
22 agosto 2019. Oggi mi è successa una cosa. Sono andata a pranzo con una persona. Una persona che mi ha accompagnato nella Zona Rossa. La Zona Rossa di Visso. E questi giorni vi racconterò di questa Zona Rossa, di questo Viaggio al Centro dell’ Italia, dove la terra trema.
Ve la racconterò sì, mentre l’Italia assiste al balletto dei cafoni.
Questa persona mi ha accompagnato. Divisa. Camicia. Fisico atletico. Una fascia che gli avvolgeva il braccio. Gli occhi piccoli piccoli dentro gli occhiali. Caschetto in testa e tutte le precauzioni del caso in quell’agglomerato fatto di cartoni.
Entriamo in quella zona ma fatti cinquanta metri lo scenario è raccapricciante. Apocalittico. Devastante. Sembra un paesaggio lunare, uno di quelli di quando nei film passa la furia della montagna e lascia il nulla. Spettrale. Sembra la fine di una guerra.

Allora dicevo entriamo e subito appena passato l’arco, passati quegli enormi tiranti puntellanti, ecco lì mi sono bloccata. Mi sono sentita come pietrificata. C’ho messo qualche secondo a realizzare dove fossi e cosa stessi facendo. Ma soprattutto perché. Lì per lì sono rimasta inorridita. Ammutolita. Atterrita. Non sapevo nemmeno se tirare fuori la macchina fotografica dalla custodia appesa al collo. Toccavo il pomello di quella cerniera senza sapere che fare. Ma poi. Poi mi sono fatta coraggio e ho ripensato a una frase che mi era stata detta durante un workshop da Maurizio Faraboni. Fotografando i lebbrosi Maurizio aveva detto: “Io credo che fotografando queste persone, abbia ridato loro un po’ di dignità”. E infatti la mia scelta é stata questa. Voler ridare dignità a queste persone. Volermi immergere nelle loro storie. E così lì per lì mi sono detta: “perché lo fai? Cosa vuoi dire? Che messaggio vuoi mandare?”. E in quella frase ho trovato un riposta. Guardavo le macerie e mi dicevo che quella era la mia risposta. Far parlare il deserto dei cadaveri. Quell’ammasso di macerie smembrate dalla natura.
Allora mentre tutti questi pensieri mi si affollavano in testa, capivo che questa persona che nel mentre mi accompagnava, vedeva che ero provata. Credo anche di aver lacrimato per alcuni istanti. Avevo i brividi. Volevo urlare. Ma non sapevo come fare.

Abbiamo continuato a camminare ma vedevo che a ogni scorcio lui si fermava. Tentennava. Non guardava. Tirava come il volto indietro. Come a non voler guardare. Come a non voler guardare ancora quell’apocalisse. Lui che con quell’Apocalisse ci convive. Lui che quell’Apocalisse ce l’ha davanti tutti i giorni. Lui che per la divisa deve essere forte.
Sì insomma vedevo che stava male. Che quando gli ho detto che disastro, abbassava lo sguardo.
Allora siccome mi faceva male vederlo così, a un certo punto gli ho chiesto: “ti fa male?”.
E lui. Lui lì per lì non si è sbottonato anche se in fondo lo voleva fare. Anzi. Forse si chiedeva pure e come mai una giornalista venuta da lontano gli chiedesse tutte quelle cose.
Ma poi. Poi siamo andati a pranzo e lì mi ha raccontato. E mi ha detto che vive in una casetta, ma che non è la sua casa. Che qui si sopravvive. Che questa non é vita. Che lui ha preso e ha trasferito la sua famiglia perché “che vita gli fai fare se ti svegli al mattino e hai davanti le macerie”.
Mi ha detto che quando entra lì dentro ogni volta fa un male cane.

Mi ha raccontato, accendendosi un sigaretta, che ormai lui non guarda più tante cose. Tanti formalismi. Tante cazzate. Perché quando per mesi non ti puoi lavare. Quando per giorni non puoi dormire. Quando ti trovi a dover aiutare la tua gente a cui non è rimasto niente, te ne fotti di tante sovrastrutture. Ed era pure gentile sapete. Dai modi d’altri tempi. Educato. Curato. Attento ai piccoli particolari. Forse perché quando hai visto la morte in faccia. Perché quando hai perso tutto, cominci a badare alle piccole cose. E a riprenderle in mano giorno dopo giorno. Pezzetto dopo pezzetto. Poi però. Quando gli ho chiesto perché avesse scelto di rimanere qui. E se fosse felice mi ha detto che non lo sa. Che si vedrà. E che ha scelto di stare qui a Visso. Per la sua gente. Per la sua terra. Per il suo popolo. Per il senso del dovere. Perché ha paura che abbandonando dovrebbe fare i conti con se stesso. E teme di non riuscire a perdonarselo mai.
Allora per un attimo ho pensato che deve fare le cose che più lo fanno star bene. Anzi. Gliel’ho pure detto. Poi però.
Poi però ho pensato che, in questo mondo dove tutti rivendicano diritti, sono poche le persone che fanno le cose per senso del dovere. E così con in mano quella macchinetta ho preso e ho scattato.
#sbetti
Dal diario di Facebook del 22 agosto 2019