri sull’insegnamento e la storia della prestidigitazione con la riedizione de “La Nuova Arte Magica”, 600 pagine per la Nave di Teseo, mi ritengo solo a metà strada. Si ricorda il detto socratico no? “Chi più’ sa sa…”. 

Sa di non sapere insomma. 

“Da quest’arte antica e immensa, che insegna come alterare la realtà oggettiva nel dire ciò che non si fa e fare ciò che non si dice…”. 

E allora glielo chiedo, la differenza tra un prestigiatore e un avvocato? 

“Sotto certi aspetti la teatralità. Una dialettica convincente, persuasiva e astuzia psicologica. Dimostrare con convinzione che il bianco è nero o viceversa”. 

E come preferisce essere chiamato? Mago, illusionista, prestigiatore…

“Sono sinonimi. Mago è il termine che viene usato abitualmente per una dizione comprensibile Prestigiatore è termine esatto, dal latino praesto e digitus, in sintesi svelto con le mani”. 

Ecco appunto. Le mani. Come le mantiene? Come le allena queste mani?

“Ho creato degli esercizi speciali per irrobustire le falangi e l’eminenza tenar cosi si chiama il muscolo del palmo della mano  sotto la radice del pollice”. 

È vero che le assicurò per mezzo miliardo?

“Esatto”. 

Ma le scalda prima di uno spettacolo?

“Articolandole come le spiegavo con degli esercizi appropriati tra i quali dei piccoli pesi legati alle dita”. 

Si allena ancora?

“Certo da una vita”. 

Quante ore?

“Due tre ore al giorno”. 

Ma qual è il suo segreto. Come fa? 

“Passione tenacia esercizio costante. La stessa domanda può essere rivolta a un ciclista, tennista, corridore, danzatore, pugile”. 

E lei quando ha capito che sarebbe stata la sua strada? 

“Da sempre. È un legame mentale dei ricordi che assorbiamo nei primi anni della nostra infanzia. Tutto ciò che ai miei occhi rappresentava l’irrazionale, il magico è rimasto impresso nel mio subconscio. Un tributo se vogliamo definirlo a tutto ciò che rappresenta l’inconoscibile, il mistero. Sono convinto che la vita perderebbe parte del suo senso se non avessimo a ogni età la capacità di stupirci!”. 

E il suo gioco di prestigio preferito.

“Indipendentemente dal tagliare donne a fettine, farle levitare a mezz’aria, trasformarle in tigri o pantere. Nei miei spettacoli, la pura destrezza. Fare apparire o sparire 140 carte da gioco con l’ausilio delle sole mani”. 

Ah una cosa ho sempre voluto chiederle a proposito delle donne a fettine. Le lame sono vere?

“Certo”. 

È mai accaduto che qualcosa andasse storto?

“Sì, molte volte ma il pubblico non si accorge mai, poiché il mago con la sua abilità cambia immediatamente l’effetto magico che intende presentare con un altro”. 

Allora ora glielo chiedo. Ha mai conquistato una donna con il potere della magia?

“Mentirei se dicessi il contrario”. 

E di questi giovani prestigiatori che pensa?

“Tutto il bene possibile. Sono veramente  bravissimi. Possiedono molto talento. In tutte le Regioni esistono dei Club magici, vivai di ottimi talenti per coloro che desiderano imparare l’arte prestidigitatoria. A Milano con la guida di Mario Pavesi una mostra attuale “A me gli occhi”, prodotta dalla Cineteca, sta ottenendo un successo strepitoso. Proiezioni cinematografiche interattive posters storici eventi dal vivo di  maghi, illusionisti passati alla storia, fino al 28 aprile”. 

E il mago più scarso secondo lei? Si può dire vero?

“Scherzando si può dire tutto: anche la verità. Ma nessun mago deve essere considerato scarso. Sono tutti eccellenti da incoraggiare aiutandoli con discrezione a migliorare, o invogliandoli alla lettura di testi che trattano la nostra arte senza atteggiamenti di presunzione o superiorità. Questo per continuare a coltivare la passione e diventare ciò che hanno sognato”. 

Se dovesse spiegarla a un ragazzo che vuole intraprendere la sua strada. È una vocazione? È talento? È arte, studio ?

“Esattamente ciò che ha detto. La mia, anche se è inelegante parlare di sé è stata una vocazione. Sono sempre stato attratto da tutto ciò che rappresenta il magico, l’irrazionale, il paradosso”. 

Cosa pensa dei prestigiatori americani e dei loro mega show?

“Bravissimi straordinari in teatro. Televisivamente sconcertanti e miracolisti”. 

La differenza tra ieri e oggi…

“Non esiste una magia tradizionale classica o di avanguardia. Esiste soltanto una bella magia che stupisce e incanta con onestà”.

Che poi la magia è un potere? Cos’è?

“L’arte magica affonda le sue radici in epoche molto lontane. In Egitto in Grecia a Roma la destrezza del mago era camuffata da magia per asservire il potere politico sociale e religioso. Potrei discettare per ore della sua storia che da sempre affascina l’uomo”. 

Ma qual è stato il suo primo gioco di prestigio?

“Quello di far sparire mia sorella Udilla allestendo i drappeggi necessari nel salotto di casa”. Ah scusi, dimenticavo, e il magico “Sim Sala Bim” come nacque? “È una frase che ha sostituito le mie primissime parole magiche: Tac tac se rumba yama cler come tributo e omaggio a un grande prestigiatore danese del secolo scorso Dante”.

Quindi Sim Sala Bim? Mago Silvan??!

Serenella Bettin

Intervista uscita su Libero il 27 marzo 2024
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Il Papa a Venezia

Piazza San Marco

Io me lo ricordo quell’anno in cui vidi per la prima volta il Papa. Era il 30 dicembre 1988. Avevo 4 anni. E il Papa era Giovanni Paolo II e andò a Fermo e a Porto San Giorgio. Nelle Marche. Fece una visita al duomo. E poi andò a far visita ai figli di Jahvè.
I miei mi ci portarono a vedere il Papa e io ricordo questa enorme grande folla che si muoveva come una grossa nuvola e questo Papa che scese con l’elicottero bianco dal cielo sopra una montagnola. E ricordo questo grande uomo vestito di bianco che sorrideva e salutava tutti. Aveva il volto incantato. Dall’incarnato solenne e austero. E questi occhietti limpidi e tersi. E queste guance così bianche che a guardarci il sole riflesso ti pareva di specchiarti. Poi ricordo che mio padre mi prese in braccio e mi disse: andiamo più vicino. Vidi quel Papa dal basso verso l’alto. E vedevo questa gente che si allungava col corpo. Che si genufletteva. Che lo salutava. Lo toccava. Sbracciava. Non c’era tutta quella sicurezza che c’è oggi. Quando anche per varcare una soglia, ti chiedono le impronte digitali. Eravamo più umani. E più felici.
Avevo 4 anni ma capii fin da subito che era una personalità importante. Quel giorno era accaduto qualcosa di particolare e io pensavo a come raccontarlo. A come dirlo. Al fatto che avevo vissuto qualcosa che nemmeno io sapevo bene cosa. Ma era come se dentro di me avvertissi la sensazione di voler un giorno raccontare quel fatto.
E arriviamo al 28 aprile 2024. Trentasei anni dopo vedo un altro Papa. Stavolta a Venezia. Stavolta in piazza San Marco. Stavolta è primavera. Seppure fresco, non faceva freddo come allora.
Il Papa è Francesco ed è arrivato stamattina alle 7.55 con un elicottero fatto atterrare sul cortile esterno del carcere femminile della Giudecca. Di lì a poche ore la messa delle 11 in piazza. In piazza la gente è già sistemata e io vi giuro non ho mai visto un’organizzazione del genere. Piazza San Marco dall’alto sembra una scacchiera, con ogni persona perfettamente al suo posto.
Rispetto a quando ero piccola non c’era la gente che si tuffava, scomposta e che si muoveva come in una grossa enorme nuvola. La piazza è un tripudio di festa. I cori liturgici invadono solennemente il campo. I loro cori riecheggiano nell’aria. I gabbiani si librano in volo al suon dei canti di chiesa. La gente è tutta lì ad attendere il Santo Padre. Quelle due donne sono posizionate qui dalle sette di mattina.
Anche perché qui, in Piazza, senza pass è praticamente impossibile entrare. Tutti gli ingressi sono presidiati. E il dispiegamento di forze di polizia è veramente alto.
Alle 10 e qualcosa arriva il Santo Padre. E la gente si alza in piedi. Sbraccia. Fa festa. La festa è composta. Lui attraversa l’area con la sua papamobile. Sorride. Saluta tutti. Ha il volto fiero. Sorridente. Calmo. Tranquillo. Sembra quasi un bambino in gita a Venezia. Poi la messa. I canti. I cori. Una donna si sente male. Un bambino viene sorretto dai genitori. Mi serve un caffè. E mi dicono che c’è una sala stampa fantastica rigorosamente attrezzata. I parroci ci hanno preparato quel caffè caldo dentro ai termos, che vi giuro è il più buono del mondo. Il più buono che io abbia mai bevuto. Poi arriva l’ora del saluto. Il Papa torna indietro. Attraversano la piazza il ministro Carlo Nordio. Il presidente Luca Zaia. Il sindaco Luigi Brugnaro. Tutti vestiti impettiti. Fieri, sorridenti. Il Papa entra dentro la Basilica. Ce l’ho qui davanti a me.
Poi prende la via del ritorno. Sale sull’elicottero. L’elicottero sorvola sopra Piazza San Marco, un giro. I fedeli salutano. Prende e se va. Tra 90 minuti sarà in Vaticano.
Questa volta non sono la bimba piccola che lo guardava dal basso verso l’alto. Questa volta sì. Ho trovato il modo di raccontarlo.
Sgattaiolo fuori. E mi passa un uomo davanti, ha una tunica nera che gli tocca terra. E un crocefisso gigante appeso al collo.

