Dentro la Zona Rossa

22 agosto 2019. Oggi mi è successa una cosa. Sono andata a pranzo con una persona. Una persona che mi ha accompagnato nella Zona Rossa. La Zona Rossa di Visso. E questi giorni vi racconterò di questa Zona Rossa, di questo Viaggio al Centro dell’ Italia, dove la terra trema.

Ve la racconterò sì, mentre l’Italia assiste al balletto dei cafoni.

Questa persona mi ha accompagnato. Divisa. Camicia. Fisico atletico. Una fascia che gli avvolgeva il braccio. Gli occhi piccoli piccoli dentro gli occhiali. Caschetto in testa e tutte le precauzioni del caso in quell’agglomerato fatto di cartoni.

Entriamo in quella zona ma fatti cinquanta metri lo scenario è raccapricciante. Apocalittico. Devastante. Sembra un paesaggio lunare, uno di quelli di quando nei film passa la furia della montagna e lascia il nulla. Spettrale. Sembra la fine di una guerra.

Allora dicevo entriamo e subito appena passato l’arco, passati quegli enormi tiranti puntellanti, ecco lì mi sono bloccata. Mi sono sentita come pietrificata. C’ho messo qualche secondo a realizzare dove fossi e cosa stessi facendo. Ma soprattutto perché. Lì per lì sono rimasta inorridita. Ammutolita. Atterrita. Non sapevo nemmeno se tirare fuori la macchina fotografica dalla custodia appesa al collo. Toccavo il pomello di quella cerniera senza sapere che fare. Ma poi. Poi mi sono fatta coraggio e ho ripensato a una frase che mi era stata detta durante un workshop da Maurizio Faraboni. Fotografando i lebbrosi Maurizio aveva detto: “Io credo che fotografando queste persone, abbia ridato loro un po’ di dignità”. E infatti la mia scelta é stata questa. Voler ridare dignità a queste persone. Volermi immergere nelle loro storie. E così lì per lì mi sono detta: “perché lo fai? Cosa vuoi dire? Che messaggio vuoi mandare?”. E in quella frase ho trovato un riposta. Guardavo le macerie e mi dicevo che quella era la mia risposta. Far parlare il deserto dei cadaveri. Quell’ammasso di macerie smembrate dalla natura.

Allora mentre tutti questi pensieri mi si affollavano in testa, capivo che questa persona che nel mentre mi accompagnava, vedeva che ero provata. Credo anche di aver lacrimato per alcuni istanti. Avevo i brividi. Volevo urlare. Ma non sapevo come fare.

Abbiamo continuato a camminare ma vedevo che a ogni scorcio lui si fermava. Tentennava. Non guardava. Tirava come il volto indietro. Come a non voler guardare. Come a non voler guardare ancora quell’apocalisse. Lui che con quell’Apocalisse ci convive. Lui che quell’Apocalisse ce l’ha davanti tutti i giorni. Lui che per la divisa deve essere forte.

Sì insomma vedevo che stava male. Che quando gli ho detto che disastro, abbassava lo sguardo.

Allora siccome mi faceva male vederlo così, a un certo punto gli ho chiesto: “ti fa male?”.

E lui. Lui lì per lì non si è sbottonato anche se in fondo lo voleva fare. Anzi. Forse si chiedeva pure e come mai una giornalista venuta da lontano gli chiedesse tutte quelle cose.

Ma poi. Poi siamo andati a pranzo e lì mi ha raccontato. E mi ha detto che vive in una casetta, ma che non è la sua casa. Che qui si sopravvive. Che questa non é vita. Che lui ha preso e ha trasferito la sua famiglia perché “che vita gli fai fare se ti svegli al mattino e hai davanti le macerie”.

Mi ha detto che quando entra lì dentro ogni volta fa un male cane.

Mi ha raccontato, accendendosi un sigaretta, che ormai lui non guarda più tante cose. Tanti formalismi. Tante cazzate. Perché quando per mesi non ti puoi lavare. Quando per giorni non puoi dormire. Quando ti trovi a dover aiutare la tua gente a cui non è rimasto niente, te ne fotti di tante sovrastrutture. Ed era pure gentile sapete. Dai modi d’altri tempi. Educato. Curato. Attento ai piccoli particolari. Forse perché quando hai visto la morte in faccia. Perché quando hai perso tutto, cominci a badare alle piccole cose. E a riprenderle in mano giorno dopo giorno. Pezzetto dopo pezzetto. Poi però. Quando gli ho chiesto perché avesse scelto di rimanere qui. E se fosse felice mi ha detto che non lo sa. Che si vedrà. E che ha scelto di stare qui a Visso. Per la sua gente. Per la sua terra. Per il suo popolo. Per il senso del dovere. Perché ha paura che abbandonando dovrebbe fare i conti con se stesso. E teme di non riuscire a perdonarselo mai.

