Era da un po’ che non seguivo i funerali. Quando facevo la cronaca locale i funerali erano all’ordine delle settimane.
Quanti morti. Giovani, meno giovani, morti improvvise, morti sulle strade. Malori. Incidenti. Omicidi. Arrivavi lì sul posto della cerimonia e ti sentivi quasi in difetto. La gente ti guardava strano. “Che diritto ho io a stare qui”, pensavo.
Che diritto ho io a cercare di impossessarmi e catturare il dolore degli altri. In una frase. In una lacrima. In un volto consumato dal pianto. In un fermo immagine. In un video. Era come quando arrivavi sul luogo di un incidente e vedevi quei teli bianchi a terra. Quanti strazi. Padri. Madri.
Ancora ricordo una bara di un ragazzo, sopra al mazzo di fiori c’era scritto: “Mamma e Papà”. In quei momenti trasalisci.
Così ieri mi sono trovata a seguire il funerale del ragazzo morto a Caldes, in Trentino.
Il ragazzo aggredito dall’orso. E ho riprovato le stesse sensazioni. Che diritto ho. Che diritto ho di stare qui e pretendere di condividere il dolore con loro. Quando attraversi la folla col microfono te li senti addosso quegli sguardi. Gli sguardi di chi quasi ti compatisce perché fai uno “sporco lavoro”. E gli sguardi di chi se potesse ti tirerebbe un pugno. Andrea Papi stava correndo in un giorno di sole. Era uscito per andare a correre. Un saluto a casa. Mamma. Papà. Sorella. Fidanzata. “Ciao ci vediamo dopo”. E quel dopo non è mai arrivato. Il dopo è quello che conosciamo. Il dopo è tutto quello che viene dopo che il destino maledetto ha scritto. Il dopo è un vortice di singhiozzi, silenzi maledetti e sguardi al cielo. Un paesino sconosciuto al resto del mondo, lì, sopra la Val di Non, che nel giro di un baleno diventa il centro dell’universo. Accade così. Andrea si fidava del suo territorio. Si fidava di se stesso. Amava il suo Trentino, la sua montagna, la viveva come qualsiasi altro ragazzo nato lì.
Li ho visti oggi gli occhi di quei ragazzi. Li ho visti. Li ho visti parlare con gli occhi. Li ho sentiti. Li ho sentiti che dicevano: “Ciao mister ci vediamo domani, stessa ora l’allenamento”.
In questi giorni ho sentito tanto parlare dell’orso. Abbattimento si. Abbattimento no. E varie volte mi sono chiesta se sia giusto. Se sia giusto abbattere un orso colpevole di aver fatto l’orso. Se sia giusto lasciare una famiglia senza risposte. Senza giustizia. Quali risposte poi. Qualunque domanda conduce sempre alla stessa risposta: “Andrea non c’è più”.
Ho sentito quel padre chiedere giustizia. Dire che si poteva evitare.
E non lo so se sia giusto abbattere uno per salvarne cento. Probabilmente al posto della famiglia io vorrei l’orso morto. Ma basta? Basterebbe a rendere giustizia? L’orso non capisce il perché viene abbattuto. Siamo noi che li abbiamo importati che avremmo dovuto capire fino a dove era possibile. Siamo noi che li abbiamo lasciati andare, che avremmo dovuto fare qualcosa.
C’è una linea sottile sottile tra chi si dichiara pro abbattimento. E chi no. E c’è anche una famiglia che vede la sua vita cambiare per sempre. E che spero tramuti la rabbia in una nuova forza.
Anche perché io in tutto questo ho capito solo una cosa: alla fine ci crediamo padroni.
E invece non siamo padroni di niente.
sbetti