sbetti

Pezzo uscito su Libero
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A Venezia scontri tra polizia e manifestanti

Non è stata di certo una bella idea far partire il contributo d’accesso a Venezia il 25 aprile – viene da chiedersi se sia stata una bella idea il contributo d’accesso stesso – con quelli dei centri sociali che berciavano in piazza. E il nuovo ticket è entrato in vigore slalomeggiando tra proteste, polemiche, scontri con la polizia, qualche furbetto e la solita maledetta dannata burocrazia. Alè. Ma andiamo con ordine.

Da ieri a Venezia è entrato in vigore il contributo d’accesso, appunto, quel balzello – ne abbiamo parlato ieri appunto – che viene fatto pagare ai turisti mordi e fuggi, ossia quelli che arrivano in città al mattino e se ne ripartono la sera. Il ticket costa 5 euro, e chi non lo paga rischia una sanzione da 50 a 300 euro. Accipicchia. Però ieri mattina, i veneziani, anziché svegliarsi rincuorati, son caduti dal letto, disturbati più che altro dall’eco degli scontri che stavano avvenendo in città. Fischi, cori, grida, bandiere. I manifestanti, circa 800, compresi quelli “No grandi navi”, si sono radunati in piazzale Roma, per esprimere tutto il loro disappunto sul contributo e hanno cominciato ad avanzare verso il centro. Al che, è dovuta intervenire la polizia in tenuta antisommossa con caschi, scudi e manganelli. 

A essere attaccato è stato principalmente il sindaco lagunare Luigi Brugnaro, e l’idea di una città trasformata in un parco divertimenti. Tra l’altro, “Venezia non è Disneyland”, è proprio il titolo di una pagina Facebook molto seguita in città che denuncia proprio i turisti mordi e fuggi, quelli che si tuffano dai ponti o quelli che impiastricciano le vetrine con le mani sporche di gelato. Ma tant’è. 

Lo slalom poi è proseguito tra i totem esplicativi del contributo, posizionati proprio qui, fronte stazione Santa Lucia, tra i gazebo biglietteria allestiti ad hoc, e tra quella miriade di turisti scesi dai treni a lunga percorrenza, che invadeva la città trotterellando con le valigie. Una seconda manifestazione più pacifica, è stata quella di alcuni comitati cittadini, contrari al ticket, e che si sono posizionati vicino ai gazebo. Qui, tra totem di diverso colore, verde per i residenti, arancione per i turisti, azzurro per i gitanti, e tra steward e gente col naso per aria come a dire: “Dove son capitata”; ecco qui alt, fermi, i controlli. Allora: chi pernotta in una struttura ricettiva in città, e quindi paga già la tassa di soggiorno di 3 euro, non deve pagare il ticket. Chi ha l’esenzione, deve mostrare il Qr code dell’esenzione stessa. Esenzione che viene chiesta accedendo sul sito del comune. Chi ha meno di 14 anni basta che faccia vedere la carta d’identità e chi invece non dorme a Venezia ed è straniero, o viene da fuori regione, ecco, bè deve pagare i 5 euro. Perché c’è gente che non rinuncia a mettere piede a San Marco, nemmeno, nelle giornate di maggiore affluenza, anche a costo di pagare il biglietto. Il contributo, infatti, è stato concepito proprio nei giorni da overbooking, e in tutto, per ora, sono state previste 29 giornate.

Ma a Venezia ieri, dati aggiornati alla mano, sono arrivate 113 mila persone e di queste solo 15.700 hanno pagato il ticket. Il che vuol dire che 1 su 10 ha pagato, tutto il resto nisba. Balzano all’occhio i 40 mila turisti che dormono in albergo, i 2.100 parenti di residenti e i 2.000 amici di residenti. Mancano, si fa per dire ovviamente, gli amici degli amici dei parenti perché la cosa difficile è districarsi nella miriade di esenzioni previste. “Non si è mai fatto nulla per regolare il turismo ed era necessario fare qualcosa – ha detto Brugnaro – la paura del cambiamento è legittima, ma se la paura blocca, non c’è progresso. Oggi spendiamo più soldi di quanti ne incassiamo, ma questa non è una spesa è un modo per far capire che bisogna cambiare, evitando gli intasamenti. Non abbiamo più i finanziamenti della legge speciale per Venezia, nonostante vengano trovati per il ponte di Messina”. Così. Boom.

Serenella Bettin 

Oggi su Libero

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A Venezia si entra col biglietto

Canal Grande with Basilica di Santa Maria della Salute in Venice, Italy

Oggi chi voleva visitare Venezia ha dovuto pagare il biglietto.

Si chiama contributo d’accesso e alla fine, tra svariate polemiche, è entrato in vigore. Ventinove sono le giornate in cui è previsto il balzello. Balzello che colpisce saltuariamente, ma ovviamente nei giorni giusti, ossia nelle giornate con maggior affluenza, che coincidono con festività e ponti. Dovranno pagarlo solo i visitatori che si recano nella città in giornata, quindi – bada bene – non coloro che pernottano in laguna, e costerà 5 euro. L’obiettivo è quello di avvalersi di un deterrente economico per scoraggiare quei famosi turisti giornalieri, quelli mordi e fuggi per intenderci, che affollano la città con le gite fuori porta, che nascono e muoiono in giornata. Soglie massime o limiti alle presenze non sono state previste. Ma andiamo con ordine. Passo dopo passo. 

Intanto chi deve pagarlo. Lo devono pagare tutti quelli maggiori di 14 anni che vanno a Venezia in giornata. Il biglietto è obbligatorio se entri in città con qualsiasi mezzo, e quindi in auto, moto, treno, aereo o in traghetto, dalle 8.30 del mattino alle 16, in una di quelle giornate in cui è previsto il contributo d’accesso. Quali sono queste giornate. Come vi accennavamo prima, sono ventinove e sono: domani per l’appunto (25 aprile) oltre che 26, 27, 28, 29 e 30 aprile. Poi: l’1, il 2, il 3, il 4 e il 5 maggio. E l’ 11, il 12, il 18, il 19, 25 e 26 maggio. A giugno, invece, i giorni interessati dal balzello sono: 8, 9, 15, 16, 22, 23, 29 e 30. E a luglio il 6, il 7, il 13 e il 14. Per ora questi, e poi si vedrà, il tutto è in corso di sperimentazione. E per quest’anno, il biglietto non servirà per accedere alle isole minori.  Occhio, perché chi entra in città senza ticket rischia una sanzione dai 50 ai 300 euro, più il costo del biglietto ovviamente, che, lo ripetiamo, è pari a 5 euro. 

Chi non deve pagare invece. Non pagano il contributo (e non devono nemmeno richiedere l’esenzione, che poi vi spieghiamo come si fa) i minori di 14 anni (ovviamente) e i titolari della Carta europea della disabilità e relativi accompagnatori. Non lo devono pagare nemmeno i turisti che pernottano a Venezia, dato che per loro c’è già la tassa di soggiorno da 3 euro, a notte, a persona, ma questi devono essere registrati sul portale della città. Per chiedere l’esenzione invece, si accede sul sito del Comune di Venezia (www.comune.venezia.it), si clicca sopra “Contributo d’accesso” e si scorre fino a “Vai a esenzioni”. Qui, se sei un ospite in un albergo o altra struttura ricettiva, se sei un parente, un residente o nato nel comune di Venezia e in Veneto; se sei un lavoratore (anche gli amministratori in visita istituzionale), uno studente, uno sportivo, un proprietario di un immobile, uno che fa visita in carcere, un volontario, o addirittura se sei un residente a Venezia e devi invitare amici e conoscenti, devi richiedere l’esenzione. Per pagare invece, accedi sempre al portale, clicca su “Vai al pagamento del contributo”, scegli la data in cui vuoi andare, inserisci i tuoi dati, clicca “procedi” e paga. 