Allora per un attimo ho pensato che deve fare le cose che più lo fanno star bene. Anzi. Gliel’ho pure detto. Poi però.

Poi però ho pensato che, in questo mondo dove tutti rivendicano diritti, sono poche le persone che fanno le cose per senso del dovere. E così con in mano quella macchinetta ho preso e ho scattato.

#sbetti

Dal diario di Facebook del 22 agosto 2019

Viaggio al centro della terra

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La tristezza. Lo strazio. I brividi che mi corrono lungo la schiena. Ho gli occhi pietrificati. Le macerie. Tutto intorno è spettrale. Quelle grida di uomini donne e bambini ancora riecheggiano nell’aria. “Vi scrivo da un paese che non esiste più”. #Visso.

Dal diario di Facebook, 21 agosto 2019

Quel borgo dove ancora la gente si prende per mano: Castignano

“La vedi questa via? Qui una volta c’erano il panificio, la macelleria, un sacco di bambini che giocavano a pallone.

Eravamo tutti qui».

La via è una rua, si chiama così qui a Castignano, un piccolo comune nell’entroterra marchigiano in provincia di Ascoli Piceno. Castignano, che prende il nome, si dice, da un grande castagno.

E chi ci parla è Dante Pieramici, uno dei pochi sopravvissuti a questo spopolamento che sventra i borghi d’Italia.

Un borgo a forma di piramide che se ne sta arroccato su una collina, ai piedi del monte dell’Ascensione, a 473 metri sul livello del mare.

Un paesetto che guardandolo dal basso, mentre con l’auto sali la strada a forma di spirale, ci vedi un imponente muraglione di tredici arcate che lo sorregge. Lì dove sprofonda nel vuoto una volta c’erano le case. Le famiglie. Un muraglione costruito per puntellare il borgo. Senza sparirebbe.

Come sparirebbero i suoi abitanti, i castignanesi, che ancora resistono e che per combattere lo spopolamento tornano al Medioevo… “…

Già perché domani a #Castignano inizia il Templaria Festival.

Il festival medievale più grande d’Italia.

E allora ricordate che vi avevo detto che qui ci avevo trovato un sacco di storie?

Che c’ho trovato Marcella che mi ha accompagnato a fare il giro del borgo fino a su in cima a San Pietro.

Lei c’ha quattro figli, tutti andati via dal borgo.

Ci ho trovato la zia di Bruna, che Bruna mo’ sta a fa la professoressa a Houston. Uno di quei cervelli che l’Italia regala al mondo. In barba al nostro Paese.

Poi c’ho trovato Dante che mi ha detto che lì, lì una volta su quella strada, ci stava il panificio, la macelleria, ci stavano loro che giocavano a pallone.

E poi. Poi c’ho visto un mondo bello.

Un mondo da raccontare.

Come ho fatto sul #Giornale.

LEGGI IL PEZZO

#sbetti 👇

http://www.ilgiornale.it/news/politica/paese-che-torna-medioevo-fermare-spopolamento-1739634.html

Comune Castignano

Ne ho viste di donne violentate

Io ne ho viste di donne violentate. Maltrattate. Denigrate. Offese. Derise. Donne vittime di uomini a cui avevano dato tutto e non ha avuto niente. Se non offese. Schiaffi. Violenze. Calci. Pugni. Botte.

Allora venerdì Facebook mi ha ricordato un fatto. Era l’anno scorso. Era giusto un anno fa quando al mattino mi chiamarono e mi dissero che c’era stato un omicidio. Stavo ancora dormendo ma subito mi rizzai in piedi dal letto. Il nostro lavoro è così.

Un uomo, mi dissero; un uomo ha ammazzato la moglie. Di botte. Come di botte? Sì di botte. Dopo un po’ mi dissero il nome della vittima e trasalì. Io quel nome lo conoscevo.

Quella donna la conoscevo.

L’avevo vista. La incontravo per le vie del paese. Nei corridoi della scuola. Lungo i viali dei portici di quartiere.

