Qui, fanno ancora la conserva in casa

Lei è un’ infermiera. Si chiama Antonella Pulcini. Ha 42 anni. Il marito di anni ne ha 40. Fa l’infermiere anche lui. Insieme hanno due bambine. Sono entrata a casa loro ad agosto dell’anno scorso. Mi hanno aperto le porte. Mi hanno raccontato i rincari delle bollette, il pellet, le spese per la scuola, per le figlie, non hanno baby sitter così risparmiano e si danno una mano tra vicini. Quel giorno quando sono entrata stavano facendo la conserva.
Menavano quel manipolo che passava il pomodoro avanti e indietro, indietro e avanti, e su e giù e giù e su. Le bacinelle piene di pomodori. Che lentamente diventavano sugo. E il sugo era una crema che a vederla ti veniva voglia di mangiarla.
Mi piace quando entri dentro queste storie. Con delicatezza. Gentilezza. Con garbo. E gratitudine. Mi piace entrarci.
Trovarci le cose semplici. E raccontarle.

Il mio servizio andato in onda su Controcorrente Rete4. Lo potete rivedere su Mediaset Infinity cliccando al link qui sotto 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/caro-bollette-linverno-difficile-degli-italiani_F311547501034C10


👉 Riprese e montaggio di Günther Pariboni 🎥

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Primavalle. Anche qui ci scorre la vita

Settembre 2022.

La tipa che scende dall’auto dinanzi a me, sulla gamba destra, all’altezza del polpaccio, ha un tatuaggio. Ci sta raffigurato un uomo anziano che le sorride. Le somiglia. Credo sia suo padre. Il tatuaggio le copre tutta la parte che dal polpaccio le scende fino a giù verso la caviglia. Sgattaiola via con fare frettoloso. Sbrigativo. Spavaldo. Si vede che è insoddisfatta dalla vita. Qualcuno gliel’ha resa difficile. Qui siamo nei quartieri malfamati. Nei quartieri poveri. Nelle case popolari. Scenari di vite ai margini. Sobborghi di periferia. Intelaiate dalla malavita. Ci stanno vie ripide e scoscese che conducono a piazze che rievocano fatti di cronaca nera. La più brutta. Qui ci sono i bambini che giocano a pallone nei lotti immensi di cemento tra un palazzo e l’altro.

I vestiti appesi alla rinfusa dai balconi evocano donne insoddisfatte, buchi nella stoffa da carpentiere, felpe lunghe larghe da non far trasparire niente, asciugamani che ancora sanno di sudore. Qui si annida l‘emarginazione sociale. Le favelas. Qui i bambini in mezzo ai palazzi alti quanto navi, vociano, vociferano, chi non ha padri o madri cresce in mezzo alla strada. Fanno rimbalzare il pallone che provoca enormi tonfi. Bam. Bam. Urlano. Giocano. Si dilettano. Crescono. Troppo in fretta per essere piccoli. Accanto ci passa un gruppetto di ragazzi. C’avranno all’incirca 16 anni. Hanno tutti lo sguardo da macho, da duro. Sono tutti vestiti uguali. I jeans strappati che col cavallo toccano terra. Le catene ai piedi. Alle gambe. I capellini da baseball. Le magliette larghe, chi rossa chi nera chi bianca. Ti guardano con quell’occhio intrepido che sa di sfida verso il mondo. Scende un ragazzo. È pieno di tatuaggi. Gli chiedo se vuole fare due parole. Mi risponde che non vuole. Blatera qualcosa. Mi manda a fareinculo.

Il signore che mi apre la porta invece è gentile. Somiglia al topino delle Tartarughe Ninja. Al Maestro. Ha gli occhi incavati più incavati di un cava tappi. Le borse violacee sotto gli occhi gli rigano il volto. Ha gli occhi freddi fermi verdi. Non esprimono nient’altro che rassegnazione totale. Un uomo tradito dalla vita che la vita l’ha spremuta poco, gettandola via tra pasticche ed ecstasy. Ai piedi nudi indossa un paio di ciabatte. Dei pantaloni azzurri scoscesi che gli stanno su a malapena. Mi apre la porta con fare disinvolto. Buongiorno. Permesso. Scusi. Uscita dal quartiere è un labirinto di case. Di vie scoscese. La luce del sole riscalda i palazzi. Questi enormi colossi verdi gialli grigi e bianchi. In giro è un incrocio di culture. Droghe. Allucinogeni. Allucinanti. Il coreano che accompagna il figlio. Il messicano che lo tiene in braccio. Il marocchino che si gira la cicca alla fermata dell’autobus. È un incontro di donne nere bellissime africane con i capelli preparati e i corpi perfetti. Un incontro di market, supermercati, farmacie con le saracinesche abbassate; di suore che cercano di far del bene. Di bar che echeggiano gli stivali dei cowboy. I cigolii delle porte. È un incrocio di culture diverse. Di giovani che provano a crescere. A inventarsi qualcosa, sorvolando dai tetti ai garage delle auto. Luci psichedeliche. Cervelli sbiaditi in fumo. Allucinazioni. Ragnatele. Sale da musica rock. Gente da borghi di periferia che vuole emergere. Sui muri scrivono poesie. Frasi. Dipingono cuori. Anche qui ci scorre la vita.

