La vita di Almerigo Grilz diventa un film

“Why not”.

Lo ripeteva spesso Almerigo Grilz. Tanto da farlo diventare un motto.

“Lo ripeteva”, racconta l’inviato di guerra, nonché il suo amico fraterno Fausto Biloslavo “nelle situazioni più impensabili, quando si trattava di mangiare una brodaglia ammuffita fra i ruderi di Beirut, non essendoci altro da mettere in pancia, o davanti all’obbligato travestimento musulmano, con tanto di turbante e lunghe tuniche, per entrare clandestinamente nell’Afghanistan occupato dall’Armata rossa”. E ora la vita di Almerigo Grilz diventa un film. “Albatross”, il titolo, le cui riprese sono iniziate a Trieste mercoledì scorso. Primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quel giorno Almerigo, il 19 maggio 1987, era a Caia in Mozambico, e stava riprendendo uno scontro a fuoco tra i soldati governativi e i ribelli della Renamo, la resistenza nazionale Mozambicana. Gli ultimi appunti di Almerigo, custoditi in agende che lui usava come diari di guerra recitano: “La sveglia è chiamata poco dopo le 5. (…) Fa freddo, l’erba è umida e c’è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l’effetto di una fiammata in gola”. Nelle sue agendine lui annotava scrupolosamente tutto, ogni momento, ogni testimonianza, ogni racconto, il tutto accompagnato da disegni e mappe. “In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. (…) Il vocione del generale Elias (…) li incita a muoversi: Avanza primera compagnia! Vamos in bora!”. Da qui più niente. È il 18 maggio 1987. Il giorno dopo Grilz sarà ucciso. Aveva 34 anni. Il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca. Nel documentario video inserito all’interno di una mostra che gli inviati Fausto Biloslavo e Gian Micalessin hanno ideato e curato, si vede perfettamente il momento della morte di Almerigo. È lì che corre, mentre filma i guerriglieri. Il fiato che avanza. Le riprese a tutto campo e poi all’improvviso un colpo secco. Almerigo cade a terra. La cinepresa continua a riprendere, inquadra il piede di lui e poi si ferma. Fissa. Immobile. Il piede già quasi inerme. La camera continua a riprendere. È lì fissa su quel campo giallo e verde, su quel cielo azzurro che sa di grigio, come a dire: “Mi avete ammazzato ma qualcuno continuerà per me”. E Biloslavo e Micalessin hanno continuato.

(…)

“Why not – racconta Biloslavo – divenne un motto, che assieme a Gian Micalessin ci portò a viaggiare in mezzo mondo raccontando la cosiddetta “pace” degli anni Ottanta, ovvero guerre terribili e spesso dimenticate, ultimi bagliori dello scontro senza quartiere fra le superpotenze”. Chi lo sa. Magari oggi se gli avessero chiesto: “Almerigo facciamo un film?”, lui avrebbe risposto: “Why not”.

Serenella Bettin

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Biloslavo, Grilz e Micalessin