Serenella Bettin 

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Più bestia dell’orso, c’è soltanto l’uomo

Jurka (madre di JJ4), trasferita nel 2010 nel parco della Foresta Nera

Era andato a fare una corsa nei boschi vicino casa, a Caldes. Provincia di Trento. Ma nella discesa era avvenuto l’incontro con Jj4. Dapprima lui aveva cercato di fuggire, poi di difendersi. Ma è stato tutto vano. L’orsa l’ha aggredito e Andrea Papi, 26 anni, è morto. Era il 5 aprile scorso.

All’indomani della sua morte i suoi social, tra i tanti commenti di dolore e condoglianze, erano stati riempiti di offese e insulti. I parenti hanno denunciato e ora ci sono 18 indagati.  Un malcostume sempre più diffuso quello di prendere posizione nei social, di parlare di cose senza averle viste. Nel dibattito becero e superficiale che dimentica di scavare il possibile e il difficile equilibrio tra la natura e l’uomo, c’era chi sosteneva che era stato Papi a invadere la terra dell’orso e chi sosteneva che era stato l’orso a invadere la terra di Papi. Quando accadono queste cose, come in una grande partita allo stadio, gli utenti del web si dividono in tifoserie e non c’è verso di fermarli. 

La morte di Papi aveva esasperato i toni, mettendo in risalto la natura di noi esseri umani – a volte più orsi degli orsi stessi – facendo emergere meccanismi perversi e manipolatori. Chi aveva seguito i social in quelle settimane poteva rendersi conto di come qualunque persona potesse dire la sua, arrivando a calpestare il dolore di una famiglia. Ma il terribile dibattito, diviso tra chi vedeva l’orso come Yoghi e il runner come carnefice, era carico di odio. Molti avevano insultato e offeso quel ragazzo costringendo la famiglia a scrivere una lettera.

“Visto il comportamento degli haters – avevano scritto – la famiglia ritiene ora di dover tutelare la memoria di Andrea richiedendo all’autorità giudiziaria di verificare la correttezza o meno di ogni singolo commento postato in rete da coloro che, senza rispetto alcuno per la memoria di Andrea, lo descrivono nei modi più beceri. La famiglia Papi, che ama gli animali e la natura, ha sempre chiesto rispetto e giustizia per sé e per Andrea”. Per i familiari, l’odio riversato era come “un secondo dolore derivato dalla moltitudine di commenti aggressivi, sconsiderati e denigratori della memoria di Andrea”, che, a detta di genitori, sorella e fidanzata, “muore per la seconda volta, vittima ora non tanto dell’orso ma dei leoni da tastiera”. E di leoni infatti, più che di orsi, ce ne sono tanti. Tanto che ora la procura di Trento ha chiuso le indagini e ci sono 18 indagati per diffamazione. Tra queste c’è anche Daniela Martani, ex hostess Alitalia e personaggio televisivo e radiofonico. Martani ha scritto su Facebook: “Sono stata denunciata dalla famiglia di Andrea Papi, il ragazzo ucciso dall’orsa (?) per aver espresso un parere che metteva in dubbio la veridicità della questione, una follia. Ormai la denuncia per diffamazione è diventata un’arma per intimidire chi contesta o ha una visione diversa dei fatti. Chiunque sia stato denunciato, mi contatti, ho già messo in piedi una strategia legale con il mio avvocato che può difenderci in blocco”. La Martani ha chiesto aiuto per una tutela collettiva. Ma dinanzi a questo, la fidanzata di Andrea, Alessia Gregori, non ha esitato a farsi sentire e nei suoi social ha scritto: “Adesso chiede solidarietà, invece sarebbe necessario collegare il cervello prima di parlare, invece che piangere sul latte versato adesso è ora di pagare tutto il dolore che avete causato, tu e tutti gli altri”. La Martani è stata denunciata per aver messo in discussione la veridicità dell’accaduto. Definendo la morte di Papi una “speculazione del dolore” e affermando che l’animale non avesse colpe. E c’è un altro post che all’epoca fece discutere. Scrive la Martani il 20 aprile scorso: “Andrea Papi non era andato a correre ma si era addentrato nel bosco per cercare l’orsa con i cuccioli e fotografarli? Guardate l’ombra nel suo ultimo video postato poco prima di morire. Si vede chiaramente che indossava un cappotto da appostamento pesante”.

Ieri, dopo la chiusura delle indagini, la Martani scrive così: “La fidanzata di Andrea Papi è una ragazza piena di odio e livore, rispecchia in pieno la personalità di chi è stato rieletto in Trentino. Vuole a tutti i costi vendetta”. Poi il post è stato cancellato.

Serenella Bettin

Libero 14 marzo 2024

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La baruffa chioggiotta per la casa agli immigrati

Libero 13 marzo

La lite emersa tra la nota immunologa Antonella Viola e la Cgil, su di chi sia il merito per aver trovato la casa a una famiglia di immigrati, sembra la storia di quello che fa la carità in chiesa e sulla busta ci mette il suo nome, così da far sapere al prete che il donato proviene da lui. Una classica storiella all’italiana dove quando si fa del bene non lo si fa per farlo, ma per dire che lo si è fatto. Il caso dell’aiuto ai comuni terremotati, per esempio, seguito dal comunicato stampa. Del resto, questa è l’Italia, bellezza.

Ma cosa è successo. 

La storia risale all’autunno scorso. Siamo a Padova. E una famiglia di tunisini fatica a trovare casa. Lui è un operaio edile. Lei ora ha da poco trovato lavoro come cameriera. E insieme hanno due bimbi piccoli. Quando sono arrivati in Italia erano stati inseriti nel sistema di accoglienza, solo che poi lui ha trovato lavoro con tanto di contratto con una ditta del padovano e quindi il Cas che prima li aveva accolti, li ha poi “rilasciati” per strada. Per mesi hanno faticato a trovare casa, arrivando a dormire anche in auto. O a giacere davanti a un bar, così da poter scaldare l’acqua per il latte in polvere della figlia più piccola. Poi la macchina della solidarietà si è mossa e la famiglia ha finalmente trovato una abitazione. 

Ora, la notizia dovrebbe essere che questi due bambini e i loro genitori finalmente hanno un tetto sopra la testa e invece no, perché, nel mondo dove contano più i like che la sostanza, è diventata una baruffa – quasi chioggiotta alla Goldoni – tra chi ha fatto cosa e perché. 

La storia della famiglia è stata raccontata sul portale Collettiva.itdella Cgil nazionale, lunedì scorso, e fa così: “Haddad e Asma hanno due bambini piccoli. Vengono dalla Tunisia, lui è un operaio edile, lei ha da poco trovato lavoro come cameriera. Sono usciti dal sistema di accoglienza perché Haddad ha firmato un contratto per una ditta dell’alto Padovano, eppure per mesi non sono riusciti a trovare una casa per loro e per i loro figlioletti”. E fin qui tutto. Ok. Solo che poi la Cgil ha scritto: “Poi la Fillea Cgil, insieme a Caritas e Avvocati di strada, è riuscita a trovare una soluzione”. Da qui apriti cielo. Antonella Viola nel leggere queste parole è sbottata. Forse giustamente. E ci ha messo il carico da 90. 

“Avevo deciso di tenere questa cosa assolutamente privata e riservata – scrive la Viola nella sua pagina Facebook- ma oggi l’indignazione è tale che mi sento di raccontare la verità. Io e mio marito abbiamo tolto dalla strada la famiglia di Asma, portandoli dapprima in casa nostra, dove abbiamo convissuto per un mese, e poi comprando un appartamento che andasse bene per le loro esigenze per poterlo affittare a un prezzo onesto. Non ho mai visto la Cigl, né la Caritas né alcuna altra associazione. Ho speso tantissimo tempo nel girare di agenzia in agenzia per trovare una soluzione confortevole, rapida e alla portata delle mie risorse economiche. La situazione di questa famiglia l’abbiamo risolta io e mio marito, senza ricevere alcun aiuto. Ho voluto farlo in silenzio perché le cose importanti non si fanno per raccontarle ma per il loro valore. E mai ne avrei parlato se non avessi letto queste falsità. Assurdo speculare sul dolore. Assurdo prendersi meriti inesistenti”. 