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Il mio servizio con Giordano Giusti qui 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/la-storia-del-rom-di-primavalle_F311547501038C07

Saman Abbas. Il parroco di Novellara scioccante: “qui ho scoperto la fila indiana”.

Sono stata a Novellara in Emilia Romagna a ottobre scorso per seguire il caso di Saman Abbas. E ho capito che con queste persone non ragioni.

Arrivo a Novellara nel primo pomeriggio dopo aver attraversato distese di campi. Qui in questa terra dell’Emilia Romagna tra il Po e la Luna dove gli alberi fanno da guardia agli argini, è stata uccisa Saman Abbas, la ragazza pachistana di 18 anni scomparsa un anno e mezzo fa tra la notte del 30 aprile e quella del 1 maggio.

Novellara è un paese tipico emiliano, li vedi questi archi sospesi, queste piazze immense, queste biblioteche, aule studio che quasi ti vien voglia di tornare all’Università. In giro è pieno di immigrati. Qui come mi dirà il parroco ci sono molte comunità. Quella Sikh. Quella pachistana. Quella marocchina. La pachistana è la più frammentata.

Le incontro queste ragazze con il velo che escono da scuola. E queste bambine ancora senza tenda intorno che non sanno cosa le attenderà da grandi. La città è divisa. Da una parte stanno gli italiani. Alla faccia dell’integrazione. Dall’altra stanno i pachistani. Impossibile amalgamare le due culture. Sono proprio un altro mondo.

Avvicino una ragazza pachistana che indossa il velo. Facciamo due parole. Che poi diventano tre quattro cinque. Un’ora di conversazione. Mi dice che ha sposato suo cugino. Le chiedo se sono innamorati e lei mi guarda con sto fare come a dire: “Ma tu imbecille credi ancora nell’amore? Figlia mia accontentati. Io l’amore non so manco cosa sia”, pare che mi dica. Ma alla fine mi risponde: “Ci trovavamo bene”. Le chiedo quanti anni ha. Lei mi risponde 25. Vorrei prenderla per mano. Dirle “ascoltami vattene ti prego, lascialo, prendi in mano la tua vita, getta il velo e fuggi via”. Ma niente non riesco. Del resto c’avea degli occhi che parevano dirmi: “tu sei contenta, ma io sono felice solo di essere ancora viva”. Sai mai. In Pakistan se non sposi chi vogliono loro prendono e ti ammazzano. Che insulto. Che sfregio. Capisco che non c’è niente da fare. Queste ragazze sono talmente soggiogate che credono che sia normale sposarsi col cugino di vent’anni più grande. Avvicino un gruppo di pachistani e chiedo loro se in Pakistan si usa far così. Un tizio mi risponde che anche in Italia e nelle altre parti del mondo ci sono i femminicidi e gli omicidi quindi lui non capisce dove sia il problema. Rimango pietrificata. Non oso dire nulla. In quel momento gli sputerei in faccia. Ma non posso. Lui mi guarda con aria di sfida. Io volto i tacchi e me ne vado. Ed è proprio questo che non si vuole capire. Che questa ragazza è morta per mano dell’Islam. Una parola che si fa fatica a pronunciare. Infatti, poco dopo intervisto il parroco e gli chiedo con ancora la voce che mi trema per la rabbia e il cuore che stridula per la collera, insomma gli chiedo se per lui sia normale instaurare un dialogo con una cultura che crede che la donna sia inferiore. Lui mi risponde che a Novellara ha imparato cosa vuol dire andare in fila indiana. Ossia il maschio davanti. La donna dietro. Io gli dico che non mi pare sta gran cosa. E lui mi risponde che non è un’imposizione. È un modo di essere. Gli dico che diamine che sta dicendo, è ancora peggio! È naturale allora che sia così. Che la donna sia meno e l’uomo di più e che quindi debba stare dietro. Lui mi dice: “noi non eravamo diversi 50 anni fa”. Tratta la materia con una freddezza che mi spiazza. Ho le mani sudate. Mi siedo. Gli chiedo come sia possibile che un uomo arrivi a preferire l’onore della famiglia all’amore per la figlia. Mi dice: “l’onore è eterno. È sacro”. “Anche l’amore è eterno”, gli faccio eco. “Gli uomini passano”, mi risponde. “L’onore della famiglia si tramanda”.

Ho la schiena che mi trema. Lui anche. Il resto del reportage è un rimpallo tra un ufficio e un altro. Uno scarica barile di fondo. Dove uno non è competente. L’altro non se ne occupa. Quell’altro manco. È la mia entrata con la telecamera nascosta nelle scuole. Ai servizi sociali. Con la gente che ti sbatte in muso il telefono e il citofono e che ti chiude la porta in faccia. È la minaccia dei padroni di casa: “se non andate via chiamo i carabinieri”. Saman era un fantasma. Il dirigente scolastico aveva già denunciato al sindaco del Pd, ai servizi sociali, al comandante della polizia locale, che Saman non frequentava le scuole. Ma nessuno se n’era occupato.