Allora mi dissi che no, che non poteva essere vero. Che non poteva essere lei. E invece. Invece era tutto vero. Quella ragazza si chiamava Maila Beccarello. E faceva le medie dove le facevo io. Il suo volto il giorno dopo era stampato su tutti i giornali. Allora feci il pezzo e ricordo che quel giorno, a mano a mano che raccoglievo informazioni, mi chiesi più e più volte come un uomo potesse arrivare ad ammazzare la moglie di botte. A a mani nude. Massacrandola. Pestandola a sangue. Colpendola più e più volte fino a che lei non fosse stata nemmeno in grado di dire basta. Fino a che lei non fosse stata in grado di gridare aiuto. E fino a che non avesse chiuso gli occhi. Per sempre. Ricordo che quando i carabinieri arrivarono, mi dissero che avevano trovato l’orrore. E allora fu una storia difficile da scrivere. E mentre le mie dita componevano parole, mille domande mi rimbalzavano nella testa.

Quanto quella donna potesse aver sofferto. Quanto quella donna potesse aver patito. Come si può arrivare ad ammazzare una persona di botte. Una delle morti più orribili.

Poi. Poi mi chiesi anche se fosse giusto.

Se un Dio esiste. Se fosse giusto per la madre di Maila sapere che la propria figlia sia stata strappata via dalla vita nella maniera più brutale. Soffrendo. Gridando. Implorando aiuto. Cercando in tutti i modi di rimanere aggrappata alla vita. Cercando ad ogni calcio, ad ogni pugno di reagire. E mi chiesi quanto possa essere grande il dolore di una madre, che ha tenuto in grembo quella creatura per nove mesi e l’ha messa al mondo, sapere che la figlia è stata ammazzata in quel modo.

Poi. Poi quando finii il pezzo e lo rilessi, mentre la sigaretta si consumava tra le dita, un brivido mi corse lungo la schiena e mi dissi che sì, che l’uomo può. Che l’essere umano può ammazzare così. E allora lì ho avuto paura. Perché la verità è che le situazioni così non cambiano. Non cambieranno mai.

Alzate la testa. Non abbiate paura.

Denunciate. Urlate. Parlate.

Non abbassate la testa. Non abbassatela mai. I segnali ci sono tutti. Non abbandonate l’indipendenza economica. Non mollate il lavoro. Non fatevi rinchiudere dentro quattro mura, sotto una coperta di sorrisi e botte.

Non fatevi inghiottire, non state dietro una porta ad aspettare che qualcosa cambi.

Non cambia. Non cambierà mai.

Apritela quella porta, spalancatela, spalancate le finestre. Gridate, urlate, chiedete aiuto, parlate, ma non chiudetevi.

Non chiudetevi mai.

#sbetti

Giustizia Per Maila Beccarello

Il sole si stacca e spicca il volo

Questa mattina ho preso e sono andata a vedere l’alba. Gli occhi ancora assonnati. I capelli neri lisci. Una camicia di jeans indossata di fretta, ho acceso la lucetta del bagno, mi sono guardata un attimo allo specchio e alle 5.35 ho detto: “andiamo”.

Credo sia uno degli spettacoli più belli della natura, come la nascita di un figlio, il tramonto sulla spiaggia, la giraffa che allatta il figlio, il pianto di un gabbiano, un bosco pieno di foglie, l’acqua che scorre attraverso le montagne. Ma credo sia lo spettacolo della natura più perfetto. Più perfetto che ci sia.

E ogni mattina ce l’abbiamo davanti agli occhi ma gli volgiamo il culo perché meglio così. Io me la ricordo la prima volta che vidi l’alba. Erano anni fa. E rimasi sbalordita da quella palla di fuoco che cresceva a picco sul mare che d’un tratto, squat, si stacca e abbandona la madre, il mare. Come un figlio quando nasce. Come la vita quando si genera. Come un figlio quando si stacca dal corpo della madre e diventa anche lui un tutt’uno con l’universo. E allora si vede sto sole che gioca a nascondino sul mare, che se ne sta dietro le tendine, poi. Poi un cerchio perfetto, tondo tondo, ineguagliabile e completo prende e appare giusto dalla linea sotto l’orizzonte. Lì. Lì un po’alla volta, con un crescendo di secondi e di sbuffi di sigaretta, comincia a salire verso l’alto. Poi. Poi quando è nato, stac, fa tipo una piccola resistenza, una piccola goccia, un piccolo lembo di sole che resta ancora attaccato a quel mare che sa di rosa di rosso e di aurora e magicamente si stacca e spicca il volo.

Questa è l’alba.

Ed è uno degli spettacoli più belli della natura.