La Viola inoltre ha anche ripreso parte della nota della Cgil scritta nel sito Collettiva.it, commentando: “Bellissimo, peccato che sia tutto falso”. Così la Cgil ha corretto il tiro aggiungendo all’articolo le parole: “Una soluzione si è trovata grazie all’interessamento di una privata cittadina”. Insomma da un lato la Cgil che dice che si sono adoperati loro per trovare casa a questa famiglia. E dall’ altro la Viola che rivendica la paternità dell’opera pia compiuta con il marito Marco Cattalini. La Cgil quindi si è scusata e la Viola nella serata di lunedì ha scritto: “Per correttezza voglio farvi sapere che abbiamo ricevuto le scuse da parte di Fillea Cgil per il testo poco opportuno col quale si accompagnava per altro un video molto importante. Va bene così. Da parte mia sono solo felice di aver dato una mano a una famiglia nel momento del bisogno. Quindi buon lavoro a tutte le donne e gli uomini di buona volontà”. La Cgil poi ha fatto sapere che c’è stato un malinteso e che loro volevano solo accendere i riflettori sul tema dell’emergenza abitativa. Solo che ora i riflettori si sono accesi su un’altra questione. E invece per noi Viola o Cgil poco importa. La cosa essenziale è che questa famiglia ora abbia un tetto sopra la testa. 

Serenella Bettin 

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Arriva l’app anti aggressioni

Un incontro fortunato in stazione a Bologna. Così all’improvviso. Senza saperlo. Fermo due ragazze perché sto facendo un servizio sulla sicurezza. E scopro che una delle due Isabella Grazioli, con il suo fidanzato, si è inventata un’app anti aggressioni.
Lei è un vulcano. Un portento.
Perché immaginate di essere da soli, di sera, in giro per una città come Milano.
Ma potrebbe essere anche Padova, Bologna, Vicenza, Firenze, Roma.
Qualcuno inizia a seguirti e tu non sai cosa fare.
Il respiro che si fa affannoso.
Il cuore che comincia a pulsare a mille. Il passo che aumenta. E la paura che si trasforma in panico. In quel momento vorresti urlare, chiamare aiuto, far sapere a qualcuno dove sei, ma dove? Nelle situazioni di pericolo non sempre si riesce a mantenere la lucidità. Ma soprattutto come fai a chiamare? Ti metti a scorrere la rubrica del telefonino con le dita che tremano?
Basterebbe premere un pulsante che facesse sapere in tempo reale alle persone la tua posizione, di modo che qualcuno ti possa venire a salvare. Esiste. Veramente.
L’idea è di una coppia di Vicenza. Isabella e Vittorio Trettenero. Ed è un’app @imnotscared.app…
Io l’ho scaricata. E funziona veramente.
Perché “Tutte e tutti abbiamo il diritto di sentirci al sicuro”… Può capitare a chiunque, donne, uomini, di trovarsi in una situazione di pericolo…
Il mio pezzo oggi su Libero

Articolo

Sei per strada e sei in pericolo, chi chiami? Che fai? Immagina di essere da sola, o anche da solo, di sera, in giro per una città come Milano. Ma potrebbe essere anche Padova, Bologna, Vicenza, Firenze, Roma. Qualcuno inizia a seguirti e tu non sai cosa fare. Il respiro che si fa affannoso. Il cuore che comincia a pulsare a mille. Il passo che aumenta. E tu che temi il peggio. In quel momento vorresti urlare, chiamare aiuto, far sapere a qualcuno dove sei, ma dove? Nelle situazioni di pericolo non sempre si riesce a mantenere la lucidità. Ma soprattutto come fai a chiamare? Ti metti a scorrere la rubrica del telefonino e con le dita che tremano cerchi il numero di qualcuno? Basterebbe premere un pulsante che facesse sapere in tempo reale alle persone la tua posizione, di modo che qualche buon’anima ti possa venire a salvare. Impossibile? No assolutamente.  L’idea è venuta a una coppia di Vicenza, lui e lei. Coppia nella vita, anche. Lei 24 anni, si chiama Isabella Grazioli. Lui di anni ne ha 25 e si chiama Vittorio Trettenero. Un giorno – era il luglio 2022 – raccogliendo le olive, si son fatti venire in mente un qualcosa che potesse aiutare le persone in caso di pericolo. E a quell’idea hanno dato un nome e una forma. 

Si chiama “I’m not scared”, che tradotto vuol dire “Io non ho paura” ed è un applicazione già disponibile. “Io e il mio ragazzo – spiega Isabella a Libero – continuavamo a sentire storie di violenza nella nostra città, la donna che andava a passeggio e veniva aggredita, quello che andava a correre e veniva seguito, chi andava a portare a passeggio il cane e veniva molestato, ma sempre ne sentivi, di continuo, di giorno, di sera, di notte, così volevamo creare un qualcosa che potesse essere utile alle persone perché quando senti così tante storie di violenza nella tua città cominci a farti qualche domanda e abbiamo creato questa applicazione”. Ma come funziona. 

Io l’ho scaricata e funziona veramente. Praticamente si scarica l’app dall’App Store. A marzo sarà disponibile anche in Android. Ci si registra. La registrazione è gratuita. Si inseriscono il numero di telefono, il nome, il cognome, l’indirizzo mail e da lì si aggiungono i contatti delle persone a noi vicine che si vorrebbero avvisare in caso di pericolo, quindi per esempio la mamma, il babbo, lo zio, il fidanzato, la morosa, l’amica e perché no anche l’amico palestrato che in caso di pericolo possa difenderti. Da qui l’applicazione si apre, tramite la geolocalizzazione individua la tua posizione e sotto in basso compare un pulsante viola con la scritta SOS. “In caso di pericolo – mi spiega sempre Isabella – basta semplicemente schiacciare questo tasto Sos e l’applicazione manda simultaneamente un messaggio ai contatti che hai inserito con la tua posizione e fa partire contemporaneamente le chiamate. Le persone da chiamare le scegli tu, in base anche al posto dove ti trovi. Io ora vivo a Milano per esempio e ho inserito tutte le persone che potrebbero essermi d’aiuto nel caso fossi in pericolo”. 

Io ho provato, e in un nano secondo la chiamata alla mamma è partita veramente. Non solo, le è anche arrivato il messaggio di dove ci trovassimo in quel momento. “Prendo l’auto e arrivo?”. “No no tranquilla stavo facendo una prova”. Ok era un falso allarme ma di questi tempi può veramente capitare a chiunque. Basta farsi un giro per Milano, Bologna, perfino in pieno giorno non si riesce a camminare tranquilli senza incappare in qualcuno che ti voglia vendere droga fumo, o qualcuno che ti segua, che ti molesti, che ti aggredisca. 

E ultimamente, troppo spesso, si rischia anche di imbattersi con qualche delinquente che ti violenta. “Ma può capitare a chiunque – continua Isabella – non solo alle donne, anche agli uomini, tutti possono sentirsi in qualche momento in pericolo. Ma insieme possiamo fare la differenza”. E infatti il suo motto è proprio questo. Perché come spiega nel canale social relativo all’app (@imnotscared.app): “Tutte/i hanno il diritto di sentirsi al sicuro”. 

Cinque giorni fa Isabella ha intervistato un ragazzo di Milano, Lorenzo, il cui video è stato postato su Instagram, e gli ha chiesto se a Milano lui si senta al sicuro, sì insomma se gli è mai successo di tornare a casa la sera e di avere paura. “Anche se non ha mai vissuto esperienze spiacevoli – ha raccontato Lorenzo – ho amici che vivono verso il quartiere Certosa e che sono costretti a cambiare strada per evitare di essere importunati”. Se poi sia normale vivere in queste condizioni, questo è un altro discorso.