A scuola Saman ci va fino alla terza media. Poi basta. Dal 2017 al 2020, quando Saman denuncia i genitori, che ha fatto sta ragazza? Dov’era? Cosa faceva? Nessuno aveva capito che era in pericolo? Alle mie domande nessuno ha risposto.

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Il mio servizio per Mediaset qui 👇 clicca il link

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/il-grido-inascoltato-di-saman_F311547501040C11

Al buio contro il caro bollette. E il paese torna al Medioevo

C’è stato un tempo quest’inverno in cui abbiamo pensato che per far fronte ai rincari energetici avremmo dovuto spegnere le luci. Nei paesi. Nei locali. Nei bar. Nei ristoranti. Nelle chiese. Nelle case. Nelle piazze e nelle strade. C’è stato un tempo in cui abbiamo creduto che il click di spegnimento, che segna quella lancetta dello spending review, fosse l’unica soluzione. Una soluzione accettabile. Quella di uscire la sera dalla messa e trovare buio. Quella di andare a cena fuori e trovare buio. O cenare così a lume di candela. Quella di svegliarsi all’alba per andare a lavorare e trovare ancora e ancora buio. Buio pesto. Fitto. Non una luce. Non un lampione. Immagini di un tempo andato. Scene da Medioevo con le torce in tasca e le fiammelle sotto i porticati.

Il montaggio di questo servizio per Mediaset, realizzato ad Arzergrande, un paesino nel padovano in Veneto, è stato realizzato grazie alla maestria e alla professionalità dei cameraman Carlo Brotto e Simon Barletti.

Un intreccio sonoro di immagini. Situazioni. Scene. Alti. Bassi. Chiari. Scuri. Di accensioni. E di droni perfettamente intersecati con i lampioni.

Per un disguido tecnico il nome all’inizio del servizio è sbagliato.

Qui il mio reportage 👇 clicca sul link

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/il-paesino-spense-la-luce_F311547501042C09

Baby gang. “Noi vestiti di nero così non si vede il sangue”

“Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo”. Sono “ragazzini”, hanno tutti dai tredici ai sedici anni. A volte anche otto. Li incontro un sabato notte accanto alla stazione di Padova. Sono in quattro, tutti vestiti uguali, zaini in spalla, guanti neri, i cappucci delle felpe che avvolgono le teste. Il capetto, quello più basso e tarchiato, ma assai sveglio, mi viene incontro senza indugio. Abbiamo invaso il suo territorio. E si sente minacciato. “Fammi vedere i tuoi documenti, chi sei? Cosa vuoi sapere?”. “Chi siete? Cosa fate?”, chiede. “Noi facciamo parte della baby gang AK47, hai presente il fucile? Ecco quello. Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo. Il nostro divertimento è bere, fumare, picchiare”.

Mi addentro in mezzo a loro. Sono quasi tutti stranieri. “Ragazzini di seconda generazione”, come li chiamano i progressisti.

Qui a Padova in zona stazione c’è un vero e proprio formicaio. Ma anche in Prato della Valle o in pieno centro. Sono divisi in gruppi a seconda delle nazionalità. Ci sono albanesi, marocchini, tunisini, romeni. I capetti li riconosci subito. Sguardo duro. Schiena dritta. Spalle fiere. Hanno intorno una nuvola di adepti che li segue. Se non fai come il gruppo sei tagliato fuori. Se li guardi più di mezzo secondo comincia la sfida e c’è da aver paura. In Prato della Valle, un gruppo ci spiega che “ci sono i Maranza, a Milano vengono chiamati Zanza. Bisogna essere tutti vestiti uguali e soprattutto di nero perché bisogna picchiare la gente e se picchi qualcuno non si vede il sangue”. Ci sono maschi, femmine. Quando si menano è proprio la vista del rosso vivo che li eccita. Il pugno preso in faccia. Il calcio. Il fatto che se rispondi, “l’altro ti rispetta”. “Ti senti invincibile – mi dice un bullo pentito – ti sale l’adrenalina nelle gambe ed è bellissimo”. “Una volta hanno fatto Verona contro Padova”, mi dice un ragazzino. Avrà all’incirca 12 anni. Accanto una ragazzina con addosso un piumino e sotto seminuda dice che “qui è normale e ogni weekend scoppia la rissa”.