#sbetti

Il porto di Porto San Giorgio

Oggi sono stata al Porto di Porto San Giorgio. Me ne stavo lì intenta a guardare, a pensare, a fotografare le barche quando passano due tipi e mi dicono: “se vuoi fare delle belle foto devi andare lì, lì laggiù in fondo; aspetti il sole che tramonta dietro la collina e vedrai che spettacolo”. E così. Così ho fatto. Lui era un uomo sulla cinquantina, c’aveva il codino ai capelli, magro, rinsecchito, indossava una canotta, una di quelle che ricordano gli anni Novanta alle feste del paese. L’altro invece era un ragazzo di colore e se ne stava in bicicletta come me. Allora ho preso, ho ingranato la marcia e sono andata giù dritta fino alla coda del Porto. Con i capelli al vento. E con il sale sulla pelle. Ho parcheggiato la bicicletta, mi sono accesa una sigaretta, mi sono seduta per terra. E ho guardato il sole tramontare.

E infatti. Un po’alla volta, giusta in tempo è sceso. Sempre più. Sempre di più. Scompariva lì dietro quella collina infuocata di rosso di giallo e di arancione che sembrava esplodere. Un panettone dorato era.

Poi accanto a me ci stava un tappeto di gabbiani in riunione. Che facevano conversazione.

E allora sapevo com’era questo Porto ma oggi ho visto la parte del porto vecchio. Quello fatto di barche arrugginite. Di bulloni scrostati. Di timoni pendenti. Di barche in riparazione. Di cantieri sempre aperti. Di panni stesi tra le fila di alcuni container.

Ed è bello questo posto. Bellissimo. È un posto che sa di mare. Che sa di sale. Che sa di barche parcheggiate. Di barche che fanno l’amore l’ una accanto all’altra. Che intrecciano gli alberi. Che spiegano le vele. Che svettano i tiranti. Un posto che sa del garrito dei gabbiani. Del silenzio degli oceani. Del frusciare del vento. Dei marinai che levano l’ancora. Dei pescatori che tirano le reti. E dell’acqua che sbatte flaccida sulle pareti della banchina.

E allora me ne sono rimasta lì. Ho fatto alcune foto. Mi sono fumata una sigaretta. Due. Tre. Ho ascoltato i discorsi dei gabbiani. Ho salutato i pescatori. E ho ringraziato quei due signori per avermi condotto in un posto che altrimenti rimaneva nascosto.

E così da questa terrazza, fumando una sigaretta, ve lo volevo raccontare.

#sbetti

Mingus. Quel piccolo scrigno a bordo sul mare 🌊

Attenzione. Post per gente sensibile.

Fuori dal comune. Post per chi non si adatta e lascia sempre il segno.

Allora questa è una storia che va raccontata.

Questo che vedete qui sotto è il mio amico Domenico Pirrottina. Lui, romano di nascita ma marchigiano di adozione, è il titolare di questo “negozio” qui: Mingus.

E allora Mingus se ne sta a Porto San Giorgio in viale Bruno Buozzi. Pensate che accanto ci sta pure il kebabaro per il triste declino della nostra società. Allora dentro Mingus ci puoi trovare quel libro dimenticato, quel cd mai ascoltato, quel vinile che nessuno trova, quel tesoro di nicchia, quella foto che ti piace tanto o quel piccolo libro che tanto cercavi.

Non è un negozio per tutti. Ma dentro è tutto. Dentro è magia. Dentro è atmosfera. Dentro è un disco che va a ciclo continuo con quel movimento ipnotico che catalizza i ribelli e i sensibili. Che mette in moto i neuroni. Che affievolisce le preoccupazioni. E allora cos’e? È una piccola libreria che sta a bordo del mare in una località balneare, è un piccolo negozio di dischi tradizionali, una piccola bottega, una di quelle che ancora le passioni contano qualcosa, una di quelle che con la musica ci puoi volare, con la lettura ci puoi sognare, non una di quelle che la gente la Vigilia di Natale ci compra il regalo per l’amante da usare come fermaporte. È un luogo “catalizzatore di passioni e di emozioni” dove poter trovare tesori nascosti o dimenticati. Un negozio dove la musica la si coltiva, dove la lettura appassiona e ti si appiccica addosso come il sale che sa di mare; un negozio piccolo, dove dentro è semplicemente un sogno. Il sogno di Domenico che da piccolo voleva diventare rock star o cantautore. Il sogno di Domenico che la musica l’ha scelto. Che la musica gli sta incollata addosso. Fin da piccolo. Fin da quando sfidò fumogeni e sbirri per andare al concerto dei Police.