Serenella Bettin 

Libero 28 febbraio 2024
Galleria

Centocinque anni: sopravvissuto ai gulag russi

Quando arrivo nella sua casa di Villanova di Camposampiero nel padovano, Giuseppe Bassi, 105 anni, compiuti il 3 febbraio scorso, sta leggendo il giornale. Non capita tutti i giorni di incontrare un tale miracolo della natura. Un uomo che ti stringe la mano con ancora una tale foga addosso.
Le braccia spalancate che agguantano le pagine e quel volto immerso tra la carta, dipingono un’immagine che mai si vorrebbe vedere annacquare. E non posso pensare di raccontare la sua vita con i colori dell’acquarello perché per quegli anni lontani devo usare soprattutto il nero: la prigionia, la sofferenza, il dolore, la tragedia. Colore che lui – uno degli ultimi, se non l’ultimo per davvero, sopravvissuti italiani ai gulag russi – dopo la liberazione, ha intonso e amalgamato con i colori dell’ocra, dell’oro e dell’argento, e della sua vita ne ha fatto un capolavoro.
Due figli, Carlo e Alberta; tre nipoti.
Benedetta, pensate, che sta in questi stessi metri quadri, è nata, dopo 100 anni, il giorno prima del nonno. Qui sotto lo stesso tetto.
La vita che scorre, l’una il prolungamento dell’altra.
Gigante negli anni, minuto nel fisico, ancora per colazione ogni mattina rigorosamente beve latte e Nesquik con sbriciolati dentro otto biscotti. Appena entro nel salone, si alza, balza in piedi, mi accoglie.
Fatto prigioniero dalle truppe russe e deportato nei campi di concentramento, in prigionia ci rimase 42 mesi, dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946 passando per i campi di Tambov, Oranki, Suzdal, Vladimir, Odessa e San Valentino.
E questa è la mia intervista uscita su Libero

La prima domanda sorge quasi spontanea. 

Ma dove la trova la forza a 105 anni? 

“I 105 non li sento come peso. Si affronta la vita in modo normale, come si era vissuti prima, si continua a vivere con quella normalità”. 

Bassi, una vita tanto normale non direi, ha fatto la campagna di Russia…

“Sì, ho fatto il mio dovere di militare, ero sottotenente e ne sono uscito vivo”. 

Quando capì che l’avrebbero spedita in Russia? 

“Ma in realtà sono stato io. Ricordo che il 3 febbraio 1942 incontrai un vecchio maresciallo della caserma di Padova. Aveva in mano un foglietto: stava arruolando qualche soldato per andare in un reggimento che sarebbe partito per la Russia. Allora gli ho detto che mettesse in nota anche me perché volevo essere come tutti gli altri. La sera quando tornai a casa raccontai a mio padre il fatto e lui mi disse: se questa è la tua volontà”. 

E poi cosa accadde? Come è finito nei campi di concentramento? 

“A dicembre arrivò la chiamata. Noi eravamo in linea sul Don, vede qui da questa cartina… dal fronte del Don fino alla valle di Arbusowka, la valle della morte, nei giorni precedenti si era scatenata l’offensiva russa e qui mi hanno fatto prigioniero”. 

Che giorno era?

“Era la Vigilia di Natale del 1942”. 

Le va di raccontarci come l’hanno presa. 

“Siamo stati circondati ad Arbusowka, abbiamo resistito alcuni giorni senza mangiare, dormendo al ghiaccio. Dopo alcuni giorni però ci siamo dovuti arrendere, non avevamo cibo, da bere, non avevamo armi per difenderci. Ci avevano ormai stretto in una tenaglia; tre carri armati tedeschi in nostra difesa ci giravano attorno ma finita la benzina è avvenuta la resa”. 

E da lì?

“Da lì, dalla valle della morte fino ai lager il percorso fu tutto a piedi”. 

A piedi? 

“Sì, molti morirono durante le marce, almeno ventimila persone morte nel tragitto per raggiungere i campi. Insomma, era dura. Poi una volta giunti nei campi, durante il giorno si lavorava con turni massacranti”. 

Vi davano da mangiare? 

“Sì, un tè caldo al mattino, un pezzetto di burro e un pezzo di pane. A mezzogiorno c’erano zuppa e cassia, sa cos’è la cassia?”. 

No… 

“Era una polentina di miglio, avena, orzo, grano e mais. Abbiamo vissuto così per quattro anni ma ci sono stati prigionieri che sono stati trattenuti e hanno fatto quattordici anni di prigionia. E dire che nel mio campo non ci furono episodi di cannibalismo”. 

Mio Dio. E dove?

“Vicino al mio, quello di Crinovaia. C’era una grande ex caserma della cavalleria dello Zar e in questi capannoni sono finiti circa 30 mila prigionieri del Corpo d’Armata Alpino. Qui si sono trovati alla mercé di soldati russi crudeli e fanatici. Siccome da mangiare non ce n’era, per cibarsi andavano alla ricerca di polmoni, fegato, parti del corpo che si potessero cuocere con facilità. Squartavano i cadaveri e quello era il loro cibo”. 

Se la sente di raccontarci la vita nel campo? 

“Si lavorava duro. E si scavavano le fosse comuni dove buttare i corpi. Ma io avevo localizzato la zona dove scavavamo le fosse, e questo fu fondamentale”.

Si spieghi meglio.

“Io ho sempre fatto il geometra. E lì disegnavo sulle cartine delle sigarette, era l’unica carta che avevo, ogni Natale facevo un disegno della prigionia. Disegnavo l’interno del campo. Ne facevo settanta, ottanta copie e le mandavo agli amici e grazie ai miei disegni – vede questi? – vede – vede – Ecco, grazie a questi disegni, dove magari indicavo il segnale della direzione del vento, poi è stato possibile rinvenire le fosse comuni”. 

Oh mio Dio, questa storia è bellissima. 

“Adesso alcuni miei disegni sono contenuti all’interno del museo del campo di Suzdal con una sezione dedicata”. 

È più tornato lì? 

“Sì due volte, sono cittadino onorario dal 2004. E dire che sono vivo grazie a un anello”. 

Ce la racconti. 

“Quella mattina mi avevano tirato fuori dalla fila per fucilarmi, facevano così loro, poi il soldato russo si è accorto che alla mano avevo un anello. Lui diceva: “Davajte” che significa dammelo in russo. Io gliel’ho dato, lui si è dimenticato del kaput e io sono ancora vivo. Sa i russi erano molto attenti agli oggetti di valore. Come agli orologi da polso”. 

Lei ne aveva uno? 

“Sì, ce l’ho ancora, glielo prendo. Per i russi l’orologio da polso era una rarità, loro non li avevano. Siamo stati noi soldati a portare gli orologi. Un orologio era valutato anche tre chili di zucchero e quando l’ho saputo ho preso l’orologio e me lo sono nascosto nella scarpa, così ero l’unico a sapere sempre l’ora”. 

E da qui il nome del suo docufilm? Perché lei ha fatto anche un film. 

“Eh sì, i miei compagni di stanza mi chiedevano: “Bassi! L’ora?”. E da qui il film “Bassil’ora”. Poi il 4 novembre di due anni fa mi fecero Cavaliere della Repubblica Italiana”. 

Quando la rilasciarono dal campo di prigionia?

“Dopo quattro anni, il 7 luglio 1946, dopo quattro anni tornai a casa”. 

La guerra, le guerre… nel 2024. Che effetto le fa?

“La guerra ancora nel 2024 non è possibile. Per quanto riguarda la Russia, io so cosa significa Russia. Per il resto, guardo le immagini, torno indietro con la testa e non posso non pensare alla guerra come a qualcosa che faccia soffrire”. 

Serenella Bettin 

sbetti

Libero, 16 febbraio 2024

Eccola qui l’Eurabia: piazza Duomo, Milano. Capodanno 2024

Pezzo uscito su Libero, 2 gennaio 2023

Oriana Fallaci lo aveva predetto. E la sua non era un’invenzione. Eccola qui l’Eurabia. Piazza Duomo. Milano. Capodanno 2024. Allo scoccare della mezzanotte – noi di Libero eravamo presenti – non c’era nemmeno un italiano a pagarlo oro. Eccola qui l’Eurabia che prende forma, che riempie le nostre piazze, che si impossessa delle nostre tradizioni e ci impone i suoi costumi. Eccola. Una piazza italiana, come quella meneghina, dove a festeggiare sono solo gli stranieri. Sono loro che si sono presi le nostre piazze. La lunga processione verso il cuore di una delle città più belle d’Italia comincia già alle cinque del pomeriggio. Scendiamo in stazione Centrale e miracolosamente non è come tutti gli altri giorni, quando appena metti il naso fuori, devi fare lo slalom tra gli immigrati che dormono per terra e bivaccano sui marciapiedi. Qui, oggi, si sono già messi tutti in cammino per raggiungere la piazza dove sorveglia la Madonnina. Le bottiglie rotte per terra. La città spenta e frastornata dal fragore dei primi petardi. Le loro grida. Le loro forsennate urla. E le bandiere. “Milano oggi – per loro – è come Baghdad”, scrivono nei video che circolano in rete.