A Mestre nel veneziano, la situazione non è diversa. I teppisti si annidano attorno al centro commerciale. Molti urlano, danno fastidio alle persone, sputano. Una banda turca, in pieno centro, mi mostra la maglia rossa con scritto “Turkey”. Hanno dai 13 ai 17 anni. “Urliamo per fare casino. Se uno inizia a fissarci io vado lì e lo colpisco. Per entrare nel nostro gruppo devi essere turco e nato in Turchia, siamo sempre i migliori e puntiamo i più grandi. Siamo dei criminali”. “Loro – mi dice un altro indicando due giovani – sono stati presi e schedati dalla polizia. Hanno menato un ragazzo perché ha insultato la loro patria e la loro madre”. Un ragazzo mi passa accanto con la bottiglia di vino in mano. “Noi siamo baby gang. Siamo tutti moldavi. Questa sera beviamo perché domani abbiamo un incontro. Siamo 30 contro 5. Da noi si usa così”.

Infatti. I vandali delle bande giovanili stanno tenendo sotto scacco intere città. Milano, Torino, Udine, Bologna, Roma. Bevono, si menano e hanno armi. Si organizzano nei social, Tik Tok, Instagram, si danno appuntamento in un luogo all’ora x e comincia la rissa. Albanesi contro marocchini. Tunisini contro romeni. Turchi contro moldavi. Neri contro bianchi. Bianchi contro neri. A Padova è anche accaduto che prendessero a bottigliate dei clienti seduti ai tavolini di un bar. Altre volte prendono di mira qualche coetaneo e non c’è verso di fermarli. Un ragazzino di 14 anni che intervisto nel Polesine, quest’estate è stato pestato a sangue. “Mi hanno fermato per chiedermi se avessi sigarette e soldi – racconta – mi hanno rubato 15 euro. Erano in quattro, poi c’erano altri sei, sette ragazzi. Alcuni avevano la mia età. Altri due più piccoli. Il ragazzo più piccolo mi diceva: “se mi incolpi un’altra volta io ti ammazzo”. Mi hanno picchiato, ho perso sangue e sono finito in ospedale. Avevo una lesione alla mandibola sinistra. Non è la prima denuncia che prendono, più di una volta hanno picchiato qualcuno”.

Un investigatore privato che raggiungo Giuseppe Tiralongo, a Roma ha “sventato” un omicidio. Ingaggiato dai genitori del ragazzino, italiano, ha scoperto che costui stava pianificando l’uccisione di un uomo con alcuni amici. Avevano già la pistola. “Qui non si parla più di baby gang – dice – sono vere e proprie bande di criminali. Ragazzini annoiati, anche della Roma bene”. Una nota del ministero dell’Interno del 7 ottobre scorso parla di baby gang come “una realtà in aumento in Italia”. Transcrime, il centro di ricerca tra la Cattolica, Alma Mater e l’Università di Perugia, il mese scorso ha pubblicato uno studio sulle Gang giovanili nel nostro Paese. “Nella maggior parte dei casi i membri sono italiani”, quelle “composte in prevalenza da stranieri di prima o seconda generazione sono più frequenti nel Nord del paese rispetto alla media nazionale. Mentre situazioni socioeconomiche di marginalità e disagio sono evidenziate in prevalenza nelle regioni del Sud”. Il report del Servizio analisi criminale della Polizia criminale sui minori, a febbraio scorso, parlava di 25 mila minori denunciati o arrestati nel 2021, con un +10%. In aumento del 20% i reati di lesioni personali, danneggiamento, minacce, omicidio doloso, rapina, resistenza e violenza a pubblico ufficiale. In crescita anche i traffici di stupefacenti e la percentuale degli stranieri all’interno di queste bande: dal 44 al 46 %. Ragazzi violenti, gruppi criminali, iniziano ad armarsi sul web e poi spaventano le piazze.

Serenella Bettin

La Verità – sabato 26 novembre 2023

Durante il servizio girato per Mediaset con il cameraman Carlo Brotto siamo stati colpiti da dei sassi lanciati dai ragazzi

Il nostro servizio qui 👇 clicca il link.

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/vita-da-baby-gang_F311547501046C05

E questa la mia intervista a un bullo pentito.

Intervista inedita ad un ragazzo che racconta la sua esperienza passata all’interno di una baby gang 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/confessioni-di-un-ex-baby-violento_F311547501046C08