Un sogno riprodotto qui.

Con intere pareti scoscese di dischi, interi scaffali piene di libri, scaffali di fumetti, foto appese al muro, cimeli, agendine non commerciali. Una fucina di valori sogni e desideri, come Mingus, quel musicista genio e sregolatezza che come dice Domenico, che ha aperto il primo dicembre 2012, dove ci passano pure artisti famosi e a cui il Corriereadriatico.it ci ha dedicato recentemente un paginone, ecco “Mingus ci ha dato la spinta, la consapevolezza del creare e di accentrare in poco spazio, come una sua qualsiasi composizione, l’idea del bello e della libertà”. E infatti, Domenico, anarchico e libero, al mare ci va a Marina Palmense, dove non ci stanno gli scogli, e dove se ti sporgi puoi vedere l’infinito, quell’infinito che sembra l’oceano.

E da qui buon agosto a tutti.

#sbetti

Il sito 👉 http://www.mingus.it/chi-siamo/

E fai i conti con te stessa

Oggi una mia amica è partita per un viaggio. Il Cammino di Santiago. Mi aveva chiesto se volessi andar con lei. Ma di viaggio ne sto preparando un altro e impegni di lavoro mi tengono qui fino a sabato. Lei è andata da sola. Coraggio. Coraggiosa. Un viaggio di quindici giorni che la porterà da Oporto fino a su. Fino a su al Cammino. Allora ieri ci siamo sentite e mi fa: “sai mi sento strana”. E io le ho detto “lo so, immagino. Come se oggi fosse infinito. Come se oggi sembri non scorrere mai”. E lei mi fa: “esatto. proprio così”.

E lo so. Lo so che ci si sente strani. Che ci si sente lenti. Impauriti. Pesanti. Lo so che quando parti, il tempo prima di partire sembra non finire. Infinito. La so bene l’attesa di quei giorni. Lo so che quando i minuti scorrono le ore e le ore scorrono sui minuti tutto sembra procedere a rilento. E lo sa anche lei che di viaggi e partenze e arrivi e aeroporti ormai ha perso il conto. Lo so che non vorresti salutare nessuno. Che vorresti ritrovarti su quell’aereo senza accorgertene, così come se niente fosse, mandare un messaggio e dire: “sono partita e sono anche quasi arrivata”. Io. Io non dico mai quando parto. Lo dico sempre lo stesso giorno. Perché ogni volta. Ogni volta è come fosse la prima volta. Ogni volta non ti abitui. Ogni volta pensi che sarà diverso e invece. Invece ogni volta è pure peggio. Perché si alza la posta in gioco. Perché cambiano le aspettative. Perché ci si pongono nuovi e più difficili traguardi. Nuovi obiettivi. Perché ci si spinge oltre i confini. Si travalicano i limiti. E allora. Allora l’altro giorno mi sono trovata a fare un aperitivo con un amico. Uno di quelli che ti dicono le cose come stanno. Uno di quelli pieni di soldi ma che credono che nella vita le cose importanti non le puoi comprare. E lui. Lui ha subito capito che in questi giorni qualcosa frulla all’impazzata dentro la mia testa. E mi fa: “Serenella è il momento, devi scegliere. Tu sei uno spirito libero”. Già lo so. Lo so che devo scegliere. E poi mi ha detto: “Ma ricordati, che vuoi andare perché puoi tornare”. “Cioè?”. “Se non avessi una radice saresti smarrita”.

E lo so. Lo so bene. E le mie radici non le rinnegherò mai. Sono fiera delle mie radici. Delle mie origini. Della mia appartenenza a una terra. Ma gli ho detto che non sopporto le partenze. I saluti. I pianti. Gli sguardi. Quegli attimi prima di infilarti in aereo e dire: “sono su”. Gli ho detto che non sopporto tutti i giorni e le ore prima della partenza. Tutti quei minuti che scorrono lenti. Quegli sguardi annacquati. Quei tatti vellutati. Perfino le sigarette sembrano più lunghe. Perfino gli spiccioli del caffè preso al bar sembrano non fare rumore. Come quelli di quando partii per il Kosovo.

Vivi in una bolla. Che poi scoppia.