Mestre. Quei corpi carbonizzati tra le lamiere

Guardatela bene questa foto. L’ho scattata ieri sopra il cavalcavia di Mestre. Guardate il parapetto.
Ieri mattina sono uscita di casa per girare i servizi e il cielo sapeva di cenere. Aveva il colore plumbeo, del colore del piombo, opprimente, cupo, fosco, grigio, livido.
Toglieva il fiato da quanto cupo era.
L’odore oggi, qui sopra, era quello della morte.
L’aria è quella ferma rappresa di chi non crede ai propri occhi.
Il cielo è quello grigio cinereo che sa di corpi carbonizzati tra le lamiere.
Qui martedì sera, proprio qui, in questo punto maledetto, un autobus con a bordo dei turisti stranieri, ha sfondato il guard rail e il parapetto, ormai vetusti, e che “sembrano di cartapesta”, precipitando giù dal cavalcavia e schiantandosi al suolo.
Del resto basta guardarli questi parapetti, questi guard rail, così arrugginiti, così rancidi, così sbilenchi.
Non riuscirebbero nemmeno a sorreggere una bici, figuriamoci un bus di 13 tonnellate. Peccato che un guard rail, qualora ci fosse stato in quel punto, dovrebbe essere omologato per sorreggere un autocarro di 67 tonnellate.
Il bilancio è stato pensantissimo. 21 morti. 21. E 15 feriti. Tra le vittime anche un neonato. E un neonato che invece si è salvato. Del resto è così la vita, con una mano ti dà, e con l’altra ti toglie.
Un cavalcavia vetusto questo. Che c’ha oltre 50 anni, le cui barriere di protezione che sembrano ringhiere delle galline nei cortili, dovevano essere sistemate e rifatte anni e anni fa. Ma niente è stato fatto, oggi ho parlato con assessore e mi ha detto che non c’erano i soldi, che quel cavalcavia in effetti è un obbrobrio.
Il 4 settembre scorso in questo cavalcavia sono partiti i lavori e cantavano tutti in coro: “Sicurezza nelle strade, mai più vittime”. Oggi ho letto anche nella cronaca locale che qualcuno ha detto; “Tragedia che annulla le differenze politiche”.
Ma de che? Che vuol dire?
Invece piuttosto, chiedo, perché i lavori non sono stati fatti quando dovevano essere fatti? La tragedia del cavalcavia di Mestre si poteva evitare?
Il ponte Morandi insegna.
Oggi fuori dell’ospedale c’era il viavai di gente. I giornalisti però non potevano entrare perché come al solito ti dicono quello che devi dire e scrivere. Qui è stata allestita una stanza per i parenti delle vittime. Le persone si sorreggevano l’un con l’altra. Controllavano i documenti, parlavano con gli psicologi.
Fuori dall’obitorio ero uno strazio continuo. E qualcuno mi parla di differenze politiche.
Nel triste e forsennato berciare di tutti, un miracolo però è avvenuto.
Quel neonato sopravvissuto alla strage. È rimasto inviluppato tra i rottami dell’autobus accartocciato, rannicchiato forse tra i corpi di padre e madre che evidentemente prima dello schianto, in questi istanti orribili mentre l’autobus cadeva, hanno tentato il tutto e per tutto per salvarlo.
Una reazione istintiva in questo immenso miracolo della vita che fa i conti con l’agonia della morte.
Oggi sulla Verità. E ieri sera a Fuori dal Coro.

sbetti

Ph: Serenella Bettin

“Chi ha ucciso mio figlio non ha fatto un giorno di carcere”

Quando i genitori di Davide mi ricevono a casa è una mattina di settembre. Lo senti in questa casa che manca qualcosa, qualcuno. Il ricordo di Davide è lì presente, fisso, costante, è impregnato ovunque. Nelle pareti, nell’aria, negli occhi dolci della madre e in quelli mesti del padre.
Aveva 17 anni Davide. Tempo un mese e ne avrebbe compiuti 18.
Una vita piena di sogni. La fidanzatina Lucrezia. Il fratello più piccolo. L’essere così legato a lui come vivessero in simbiosi. I genitori. La motocross. La scuola. Le sue passioni. Il fratello gli diceva sempre che avrebbe voluto mettere su un’officina. “Io sto dietro con la tuta – gli diceva – tu studia, stai davanti, fai meccatronica”.
Accanto al tavolo del salone c’è una foto che parla di loro: ritrae Davide con il fratello.
“È un inferno quotidiano”, mi dice la madre piangendo. “Davide non c’è più”.
Il dolore è impossibile da cancellare. Soprattutto se sai che chi ha fatto del male a tuo figlio è ancora libero. E lo sarà sempre.
Al braccio destro la madre ha tatuato il nome del figlio. Al collo indossa la catenina con la sua iniziale.
Davide Pavan è morto la sera dell’8 maggio 2022. Aveva passato la serata dalla fidanzatina. Stava rincasando con lo scooter quando a Paese, comune del trevigiano, è stato centrato in pieno da un’ auto. Davide è praticamente morto sul colpo. A causare l’incidente un poliziotto risultato poi positivo al test dell’alcol e che viaggiava a velocità sostenuta. L’agente ha patteggiato una pena di 3 anni, 6 mesi e 10 giorni. Ma praticamente non ha fatto un giorno di galera.
Anzi ai genitori del ragazzo è arrivata una fattura di 183 euro da parte della ditta incaricata dal comune di Paese per pulire la strada rimasta sporca del sangue del figlio e per levare i rottami dell’incidente.
Quando il padre mi parlava si vedeva che aveva tanto da dire. Avrebbe voluto dire di più. Ma qualcosa lo smorzava. Non ce la faceva. Era come se si fosse rassegnato. I soldi che hanno avuto di risarcimento dice sono soldi sporchi. Si sentono anche in colpa a spenderli. “La casa poi”, mi dice. Questa casa è troppo grande. Troppo grande senza Davide. “Brucerei tutto”.
A un certo punto suonano alla porta. La madre si alza. “Scusi devo rispondere”.
“Signora non si preoccupi”.
“È uno dei soccorritori di mio figlio…”
La mia intervista su La Verità.