A mezz’ora dalla mezzanotte li vedi gli immigrati entrare in Galleria Vittorio Emanuele II per andare ad ammassarsi in piazza Duomo. Arrivano a frotte. Non li ferma nessuno. Sono dieci, venti, cento, mille. Sono tantissimi e come in un pullulio costante e intenso invadono lo slargo. Acquartierate attorno alla piazza, ci sono le baby gang e le bande dei ragazzini di seconda generazione. Fumano. Bevono. Girano canne. Urlano. Gridano. Il Capodanno è il loro. La piazza anche. “Io italiano! Io italiano! Questa casa mia”, ci grida in faccia un ragazzo marocchino. C’avrà all’incirca 16 anni. Attorno a lui i suoi amici con bottiglie di birra, pezzi di vetro e petardi in mano. Poco distante una famiglia di stranieri, forse inconsapevole di quello che sarebbe stata piazza Duomo, con i figli piccoli accanto, attoniti e frastornati dal rombo dei botti. Il boato si propaga in galleria. E il frastuono spacca i timpani. Ma manca veramente poco, la polizia di Stato è schierata in tenuta antisommossa. Caschi, scudi, manganelli. In Galleria ora non fanno entrare più nessuno. Chi fa il furbo viene ripreso. I ragazzini stranieri, prevalentemente arabi, sono tantissimi. La polizia avanza tra la folla. E procede verso la piazza. Noi dietro di loro. Formano un cordone tutto attorno per cercare di sedare gli animi e di scongiurare il peggio. Come quello che era accaduto due anni fa. Capodanno 2022. Ce lo ricordiamo tutti. Lo stupro di gruppo. Il taharrush jamai, una pratica conosciuta nei paesi arabi che significa molestia collettiva. Passata la mezzanotte, i ragazzini espletano i loro bisogni accanto alle colonne della piazza. Lo spettacolo è indecente. E come al solito è lo scontro di civiltà che esplode. Nel quartiere San Siro, scoppia la guerriglia. Lo scontro, ancora una volta, è tra la polizia e gli immigrati. I giovani cercano di aggredire gli agenti. E i fatti più gravi avvengono nella zona di via Zamagna, una delle strade più pericolose del quartiere. Alcuni qui avevano accatastato mobili e rifiuti al centro della strada per fare un falò allo scoccare dell’anno, ma gli uomini della polizia di Stato sono intervenuti nel giro di breve. Pochi minuti dopo, i poliziotti vengono presi a sassate e il furgone che li trasportava viene danneggiato: uno dei vetri va in frantumi, fortunatamente senza danno per i passeggeri. Molti di questi episodi di violenza sono stati ripresi nei video divenuti virali sul web. In uno addirittura si vede un ragazzo che spara dei colpi in aria con una pistola. “In alcuni quartieri di Milano le tensioni e l’odio verso la polizia crescono – scrive Silvia Sardone, consigliere comunale d’opposizione di Milano che ha postato il video – nel disinteresse della giunta di sinistra in città”. E ancora: “San Siro da tempo sembra fuori controllo, con sempre più stranieri e giovani di seconda generazione ostili alle forze dell’ordine e che fanno della delinquenza il proprio mestiere”. Nei video spuntano anche le scritte “Baghdad”, come a dire che Milano, questa notte, è come la capitale irachena. Il bilancio della nottata ha visto oltre 1500 persone controllate e 3 denunciate per il porto di oggetti atti a offendere. Più una persona denunciata per accensione ed esplosioni pericolose. Altri sei giovani sono stati accompagnati in Questura perché sprovvisti di documenti. Sì era vero quello che diceva Oriana. Un nemico “che scorrazza a suo piacimento”, senza esibire alcun documento.

Serenella Bettin

Libero, 2 gennaio 2023

“Io rapinato. Non ho più un soldo e devo risarcire i rapinatori”

La mia intervista uscita su Libero il 7 dicembre 2023

Via Garibaldi 71, dove raggiungiamo Mario Roggero, a Grinzane Cavour in provincia di Cuneo, è la via principale del paese. Impossibile, pensi, che qualcuno si sogni di assaltare una gioielleria in pieno centro. Eppure. Eppure erano le 18.36 di mercoledì 28 aprile 2021. Tre uomini a volto coperto fanno irruzione nel negozio di Roggero. Prima entra uno. Poi un altro. Il primo minaccia la figlia di Roggero con una pistola. La lega con delle fascette. L’altro aggredisce la moglie minacciandola con un coltello alla gola. E un altro è in auto. La rapina dura sei minuti. I momenti sono concitati, lui non sa che fare. Quando i banditi sgusciano fuori, Roggero prende la pistola, esce dal retro del negozio e li insegue sparando i colpi della sua 38 special. Due rapinatori, Giuseppe Mazzarino di 58 anni, e Andrea Spinelli di anni 44, muoiono. Il terzo, Alessandro Modica, rimane ferito a una gamba. Lunedì 4 dicembre scorso, la Corte d’assise di Asti ha condannato Roggero a 17 anni di reclusione, oltre alle spese processuali, spese legali, al risarcimento dei danni, e alle provvisionali “immediatamente esecutive”. Il tutto, come risulta dal dispositivo, per un totale di: 502.120 mila euro. Oltre mezzo milione. “Io non ho più un soldo – racconta Roggero a Libero – Non ho più niente. Ho due mutui ipotecari sulla casa”.

Lei aveva già versato 300 mila euro ai parenti dei rapinatori.

“Sì quelli erano i due alloggi di mia madre. E mi sono indebitato con le banche di altri 300 mila euro”. 

Ma queste provvisionali, sono in aggiunta ai 300 mila già versati?

“Assolutamente sì”.

Le famiglie dei rapinatori avevano chiesto molto di più.

“Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885 mila euro. Ma lei si rende conto in che Stato viviamo. Il rapinatore può chiedere il risarcimento del danno: follia. Anche perché che avrei dovuto fare in quegli attimi? Non avevo alternativa”. 

Le va di ripercorrerli?

“Ero sul retro in laboratorio, sento suonare, guardo il monitor e vedo una persona di circa un metro e 90 con un cappello ben calzato sugli occhi e la mascherina. Poi entra un altro, più piccolo, ma sempre stesso giubbotto, stesso cappello e stessa maschera”. 

Ma erano mascherati quindi? “Sì ma all’epoca ancora si usavano le mascherine. Il primo si gira, guarda l’altro, va al bancone di mia moglie e tira fuori un coltello. Passa dietro il banco, prende mia moglie per un braccio e le punta il coltello alla gola. L’altro tira fuori una pistola e la punta in faccia a mia figlia”.

E poi?

“Quello più piccolo sferra un pugno terribile alla mandibola sinistra di mia moglie. Un pugno bestiale, lei ha fatto un urlo atroce, io apro la porta, mi tuffo verso di loro e attacco il più alto”. 

A mani nude? “Si. Avevo in mente lo spavento terribile dell’altra rapina”.

Quella del 2015?

“Sì quella ci ha sconvolto la vita. Mi hanno massacrato di botte, mi hanno spaccato tre costole, il naso. Leso una spalla che ho dovuto far operare spendendo 12 mila euro, calci da rigore in tutte le parti del corpo. Una cosa bestiale. E sa quanto mi hanno dato di risarcimento?”. 

Quanto?

“Io avevo diritto a 85 mila euro e mia figlia a 15 mila. Mi hanno versato 100 euro in due tranche”.

Lei qui aveva reagito? “Erano in due a picchiarmi, alla fine mi hanno legato, perdevo parecchio sangue dal naso e ho dovuto mettere la faccia di sbieco sul pavimento perché non riuscivo a respirare”.

Invece quel giorno, nel 2021 intendo, usa la pistola.

“Quando accadono queste cose pensi a proteggere la vita dei tuoi cari. Quando i banditi sono usciti di corsa, Laura, mia figlia, era legata ma io non vedevo mia moglie. Loro sono saliti in auto e io ho visto che uno aveva ancora la pistola in mano”. 

Continui.

“Il primo colpo l’ho sparato contro lo specchietto retrovisore. Il mio obiettivo era quello. Volevo fermare la macchina. Però non riuscivo a vedere. E se ci fosse stata mia moglie lì dentro? Ho visto Spinelli che stava salendo in auto e mi puntava ancora la pistola. Così gli ho sparato nelle gambe, ma lui è alto, l’ho preso sopra l’anca”.

Ritiene di aver esagerato?

“Assolutamente no. Non vedevo mia moglie, e quando ho visto che non c’era, l’altro aveva ancora la pistola. In quel momento dovevo difendermi, perché pensi che se spara prima lui tu sei morto”.

Sparerebbe ancora?

“Col senno di poi no. Se uno punta ovvio che sparo. Che ne so se uno ha la pistola giocattolo. Io in quel momento mi sono visto morto. Quando sono uscito, io credevo che mia moglie fosse in auto con loro perché la tenevano legata”.

Lei non aveva visto che era in negozio?