Immagini inedite

Lungo la rotta balcanica

Una continua emorragia di clandestini. Di migranti. Un flusso inarrestabile. Arrivano a frotte di cento, duecento persone al giorno. Scendono dai boschi. Spuntano dagli alberi. Si mettono in cammino, molti dal Pakistan, poi calano verso Trieste ed entrano illegalmente nel nostro Paese. Siamo al confine con la Slovenia e percorriamo un tratto di rotta che fanno i clandestini per giungere in Italia. É notte fonda. Risaliamo i sentieri battuti dai migranti. A terra spuntano calzetti, scarpe, borse, zaini. Qui sono appena passati. Ci sono rifiuti, documenti, caricabatterie. La Rotta Balcanica viene percorsa ogni giorno da un numero di clandestini che supera di gran lunga le cifre degli sbarchi sulle coste siciliane. Secondo i dati forniti da Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere europee, da gennaio a ottobre 2022, sono stati 128.438 gli attraversamenti illegali nell’Unione Europea, con un balzo del 168 per cento rispetto ai primi dieci mesi del 2021. Sembra impossibile che ci sia una porta dell’Italia dominata da una invasione totalmente incontrollata. Senza respingimenti. Lunedì mattina qui, la polizia di frontiera ne ha rintracciati 118. Una funzionaria che incrociamo alla sottosezione di Ferretti a Trieste ci guarda con aria affranta. “Ne sono arrivati anche oggi?”, chiediamo. “Sì, come ogni santissimo giorno”. Vediamo i migranti ammassati mentre aspettano. Qui vengono prese le impronte, viene fatto lo screening sanitario e poi si effettuano le varie pratiche. L’ “accoglienza” nei centri è di competenza delle prefetture. Ma di fatto questa, di cui le anime belle si riempiono la bocca, non c’è. Agli intellò non interessa nulla se i clandestini finiscono con il riempire i piazzali delle stazioni in un hub a cielo aperto, come avviene a Trieste. Qui ne incrociamo centinaia. Qualcuno è in partenza per Milano. Qualche altro per la Germania. Ma molti vogliono rimanere in Italia. “Italy is good, Italy is good”, ci dicono. Sanno solo due parole. “Asilo, asilo” e “International protection”. Al mattino alle sette, chi ha l’invito da parte della polizia di frontiera a presentarsi all’ufficio immigrazione, fa la fila davanti alla questura per regolarizzare la propria posizione, chiedendo asilo o protezione. La maggior parte però si presenta spontaneamente e rientra nella cerchia di quelli non rintracciati. E sono tanti. Fonti della Verità ci dicono che se ogni giorno ne pescano 200, in realtà sono almeno il doppio. La presentazione in questura avviene un mese dopo il rintraccio, il che vuol dire che abbiamo migliaia di persone che di fatto rimangono in Italia clandestinamente. E ne siamo consapevoli. La questura poi trasmette le richieste di asilo alla prefettura affinché la commissione vagli la posizione del clandestino. E così passano altri due tre mesi. Dati alla mano, forniti dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, nel 2021 ci sono state 53.609 richieste. Di queste il 58% è stato respinto. Questo 58% dovrebbe andarsene dall’Italia ma, ci rivelano sempre le nostre fonti, di fatto non viene espulso e rimane qui. Solo il 14% prende lo status di rifugiato. Un altro 14% ottiene la protezione sussidiaria e un altro 14% la speciale. Dal Pakistan, per dire, su 7920 richieste nel 2021, ci sono stati 5583 dinieghi. I principali Paesi di provenienza sono Pakistan, Bangladesh, Tunisia, anche Afghanistan. L’ Egitto invece è la nuova presenza. Fonti ben informate ci dicono che tra i disperati che ogni giorno fanno la tratta si è sparsa la voce che in Italia si faccia presto ad avere i permessi. Ma anche qui stessa manfrina. L’83 % delle richieste egiziane viene rigettato. I migranti fanno ricorso e chi è uscito dalla porta rientra dalla finestra. L’anno scorso sempre la polizia di frontiera di Trieste in tutto il mese di ottobre aveva rintracciato 491 immigrati. Quest’anno 1932. Senza contare quelli non “censiti”. Il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, l’altro giorno è tornato a chiedere le riammissioni in Slovenia, in virtù di quell’accordo bilaterale del 1996. “Sulla rotta Balcanica – ha detto – non siamo Paese di primo ingresso e quindi è ingestibile di fronte a questi numeri dare risposte a una situazione che non si sarebbe dovuta creare”. “La situazione è insostenibile – dice alla Verità Lorenzo Tamaro, segretario provinciale del Sap Trieste – questa situazione non può essere scaricata sulla polizia che oltretutto lavora in forte carenza di organico e logistica inadeguata. Non abbiamo neanche delle norme adeguate e incisive come lo sono state quelle sulle riammissioni in Slovenia”. Prendiamo la via del ritorno. Incontriamo un gruppo di migranti. “Italy is very good”, dicono “I want to stay here. I want to stay here (Io voglio stare qui. Io voglio stare qui)”. Si fa sera. Nei boschi spuntano resti di indumenti e oggetti in continuazione. I clandestini hanno ricominciato a a camminare. Tra poche ore scenderanno verso Trieste. L’emorragia è inarrestabile. 

Serenella Bettin 

Pezzo uscito sul quotidiano La Verità il 17 novembre 2022 👇

Il mio servizio per Controcorrente Mediaset lo potete rivedere qui 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/migranti-come-arrivano-dai-balcani_F311547501047C03

Riprese di Carlo Brotto e Simon Barletti.

Montaggio: Simon Barletti.

Doppiaggio: Simon Barletti

Qui è quando abbiamo dormito in auto aspettando che calasse il buio per trovare i clandestini 👇

Serenella Bettin e Fausto Biloslavo 👇

E questo invece è un servizio realizzato con l’inviato di guerra Fausto Biloslavo nell’estate 2019 per il Giornale 🗞️

🎥📸 #Reportage: al confine tra la Slovenia e la Croazia. In viaggio tra i trafficanti della rotta balcanica. Qui il triplo dei clandestini dei barconi. E vogliono tutti venire in Italia.