👉 https://www.laverita.info/pavan-vedelago-ingiustizia-2665710414.html

sbetti

La Verità – 21 settembre 2023

La radiografia al collo dell’utero prescritta a un uomo

Esattamente cosa vuole dire “necessaria radiografia al collo dell’utero” in un paziente uomo? 

E cosa vuol dire: “Paziente esce dall’auto, un incidente di 4 ore, iniziato due ore fa con dolore al collo e nausea?”. E “studio radiografico della mamma cosciente”? 

E ancora. Cosa sta a significare: “impressionante moderata disidratazione dovuta alla mancanza di appetito”. O “le membrane mucose secche e pallide sono annotate, non ittero”.

E cos’è esattamente un “fumatore gerarchico”?

A leggerli questi sberleffi della lingua italiana verrebbe da pensare che siamo matti o che qualcuno è uscito di senno, ma in realtà sono i referti giunti in mano alla Verità e provenienti dal pronto soccorso dell’ospedale di Latisana in Friuli Venezia Giulia.

Scivoloni linguistici, ruzzoloni verbali, svarioni idiomatici, che raccontano e narrano situazioni così talmente assurde e inverosimili, se non fosse per il fatto che gli autori di simili prodezze sono i medici esterni di origine sudamericana di cui il pronto soccorso di Latisana, quest’estate, si è avvalso per far fronte alla carenza di personale negli ospedali.

I medici argentini sono stati messi a disposizione all’azienda sanitaria universitaria Friuli Centrale da una società privata. Il punto è che se già in situazioni di emergenza è facile sbagliare, figuriamoci con questi referti di cui non si capisce assolutamente nulla.

E il pronto soccorso è una realtà in emergenza assoluta.

Non sono ammessi distrazioni, ritardi, sbagli, errori, tentennamenti. Qui il tempo corre alla velocità della luce e bisogna prenderlo in tempo prima che prenda gli esseri umani.

Qui si sta in fila come i dannati, il traffico di barelle è inverosimile. Arrivano come arrivano le valigie ai nastri trasportatori. Gli infermieri le prendono, le spostano, le accostano, fanno retromarcia, vanno avanti, indietro. Ci sono anche quelli che sollevano i malati e – uno – due – tre – al mio quattro – giù sulla barella. Se uno si mette anche a perdere tempo per interpretare quello che un medico sudamericano, con tutto il rispetto, voglia dire, campa cavallo. Tanto che ora l’ospedale ha deciso di prendere un interprete. Ossia, la sanità pubblica in Italia è così talmente avanzata, che anziché far lavorare i medici italiani, importiamo quelli di altri Paesi e poi se non ci capiamo, prendiamo un traduttore che ci fa da tramite. Che bellezza.

Così abbiamo contatto il presidente regionale Fvg Aaroi – Emac, l’associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani – Emergenza Area Critica, e abbiamo addirittura scoperto che tutto questo è dovuto sì alla mancanza di personale, ma anche al covid di cui ancora portiamo sul groppone gli strascichi. 