“No. Altrimenti non sparavo. Io volevo solo accertarmi che mia moglie non fosse in auto”.

Cos’ha provato durante la rapina?

“Terrore”.

Lei se l’aspettava una condanna a 17 anni.

“No assolutamente. Io mentre ero lì lunedì pensavo a un’assoluzione”. 

Lei quanti anni ha?

“Fra cinque mesi faccio 70 anni, capisce, 70. Settant’anni e dopo aver lavorato una vita, sono cinquant’anni che lavoro, io e mia moglie abbiamo vissuto qua dentro, ho 4 figlie, 8 nipoti, sempre lavorato, pagato le tasse, ecco a 70 anni la mia prospettiva è di andare dentro fino a 90? Qui siamo pazzi. C’è qualcosa che non quadra. Follia totale”.

Come la vive?

“In modo drammatico, tutto questo ha rovinato la vita non solo mia, ma anche quella di mia moglie, delle mie figlie. Una figlia che lavorava con noi, ha smesso perché ha paura anche a entrare in negozio, i miei nipoti non vengono nemmeno più a trovarci. E aspetti: dopo la rapina del 2021 altre 4 spaccate a casa, oltre alle 10 precedenti in negozio. Io non ne posso più. E la giustizia protegge i delinquenti”.

Serenella Bettin

Spara ai rapinatori. Condannato a 17 anni di carcere

Da Libero del 5 dicembre 2023

La rapina è un film muto. Dura sei minuti. Sei interminabili minuti che paiono scorrere al rallentatore. Sono le 18.36 di mercoledì 28 aprile 2021. Un commando di tre uomini a volto coperto fa irruzione nella gioielleria di Roggero in via Garibaldi a Grinzane Cavour, provincia di Cuneo. Due rapinatori muoiono e uno rimane ferito.

Il 4 dicembre scorso, Mario Roggero è stato condannato a 17 anni di reclusione per duplice omicidio volontario e tentato omicidio. Una condanna che va oltre la richiesta del pubblico ministero Davide Greco che di anni ne aveva chiesti 14. Questo ha stabilito la Corte d’assise di Asti alla fine della camera di consiglio che si è tenuta ieri intorno alle 11.15. “I giudici ora sono in camera di Consiglio – ci scrive ieri Roggero – aspettiamo”. Ma dopo un po’ l’attesa ha fatto svanire quel minimo di speranza che era ancora accesa. Roggero è stato condannato in primo grado per aver ucciso due rapinatori, Giuseppe Mazzarino, di 58 anni, e Andrea Spinelli, di anni 44. Il terzo, Alessandro Modica, venne ferito a una gamba. Modica era riuscito a fuggire ma era stato arrestato poche ore dopo. Quel giorno i rapinatori minacciarono con un coltello alla gola la moglie di Mario, la colpirono con un violentissimo pugno, legarono con delle fascette la figlia e massacrarono di botte lui. La rapina durò sei minuti.

Sei interminabili minuti.

Se si guarda il video i minuti paiono scorrere al rallenty. Senza suoni. Nè voci. Come in un film muto. Ma per le vittime sono attimi di angoscia e terrore. Il video riprende anche il momento in cui il gioielliere esce dal negozio e insegue i banditi, ormai in auto, sparando i colpi della sua 38 special.

“Non potevo immaginare che la loro pistola fosse giocattolo – racconta Roggero a Libero – Quando accadono queste cose pensi a proteggere la vita dei tuoi cari. Loro stavano scappando. Ma Laura, mia figlia, era ancora legata e non vedevo mia moglie. Loro sono saliti in auto ma uno aveva ancora la pistola in mano. Così ho pensato: Non voglio succeda come sette anni fa, che scappano e poi non li prendono. In canna avevo 4 colpi. Sono 5 in tutto. Uno l’avevo sparato per aria dopo la quarta rapina nel 2014 a casa”. Roggero ci racconta di come abbia subito quattro rapine più dieci spaccate in negozio. “Quella del 2015 terribile. Ci ha sconvolto la vita. Mi hanno massacrato di botte. Mi hanno spaccato tre costole, il naso. Leso una spalla che ho dovuto far operare spendendo 12 mila euro, calci da rigore in tutte le parti del corpo. Una cosa bestiale”. 

Per la rapina invece accaduta nel 2021, quella che lo condanna a 17 anni, l’imputato difeso dagli avvocati Dario Bolognesi e Nicola Fava, aveva sempre respinto le accuse, invocando la legittima difesa e chiedendo l’assoluzione. In particolare il commerciante faceva leva sul terrore che aveva generato la precedente rapina, appunto, subita alcuni anni prima. I giudici togati e popolari, però, il 4 dicembre scorso, hanno sostanzialmente accolto l’impianto della procura, che ha accusato Roggero di duplice omicidio volontario e tentato omicidio. E la pena quindi, come detto, stabilita dalla Corte d’assise di Asti è superiore alle richieste dell’accusa, che con il pm Davide Greco aveva chiesto 14 anni di carcere. “È una follia, viva la delinquenza, che bel segnale per l’Italia”, ha commentato in tono sarcastico Roggero in aula subito dopo la lettura del dispositivo. La parola difesa stona con “un video in cui abbiamo visto un’esecuzione”, aveva detto il sostituto procuratore durante la requisitoria. Roggero ha sostenuto di avere sparato contro l’auto parcheggiata dei rapinatori perché temeva che i banditi avessero rapito sua moglie. “Le ero passato di fianco con la pistola in mano, senza vederla. Ancora adesso sono rimasto stupito quando ho visto i filmati, non ho quel fotogramma in testa”, ha detto Roggero in udienza. Da dire che Roggero alle famiglie dei rapinatori ha già versato 300 mila euro. Roggero ha due mutui ipotecari sulla casa. E si è indebitato di 140 mila euro. La Corte inoltre ieri ha riconosciuto alle famiglie dei rapinatori un risarcimento pari a 460 mila euro. Ma il risarcimento chiesto era molto di più. La quantificazione proposta ammontava a 2 milioni e 885mila euro per le sole provvisionali, cioè le cifre che un eventuale condannato deve pagare prima che arrivino i “veri” risarcimenti danni, stabiliti dal giudice civile. “Ora leggeremo le motivazioni della sentenza e faremo appello – ha detto l’avvocato Bolognesi – La mia prima impressione è che sia stata una camera di consiglio un po’ troppo breve per un caso che si presentava così complesso. Senza mettere in discussione la gravità di quello che è accaduto, i problemi che avevamo posto sul tavolo erano molto complessi, riguardavano il tema della legittima difesa putativa e le ragioni per cui il fatto è accaduto sono state esaminate da noi in modo molto articolato”.

Serenella Bettin

“Mio marito in carcere ha perso 50 chili, sta morendo”

Da Libero del 29 novembre 2023

“Per me un giorno vale l’altro, mio marito in carcere ha perso 50 chili, sta morendo, aiutatemi per favore”. Quando contattiamo Maria Angela Distefano le lacrime le soffocano la voce. Quando iniziamo a parlare, si ode un fruscio di parole, un pianto, poi il silenzio. Il tempo di riprendersi un attimo e Maria Angela diventa un fiume di parole. Ha troppo dolore dentro. Il marito Guido Gianni, 63 anni, gioielliere, è chiuso nel carcere di Palermo dal 28 maggio 2021. Ieri erano esattamente 18 mesi. Un anno e mezzo. Condannato a 12 anni e 4 mesi per duplice omicidio volontario e tentato omicidio volontario, la Cassazione gli ha inflitto la condanna a tredici anni dal fatto. Quando uscirà di lì Guido Gianni di anni ne avrà quasi 80. La sua “colpa”? Aver reagito a una rapina da parte di un commando armato per difendere la moglie e un cliente. Era il 18 febbraio 2008. Quel giorno entrano in tre dentro la gioielleria a Nicolosi, piccolo paesino alle pendici dell’Etna in provincia di Catania, una gioielleria che moglie e marito avevano messo insieme con tanto sacrificio. Maria Angela viene presa in ostaggio, picchiata, strattonata per i capelli e minacciata con una pistola puntata alla tempia e al cuore. Sono attimi concitati. Il marito non sa che fare. E a vedere la moglie così, gli sembra di morire. Muore per davvero. Quando ti accadono cose simili una parte di te muore. Se ne va. L’attimo dopo sei un’altra cosa. C’è una colluttazione. Secondo la sentenza, i banditi scappano e lui spara. Partono dei colpi, due banditi muoiono e uno rimane ferito. La moglie ha chiesto la grazia, ma pochi mesi fa la grazia è stata rigettata.