LEGGI IL PEZZO 👇
http://m.ilgiornale.it/news/cronache/scudo-anti-migranti-1752804.html

GUARDA IL VIDEO 👇
http://m.ilgiornale.it/video/cronache/scudo-sloveno-fermare-i-migranti-1750166.html

Appunti della Bettin 📲 👟 📝 👇

Quattro considerazioni sulla Rotta Balcanica che i talebani dell’accoglienza non apprezzeranno. Sono rientrata dalla Rotta e ho voluto lasciare che i pensieri defluissero via. Li ho lasciati scorrere come scorre l’acqua sul lavello sporco. Ero così talmente piena di visioni, di luci, di voci, di suoni, respiri, sbadigli, sospiri, di persone, di parole che ho voluto prendermi qualche ora per stare in silenzio e respirare. Ho lasciato che i pensieri scivolassero via per capire se fossi io a vedere tutto amplificato. Non lo è stato. Ho atteso il far della sera dormendo in auto. Il mio libro sull’immigrazione, karma vuole, si chiama proprio “Aspettando che arrivi sera”. La Rotta Balcanica è quella cosa che ti entra dentro e che vedi dal finestrino dell’auto quando stai per arrivare nel bosco e devi lasciare la macchina e proseguire a piedi. Sono suoni ovattati che immagini nella mente. Sono rumori sospetti, di notte, con le scarpe che scricchiolano sopra le foglie. Sono soffi di fogliame che cade. Voci nel buio. Luci in penombra che sembrano fiammelle che sputano fuoco sopra Trieste. Sono guardrail che ti passano accanto. Sono ombre. Quiete. Silenzi sospetti. Ma soprattutto sono passaggi. Da una parte all’altra. Dal Pakistan all’Iran. Dall’Iran alla Turchia. Dalla Turchia alla Bulgaria. Fino alla Serbia, alla Bosnia. Dalla Bosnia alla Croazia. Dalla Croazia alla Slovenia. E giù in Italia. Da questa porta aperta sul nostro Paese ogni giorno entrano illegalmente centinaia e centinaia di migranti. Il giorno che sono arrivata la polizia di frontiera ne aveva rintracciati 118. Erano tutti lì in fila per le pratiche. I documenti. Lo screening sanitari. Gli occhi spenti. Fuori dalla testa. I piedi martoriati dalle piaghe. Sembravano unguenti. Sanguinanti. Pieni di bolle. Pareva il miele che ribolliva dentro l’acqua. Carta vetrata. Cemento. Gesso. Pieni di terra. A una funzionaria a cui ho chiesto “Sono arrivati anche oggi?”, mi ha risposto: “Sì, come ogni santissimo giorno”. La polizia è affranta. Non ha mezzi. Risorse. Strutture. Danno loro un invito a presentarsi in questura. E questi la mattina alle sette fanno la fila. In piedi come i dannati li vedi mentre aspettano per chiedere accoglienza e protezione. Quale accoglienza. Quale protezione. Avuto il foglio, il prossimo passo è la commissione. Che deve vagliare la posizione di ognuno. Passano mesi. E chi esce dalla porta spesso, grazie ai ricorsi, rientra dalla finestra. In questo limbo creato ad arte “migranti” rimangono nel nostro Paese. Ingrossano le fila delle stazioni. Le vie. I quartieri. Le strade. Clandestinamente rimangono in Italia. Dati alla mano, il 58% delle richieste che la commissione riceve viene rigettato. Ma di fatto, mi dice una fonte ufficiale, questi dall’Italia non se ne vanno. Le espulsioni costano troppo. Rimangono qui. Senza casa. Né lavoro. Né niente. Perché alle anime belle, progressiste con il filo di seta e le sciarpette di Hermes, questo non interessa. Alle anime belle non interessa se questi una volta arrivati in Italia pernottano davanti la stazione, bivaccano sui giardinetti, sostano in mezzo alla strada, dormono sopra i carrelli della spesa del discount (visto io con i miei occhi). No, ai talebani dell’accoglienza interessa altro. Chi se ne frega se questi disgraziati si annidano nei parchi. Per i radical chic l’importante è che vengano in Italia, poi se sono ridotti allo sfascio in mezzo alla gente che per passare deve fare lo slalom tra sacchi a pelo e tende e coperte, non è un problema. Stanno lì. Aspettando che arrivi sera.