“La normativa italiana – ci spiega Alberto Peratoner– non prevede che questi possano lavorare in Italia, però con l’emergenza covid, con una deroga, è stata data la possibilità ai medici extracomunitari di venire qui. Ma per lavorare in Italia uno deve avere una parificazione con la laurea italiana, così come noi per fare i medici negli Stati Uniti dobbiamo fare un esame. Ma allora perché non investire sui nostri specializzandi?”. Già. Perché? “Quello che c’è dietro a queste cooperative private per noi rimane un mistero. Noi vediamo solo il risultato finale, che è questo, ma cosa spinga una cooperativa a scegliere un medico latino americano anziché uno italiano non lo sappiamo”. Le aziende sanitarie comprano questi pacchetti dalle cooperative e come si dice “ndò cogli cogli”. “Infatti – continua Peratoner – poi a noi arrivano questi casi qua. L’azienda ha dovuto ingaggiare dei traduttori per permettere ai pazienti di capire la lingua. Il problema è che queste coop senza criterio lanciano questi medici nel sistema pubblico. Farebbe sorridere, se non si pensa che dietro ci siano delle persone”.

Serenella Bettin

La Verità 13 settembre 2023

“Signora qui è la polizia, sua figlia sta male, ha bevuto troppo”

Reportage uscito su La Verità.

Due whiskey per favore”. “Prego?”. “Sì, due whiskey”. Sono le cinque del pomeriggio. Lungomare Gramsci di Porto San Giorgio, in provincia di Fermo. Pieno agosto. Due ragazzini, all’incirca di quindici anni, si avvicinano al bancone dello chalet in spiaggia. Ordinano da bere. Roba forte, insolita per due ragazzi di quell’età. Il barista serve loro due bicchieri. Sghignazzano, sogghignano, il volto si corruga di un sorriso beffardo e sarcastico, poi spifferano qualcosa. Uno afferra il bicchiere, lo ghermisce tra le mani, lo abbranca, non sa come tenerlo. L’altro lo guarda. Agguanta il bicchiere anche lui. Pronti, mezza via, e giù a rotta di collo. A bere come forsennati. Come disperati. Uno, quello che pareva più borioso, più smargiasso, si sbrodola tutto, quel whiskey alle cinque del pomeriggio fa fatica ad andare giù. Poi tradito dall’orgoglio ormai ferito, si acciglia, molla un rutto che emette un suono come un tuono, l’altro lancia una bestemmia e lasciando il bancone immondo e inzuccherato, insieme prendono e se ne vanno. Il barista prende lo sparrone e pulisce i loro rimasugli.

Passa qualche giorno e la sera di Ferragosto in pieno centro le scene si ripetono. Si fanno eclatanti. Vistose. Ragazzini che barcollano sul lungomare con la bottiglia di vodka in mano, ragazzine svestite adagiate su una panchina in evidente stato di alterazione psicofisica. Minorenni che si raggruppano in spiaggia o ai giardinetti dei bambini e consumano alcol come fosse acqua. Fanciulli con ancora i denti da latte che si sorreggono l’un con l’altro. E poi via. Giù a bere, come se non ci fosse un domani, come se quel liquido fosse l’unico motivo del loro ritrovo. Li vedi quando vengo avanti. Tutti vestiti uguali, i jeans abbassati che a momenti si vedono le natiche, le scarpe da jogging ai piedi, i capelli laccati, impiastricciati, impomatati, le risate che si fanno sempre più forti, e poi diventano deliri, isterie, nausee, ubriacature solerti, mal di pancia conturbanti, voltastomachi nauseabondi. Fino a stendersi, fino a sdraiarsi per terra, fino all’amico che ti tiene la testa con la mano mentre vomiti davanti l’abitazione di qualcuno che manco conosci. Fino a quelle luci dell’alba che si elevano sul porto quando ormai si fa giorno. O fino a quelle luci. Le più tremende. Le luci blu. Gemiti di minori ubriachi, sirene che sopraggiungono nel cuore della notte, infermieri bardati di strumenti e valigette: misura la pressione, controlla la lingua, solleva le palpebre, tasta i polsi, carica, porta via in barella. Le porte dell’ambulanza che si chiudono e via in ospedale.