Perché poi. Poi ti rendi conto che fa parte del gioco. Del rischio. Che fa parte della vita. Ti rendi conto che una partenza è bella perché sai anche di poter tornare. Come questa mia amica che non vede l’ora di raccontarlo questo viaggio da sola. Perché quando stai da solo tutto aumenta. Tutto si ingigantisce. Tutto sproposita. Inizi a pensare. A scavare. A torcerti contro. A manipolare. A estrarre. Inizi a infilare la mano dentro la gola e tirare fuori. Tirare fuori di tutto. E così il giorno prima di partire mi fa: “poi quando sei da sola fai i conti con i tuoi demoni”. Già. Ci stanno alcuni momenti in cui sei tu e la tua fottutissima cazzo di paura.

E alcuni momenti in cui ti guardi allo specchio, incroci il tuo sguardo, ti guardi dritta negli occhi neri scuri come il carbone e fai i conti. Fai i conti con te stessa.

#buonanottesbetti

#sbetti

Ps: unghie di Sabrina Patron

Cerchiamo Martina

Stamattina apro il Gazzettino e vedo che c’è una foto. Mi colpisce. Perché quella foto la conosco. Quella bambina è Martina.

La bimba abbandonata il 25 giugno 2015 davanti la casa del parroco di Santa Maria di Sala #Venezia. Lì per lì leggo l’articolo, credevo si parlasse di lei. E invece. Invece è un’altra storia.

Allora per un attimo mi sono tornate in mente tante cose. E vorrei chiederne una: qualcuno sa che fine ha fatto quella bambina?

Io me lo ricordo quel giorno. Era pomeriggio tardi. Per una sera avevo finito prima. Ero appena rientrata e me ne stavo a piedi scalzi in casa. Mi ero appena accesa una sigaretta. Quando tac. Il cellulare si illumina. Sempre così il nostro lavoro quando gridi vittoria. Quando pensi di aver finito e invece. Invece si ricomincia da capo. E si riparte come fosse l’alba.

Allora dicevo mi ero appena accesa una sigaretta. Il cellulare si illumina e giuro me lo ricordo come fosse ora, leggo: “neonato abbandonato davanti la canonica Santa Maria di Sala”. Un messaggio così. A bruciapelo. Lanciato in quell’afa di fine giugno quando già non ne puoi più dell’estate. Insomma chiamo la redazione. E quasi timorosa dico: “c’è un bambino abbandonato davanti la canonica!”.

“Serenella corri!”, mi fa il redattore.

Così. Così mi infilo in fretta i jeans, borsa a tracolla, scarpe da ginnastica e parto. Volo.

Arrivo sul posto e tutto tace. Sembra tutto a posto. Temo il peggio. Penso se sia viva. Ma invece. Invece Martina, che prende il nome dalla suora che l’ha presa in braccio per prima, Suor Marta, se ne stava lì. Le suore l’avevano presa e stesa sul tavolo. L’avevano lavata. Asciugata. Pulita. Le avevano fatto una specie di bagnetto. E Martina se ne stava lì con il volto candido pulito e bello. Gli occhi chiari. Chiarissimi. Verdi. Era bella. Bella davvero.

Insomma da lì per dieci giorni fu un escalation di energia. Scatti, foto, dichiarazioni, flash, articoli di giornale, interviste senza fine, registratori pieni. E ricordo che era anche un periodo in cui pensavo di abbandonare. Quasi non ne volessi più sapere. Sì insomma le cose che capitano quando ti prende lo sconforto. Ma poi. Poi non ci pensi. Accade per caso. E riparti. E così. Così persone da ascoltare. Persone da sentire. Il parroco da intervistare. I medici. Gli infermieri. Il personale dell’ospedale. All’ospedale di Mirano era una gran festa per questa creatura data alla luce e abbandonata sul nascere. Ricordo che suor Marta aveva anche fatto appello alla mamma perché tornasse. Perché non si vergognasse. Perché tornasse indietro e la riconoscesse. La amasse. Ma credo. Credo che nessuno si sia mai presentato. Non lo so. So solo che Martina finii in una famiglia fuori regione mi dissero. Ma non seppi mai da chi. E allora vorrei ringraziarla questa bambina. E vorrei ringraziare pure la mamma. Vorrei dirle grazie. Grazie per avermi fatto credere ancora in questo lavoro. Perché il giorno dopo. Il giorno dopo il mio pezzo iniziò così: “Campane a festa stamattina. A Santa Maria di Sala ha vinto la vita. A Santa Maria di Sala ha vinto Martina”.

A Santa Maria di Sala quel giorno capii che il nostro più grande compito è dare una dignità a storie sofferte.

#sbetti