“Più passa il tempo e più si allontana la speranza di avere mio marito a casa – racconta la donna a Libero – mi creda, sto facendo di tutto. Oggi sono 18 mesi che lui è chiuso lì dentro. Un calvario e ora lui sta male. Ha perso tantissimo peso. Bisogna aiutarlo. Ho chiesto che gli vengano fatte delle analisi. Dalla taglia 63 è passato alla 48, capisce cosa voglio dire?”. La moglie racconta di come il marito avrebbe perso una cinquantina di chili. “Ha perso 50 chili – racconta – io sì gli porto qualcosa da mangiare affinché ricordi i sapori di casa sua ma anche la depressione è una brutta bestia. Si vede. Ha il colorito del volto spento smunto. Lui era un bell’uomo. Ha perso anche due denti. Che devo fare? Qualcuno mi aiuti”. Maria Angela il 16 luglio scorso ha anche scritto una pec al presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Sono disperata – si legge nella lettera – piango sempre e ho paura che Guido lì dentro morirà, e io insieme a lui. Presidente le parlo a cuore aperto: la prego mi aiuti a far tornare Guido alla sua vita e alla sua amata famiglia. Sta molto male e mi si stringe il cuore vederlo soffrire”. Due settimane fa ha anche scritto al Santo Padre. E ora chiede un incontro con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

“L’altro giorno era la giornata contro la violenza della donna – sbotta Maria Angela – mia figlia dice che anche io sono vittima di violenza. Sì, mi sento così. E questo non è mai stato tenuto in considerazione. Io sono stata picchiata, malmenata, minacciata con una pistola, avevo il volto tumefatto, mi hanno staccato ciuffi di capelli. Sono finita al pronto soccorso. Potevo essere uccisa. È giusto che mio marito paghi per avermi difesa? In più non ce la faccio più. Anch’io ho problemi di salute. Devo fare una visita cardiologica. E per me andarlo a trovare sta diventando un salasso”. Da casa della signora, infatti, il carcere di Palermo dista 2 ore e 48 minuti, quasi tre ore di viaggio ad andare e tre ore a tornare, in una strada che, Dio mio, è un cantiere aperto. Un tragitto che la donna, che vive con una misera pensione di 600 euro, percorre a sue spese, ogni due sabati per poterlo vedere sei ore al mese. “Quando ci vediamo lui non mi può dare nulla – ci racconta – e io non posso dare nulla a lui. Quello che gli porto deve passare mille controlli, una volta ho messo una lettera con delle parole dolci e me l’hanno fatta tornare indietro”. E i vostri incontri come sono? “Le mani ce le possiamo toccare, ma solo un bacio di sfuggita, è proibito baciarsi. Lì poi è pieno di telecamere, anche se respiri ti registrano”. Maria Angela che di anni ne ha 69 teme anche per la sua salute. “Mi scoppia il petto e il cuore, mi gira la testa, devo fare dei controlli, sono debilitata con le ossa e peggioro sempre. Occorre qualcuno che mi assista. Io sto cercando di tenere duro e lotterò fino alla fine. Ma lui mi dice che uscirà da lì dentro la bara. Mi sento persa. Non è stato condannato solo lui ma tutta la nostra famiglia. E ogni giorno che passa è sempre peggio. Io ho paura di stare da sola. Ti rovina la vita una cosa del genere. Ora viene Natale e mi sento morire”. Sarà il secondo senza di lui. La figlia Aurora che per sposarsi attende il padre dice rivolgendosi al babbo: “Da 18 mesi le nostre vite sono state sconvolte. Non hanno solo condannato te ma anche a noi. Non è giusto tutto quello che stiamo passando. Che qualcuno faccia qualcosa”.

Serenella Bettin

Ciao Giulia ❤️

L’immagine più straziante è quella del nonno di Giulia, sorretto dai parenti e che cammina a fatica sulle stampelle. La gente è incolonnata. E attende di entrare in chiesa dalla mattina presto. Sono le 8.30. Siamo in Prato della Valle, a Padova, e qui oggi nella basilica di Santa Giustina, si tiene il funerale di Giulia Cecchettin, la ragazza di 22 anni, trovata morta l’11 novembre scorso e ammazzata dal suo ex fidanzato Filippo Turetta. Come tante piccole gocce, le persone continuano ad arrivare. Ci sono padri, madri, donne, bambini, anziani, studenti, tutti si aggiungono con lo scorrer dei minuti a quella folla oceanica di gente che un po’ alla volta sta riempiendo Prato della Valle, la seconda piazza più grande d’ Europa. Incolonnati, fuori al freddo gelido, che toglie il respiro e scolora i volti, la gente attende l’arrivo del feretro. Il funerale è alle 11. Gli amici di Giulia hanno gli occhi pieni di pianto, un’amica si sorregge a un ragazzo col volto rigato dalle lacrime, qui trattenerle, oggi è impossibile.

Davanti la basilica è apparsa una gigantografia di Giulia. Viene dal comune di Vigonovo, dove Giulia abitava. “Giulia ti vogliamo bene”, c’è scritto sotto quel volto di lei così solare e allegro. La vedi Giulia, la vedi dalle foto, sempre in movimento, mai ferma, voleva vivere la sua vita, così come l’aveva disegnata lei, tratteggiando con la matita la materia dei suoi sogni. “Mia figlia Giulia, era proprio come l’avete conosciuta – ha detto il padre infatti durante la cerimonia – Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente, un’oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà”. Qualcuno entra in un bar per riscaldarsi, oggi qui anche il cielo è coperto, al grigiore infernale di questo cielo maledetto si aggiunge il silenzio agghiacciante che sovrasta la città. Una poliziotta dai capelli neri raccolti che incontriamo al bar ha gli occhi rossi di pianto, ed è letteralmente congelata. “Non muovo più la mano”, ci dice. Sarà anche lei, qualche ora dopo, a stare sull’attenti al passaggio del feretro di Giulia. Il feretro arriva poco prima delle 11. La polizia è schierata. Ci sono oltre 200 agenti tra polizia, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria, unità speciali anti terrorismo e anti sabotaggio. L’atmosfera è atroce, rispecchia il freddo gelido del tempo. Un’auto della polizia di Stato viene avanti con i lampeggianti mentre la protezione civile apre il varco tra la folla. Dietro, il feretro.

E a seguire le auto dei familiari. Il papa Gino, la sorella Elena, e il fratellino Davide scendono dalle vetture e vengono avanti a piedi. Si sorreggono l’un con l’altro, stretti per mano, presi sotto braccio. Il fratellino ha il volto scarnificato, consunto, protende le spalle all’indietro come a dire: ditemi che non è vero. La sorella guarda per terra, il padre cerca di farsi forza, incredulo dinanzi a quella folla. Ma quando il feretro entra in chiesa, le lacrime gli solcano il volto. Un applauso parte tra i presenti, e si propaga nell’aria, arriva dappertutto, sui balconi, sopra i tetti, dentro i bar, e tutti iniziano a batter le mani. Oggi, tutti qui, anche i taxi hanno un fiocco rosso. “Dobbiamo trasformare la tragedia in una spinta per il cambiamento – ha detto il padre Gino al termine del funerale – la vita di Giulia è stata sottratta in maniera crudele, ma la sua morte può e deve essere il punto di svolta per mettere fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. (…). Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti”. Infine ha salutato la figlia, rivolgendosi direttamente a lei: “Cara Giulia, grazie per questi 22 anni vissuti insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato. È il momento di lasciarti andare, salutaci la mamma. Impareremo a danzare sotto la pioggia”. All’uscita della basilica, dove erano presenti il ministro Carlo Nordio, il presidente del Veneto Luca Zaia e una quarantina di sindaci tra le zone del padovano, veneziano e anche provenienti dal Friuli Venezia Giulia, la pioggia se n’era andata. Ad attendere il feretro di Giulia c’era lo stesso scrosciante e fragoroso applauso che l’aveva atteso all’inizio della cerimonia, accompagnato da un tintinnio sonoro di campanelli e chiavi che si muovevano a più non posso. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato Giulia: “Il valore e il rispetto della vita vanno riaffermati con determinazione in ogni ambito, circostanza e dimensione”. In Veneto è stata giornata di lutto regionale. E anche l’università di Padova fino alle 14 ha sospeso le lezioni. In tutto qui oggi si contavano oltre 10 mila persone. Poi, alla fine della cerimonia, l’immagine più straziante. Quella del nonno di Giulia che ci passa davanti, sorretto dalle stampelle e che si fa forza abbracciandosi ai parenti. Anche per lui continueremo a fare rumore.

Serenella Bettin

Pezzo uscito su Libero mercoledì 6 dicembre 2023

Libero 6 dicembre 2023