È successo anche l’altro giorno. A pochi chilometri da qui dove mi trovo ora. Ma accade in tutta Italia. Qui ad Ascoli Piceno la settimana scorsa, una ragazzina è stata portata al pronto soccorso dopo aver alzato decisamente il gomito: non si reggeva in piedi, barcollava, ciondolava, sbarellava, stava male, delirava. Le forze di polizia hanno chiamato i soccorsi. “Signora, qui è la polizia, sua figlia sta male, ha bevuto un po’ troppo, la stanno portando in ospedale”. Ma la risposta della madre lascia sgomenti. Ce lo racconta una nostra fonte.“Eh io sono a una festa adesso, il tempo che ci vuole ad arrivare”. Nessun allarmismo. Nessuna indignazione, nessuno scalpore. Nessun trauma o shock di quelli che ti vengono quanto ti chiamano per dirti che un parente ha avuto un incidente e tu sei lì che vorresti parlarci, sentirlo, vorresti entrare dentro a quel telefono e toccarlo con mano per vedere che sta bene. E fino a che non lo raggiungi ti disperi, ti vengono mille pensieri, mille dubbi, mille angosce, tutte in un minuto, in un secondo. Qui è normale, ci dicono. Per alcuni finire in ospedale dopo una sbronza sta diventano la normale consuetudine. Del resto sono sempre più. Basta ascoltare i racconti di qualche festa per concepire lo slabbramento dei rapporti, la tracimazione delle relazioni.

Ci si spinge sempre più in là, sempre un pezzetto oltre, per provare l’abuso, lo stato di euforia, l’ eccitazione, il furore. Ci si slabbra fino a stare male e si finisce riaccompagnati a casa senza sapere dove si sia stati, cosa sia accaduto. “Sono arrivato a casa l’altro giorno – ci racconta un ragazzo – e mi sono trovato a dormire in giardino, non so nemmeno perché”. Come non lo sai? Ma che è successo? Che hai fatto? “Boh guarda, eravamo tanti, tantissimi, siamo andati a casa dei genitori di un nostro amico e abbiamo preso da bere perché non ce lo vendono, aveva anche bottiglie di Scotch, roba forte, poi non ho più capito niente, uno ha iniziato a riempire i bicchieri, ci siamo fatti uno shottino, poi un altro, un altro ancora, poi abbiamo preso una bottiglia di Absolut, poi la vodka, oh bro – fratello ndr – dovevi vedere, c’era anche una mia amica che si passava il liquido sul dito e se lo infilava in bocca”. Ma e poi che è accaduto? “Non lo so. Mi sono trovato in giardino”. “Io se voglio scopare – ci dice un’altra ragazza – devo per forza bere, sennò non riesco a partire, a cominciare, io ho problemi col mio corpo e quindi bere mi toglie ogni inibizione”.

Anche qui due giovani la notte di Ferragosto sono finiti in coma etilico. E poi risse, malori. Feste in spiaggia con tanto di zaini con dentro gli alcolici. Funziona così. Una ragazza voleva prepararci uno spritz, senza nemmeno la soda, l’acqua, niente di niente, solo alcol, bottiglie di Campari e Aperol a nastro, e fiumi di prosecco da 3 euro da far venire il cerchio alla testa. La polizia era in borghese a controllare il rispetto delle norme sulle somministrazioni degli alcolici, ma i giovani sono più furbi del legislatore e quindi se non si possono vendere drink ai ragazzi, ci si porta l’alcol da casa. Ma siccome in giro nei precedenti weekend è successo il disastro, il sindaco di Porto San Giorgio, Valerio Vesprini, ha emesso un’ordinanza “contingibile e urgente” che imponeva di vendere per asporto “bevande alcoliche e superalcoliche in qualsiasi contenitore”, tra le 20 del 19 agosto e le 6 del 20 agosto scorso. Il punto è che l’ordinanza era per tutti, non solo per i minorenni, cosicché siamo entrati al supermercato e trovandoci il cartello davanti addio birra per gli amici che venivano a mangiare la pizza.