A proposito vi consiglio sempre il mio libro 📚

Che trovate qui 👇

Non è che l’orso dove lo metti sta

Voi fate sul serio? Fate sul serio? Davvero la vita e la morte di un orso vi interrogano di più della vita e della morte degli uomini? Ieri sono tornata in Trentino. E ogni volta che ci torno scopro qualcosa di nuovo. Mi sono imbattuta in una madre terrorizzata perché ha un figlio di 7 anni e non si fida più a far le passeggiate nel bosco. A farlo uscire di casa. A farlo stare in giardino. A farlo divertire correre giocare. Le venivano le lacrime, come si dice al paesello mio.
Del resto qui funziona così. Questa gente è abituata a viverla la montagna. Non a guardarla. A visitarla. A calpestarla per un giorno. Questa gente ci fa l’amore con la montagna. Ci si sveglia al mattino. Ci va a letto la sera. Ci mangia. Ci dorme. Ne annusa gli odori. Ne sente i sapori. La studia. La coccola. La scruta. Se ne prende cura.
Per loro avere il bosco fuori casa è la normalità. Sono passata in mezzo a delle casette che erano un condensato di boschi e tegole. Come io in città ho il traffico e il cretino del vicino curioso, loro hanno gli animali, la fauna selvaggia, quella selvatica, gli alberi, le piante, i muschi, le foglie. Come i cittadini di città sono abituati a uscire e correre lungo i fiumi, loro sono abituati a uscire e correre lungo i boschi. E non è mancanza di rispetto per la natura. Non è colpa. Non è negligenza. È vivere la vita nel posto dove sei nato. È farlo proprio. È accettare questa simbiosi del difficile rapporto tra esseri animali e umani, che molte volte sono più animali degli orsi. È comprendere un equilibrio molte volte stuprato e scardinato dall’uomo.
Gli orsi in Trentino sono stati importati. Un progetto avviato nel 1999 pagato con i soldi pubblici. Un progetto a quanto pare fallimentare dato che gli orsi sono aumentati ben oltre le aspettative, e in dieci anni sono più che raddoppiati. Dove sono stata oggi, gli orsi li hanno visti scendere dai monti, passeggiare in mezzo ai boschi, attraversare l‘autostrada, portare fuori i cestini dei rifiuti, grattarsi la schiena sugli alberi, lasciare le impronte.
Non è che l’orso dove lo metti sta. Non è una marionetta che è simile all’orso Yoghi. Quello esiste solo nei film. Solo che la gente che viene da fuori crede che il Trentino sia il Paese dei Balocchi, dove gli orsi ti fanno le feste e ti prendono per mano. Dove gli orsi li puoi vedere, accarezzare, ci puoi pure parlare. No. L’orso non è cartone animato. Non è fantascienza. Ma come sempre a decidere non sono le persone che con la paura dell’orso ci deve convivere. Sono stranieri, gente foresta, animalisti che vengono da fuori e non sanno manco se Trento e Bolzano siano dentro la stesse regione. È gente che fa dell’ideologia il suo stile di vita dimenticando la vita vera. O giudici che arrivano da chissà dove.
Quando alla madre ho chiesto cosa farebbe se si trovasse davanti un orso, “mi ha detto probabilmente proteggerei mio figlio. Mi ci butterei sopra e tenterei di proteggerlo…”.
Come ha fatto l’orsa. Anche l‘orsa voleva proteggere i propri cuccioli. Solo che la madre del bimbo di 7 anni non potrebbe difendersi.

sbetti

Ci crediamo padroni di tutto e invece siamo padroni di niente

Era da un po’ che non seguivo i funerali. Quando facevo la cronaca locale i funerali erano all’ordine delle settimane.
Quanti morti. Giovani, meno giovani, morti improvvise, morti sulle strade. Malori. Incidenti. Omicidi. Arrivavi lì sul posto della cerimonia e ti sentivi quasi in difetto. La gente ti guardava strano. “Che diritto ho io a stare qui”, pensavo.
Che diritto ho io a cercare di impossessarmi e catturare il dolore degli altri. In una frase. In una lacrima. In un volto consumato dal pianto. In un fermo immagine. In un video. Era come quando arrivavi sul luogo di un incidente e vedevi quei teli bianchi a terra. Quanti strazi. Padri. Madri.
Ancora ricordo una bara di un ragazzo, sopra al mazzo di fiori c’era scritto: “Mamma e Papà”. In quei momenti trasalisci.
Così ieri mi sono trovata a seguire il funerale del ragazzo morto a Caldes, in Trentino.
Il ragazzo aggredito dall’orso. E ho riprovato le stesse sensazioni. Che diritto ho. Che diritto ho di stare qui e pretendere di condividere il dolore con loro. Quando attraversi la folla col microfono te li senti addosso quegli sguardi. Gli sguardi di chi quasi ti compatisce perché fai uno “sporco lavoro”. E gli sguardi di chi se potesse ti tirerebbe un pugno. Andrea Papi stava correndo in un giorno di sole. Era uscito per andare a correre. Un saluto a casa. Mamma. Papà. Sorella. Fidanzata. “Ciao ci vediamo dopo”. E quel dopo non è mai arrivato. Il dopo è quello che conosciamo. Il dopo è tutto quello che viene dopo che il destino maledetto ha scritto. Il dopo è un vortice di singhiozzi, silenzi maledetti e sguardi al cielo. Un paesino sconosciuto al resto del mondo, lì, sopra la Val di Non, che nel giro di un baleno diventa il centro dell’universo. Accade così. Andrea si fidava del suo territorio. Si fidava di se stesso. Amava il suo Trentino, la sua montagna, la viveva come qualsiasi altro ragazzo nato lì.
Li ho visti oggi gli occhi di quei ragazzi. Li ho visti. Li ho visti parlare con gli occhi. Li ho sentiti. Li ho sentiti che dicevano: “Ciao mister ci vediamo domani, stessa ora l’allenamento”.
In questi giorni ho sentito tanto parlare dell’orso. Abbattimento si. Abbattimento no. E varie volte mi sono chiesta se sia giusto. Se sia giusto abbattere un orso colpevole di aver fatto l’orso. Se sia giusto lasciare una famiglia senza risposte. Senza giustizia. Quali risposte poi. Qualunque domanda conduce sempre alla stessa risposta: “Andrea non c’è più”.
Ho sentito quel padre chiedere giustizia. Dire che si poteva evitare.
E non lo so se sia giusto abbattere uno per salvarne cento. Probabilmente al posto della famiglia io vorrei l’orso morto. Ma basta? Basterebbe a rendere giustizia? L’orso non capisce il perché viene abbattuto. Siamo noi che li abbiamo importati che avremmo dovuto capire fino a dove era possibile. Siamo noi che li abbiamo lasciati andare, che avremmo dovuto fare qualcosa.
C’è una linea sottile sottile tra chi si dichiara pro abbattimento. E chi no. E c’è anche una famiglia che vede la sua vita cambiare per sempre. E che spero tramuti la rabbia in una nuova forza.
Anche perché io in tutto questo ho capito solo una cosa: alla fine ci crediamo padroni.
E invece non siamo padroni di niente.

sbetti

C’è un animale che terrorizza i pescatori. Ed è il granchio blu 🦀

Una mattina sempre con la mia troupe di Mediaset, formata da Carlo Brotto e Simon Barletti, sono uscita per andare a caccia di gamberi 🦐

La redazione voleva assolutamente i gamberi. I gamberi killer. Però era gennaio. Era pieno inverno. Dio se era inverno. Un inverno di quelli che non sono stati freddi. Ma ci sono stati alcuni giorni che l’inverno lo sentivi tutto. Te lo sentivi addosso e non ti lasciava scampo. Siamo arrivati sul Delta del Po che era mattina presto. Con sti paesaggi completamente avvolti dalla nebbia. Nebbia fitta. Grigi. Scuri. Che al solo guardarli ti veniva la depressione. Siamo usciti con la barca. Un freddo che ciufava e siamo saliti con i pescatori. Solo che i gamberi quel giorno non li abbiamo trovati e abbiamo scovato un altro animale che manco è nostro, viene da mari lontani e che si sta mangiando tutte le ostriche e le vongole.

Il nostro servizio andato in onda su Rete 4, Mediaset

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/il-terrore-dei-pescatori-il-granchio-blu_F312335901001C12

🎥🎞️ Carlo Brotto e Simon Barletti

#sbetti

Io li ho visti quei cinghiali scendere. Erano tanti. Uno. Due. Tre. Quattro.

A gennaio scorso con la mia troupe di Mediaset mi sono imbattuta in una riserva di cinghiali, pardon allevamento. Eravamo a Predappio, in provincia di Forlì – Cesena.

E li ho visti lì in mezzo a quella steppa scendere dalle colline.

Il contadino ha iniziato a chiamarli e sono arrivati a frotte. “Dai bella dai, uuu”, “Dai bella dai, uuu”. Erano tanti. Uno. Due. Tre. Quattro. E più il contadino li invocava più questi scendevano…

Il mio servizio andato in onda su Rete4 Mediaset

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/cinghiali-chi-subisce-i-danni-e-chi-li-accoglie_F312335901001C11

🎥 Riprese 🎬 e montaggio Carlo Brotto & Simon Barletti

La grande sete

Ho camminato sopra il letto di un fiume. E non è una bella sensazione. La grande sete…

Il mio servizio andato in onda su Mediaset Rete4

#sbetti

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/allarme-siccita-scompaiono-le-risorgive_F312335901009C16

Venezia: tra artigiani e imprenditori “qui soltanto stranieri”

Il mio servizio per Controcorrente Mediaset. Ripreso da Tg Com 24

👉 https://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/veneto/venezia-immigrati-lavoro_62027252-202302k.shtml

Servizio andato in onda su Rete 4 l’8 marzo 2023

Pulire i cessi per 7 euro lordi

Pulire i cessi per 7 euro lordi l’ora.
Sul litorale veneto è già allarme stagionali. Si trovano solo stranieri. Sentite cosa mi hanno risposto in una ditta di pulizie dove sono entrata con telecamera nascosta. Evidentemente per loro, pulire i gabinetti per 7 euro lordi l’ora, va bene…

Il mio servizio andato in onda su #Rete4 #Mediaset

Riprese e montaggio Carlo Brotto e Simon Barletti

Una parte del servizio


Il resto lo trovate su Mediaset Infinity 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/180-posti-offresi-uno-solo-risponde_F312335901009C07