Del resto, mali estremi, estremi rimedi. Ma servirà? Il problema alcol nei giovani è da un po’ che va avanti, è esploso così dopo il covid e ancora non se ne parla abbastanza. L’anno scorso, era il mese di luglio, un ragazzino della provincia di Alessandria è stato portato in ospedale al limite del coma etilico dopo avere bevuto abbondanti quantità di rum durante una serata con gli amici. Prima di lui, era gennaio 2022, un’altra quindicenne, a Roma, è stata ricoverata in gravi condizioni sempre dopo una “abbuffata” di alcolici.E non si tratta di casi isolati: il fenomeno, avvertono gli esperti, è in preoccupante aumento.Nel caso del ragazzino, a chiamare i soccorsi è stata la madre. Le condizioni del ragazzo, avevano fatto sapere alla centrale operativa, “erano quasi al limite del coma etilico con un principio di ipotermia”. Anche ad aprile scorso, sempre qui nelle Marche, una ragazzina minorenne frequentante un istituto superiore era giunta in classe alle otto del mattino già ubriaca. Furono le insegnanti ad allertare i soccorsi. Ed era il 29 luglio scorso quando a La Spezia un ragazzino di 15 anni è finito in coma etilico per aver bevuto vodka acquistata in un minimarket etnico insieme a dei coetanei. Il negozio è stato sanzionato. Il ragazzino, vivo, giaceva lì su una panchina di piazza Verdi, bruciando la sua vita.

Serenella Bettin

Lampedusa: rubano i motori dai barchini e li rivendono agli scafisti

La Verità – 1 agosto 2023.

Rubano i motori dei barchini dei migranti e poi li rivendono a caro prezzo agli scafisti. Per un motore possono arrivare a chiedere anche 15 mila euro. 

È questo uno degli esiti inquietanti dell’ultima inchiesta della procura di Agrigento.

Il tutto avviene nel canale di Sicilia, la rotta delle migrazioni più pericolosa a livello mondiale e ora anche teatro di pirateria marittima. 

Sono nordafricani, si fingono pescatori, si trasformano in pirati e minacciano i migranti in mare. Con i loro pescherecci inseguono i barconi dei naufragi che viaggiano verso le coste siciliane, poi se questi desistono, i pirati si mettono di traverso, sbarrano loro il percorso, li costringono a fermarsi e li minacciano con dei coltelli.

Prima rubano i motori delle “carrette”, poi lasciato a piedi il natante, depredano e fanno razzia di tutto, dai soldi, ai cellulari, lasciando i disperati senza possibilità alcuna di chiamare i soccorsi.

Quattro di loro, tunisini, tutti dai 43 ai 50 anni, sono già stati fermati dalla squadra mobile di Agrigento, dalla sezione operativa navale della guardia di finanza e dai militari della guardia costiera di Lampedusa. 

E si tratta del comandante e dell’equipaggio del motopesca “Assyl Salah”. Gli investigatori sono giunti a loro grazie alle testimonianze di alcuni superstiti del naufragio del 23 luglio scorso, in acque sar maltesi, ossia le zone search and rescue, quelle di salvataggio. Quel giorno ci furono 5 dispersi tra cui un bimbo. Trentasette vennero sbarcati a Lampedusa e 16 di loro, a causa di ustioni sparse in tutto il corpo e ipotermia, vennero portati nel poliambulatorio per essere medicati. Raccontarono che erano in 43, forse in 45, e che tra di loro c’erano anche 3 bambini. Dissero di essere partiti da Sfax in Tunisia, come tanti disperati che ogni giorno si imbarcano cercando di raggiungere le nostre coste, e di essere partiti il 22 luglio alle 22 circa. Lì il barchino sul quale erano trasportati venne avvicinato da un peschereccio tunisino che tentò di rubare il motore. Di lì a poco ci fu il naufragio. Agli investigatori però queste testimonianze non giunsero come nuove, c’erano stati episodi simili e da lì gli inquirenti iniziarono a unire i puntini. Si erano già accorti che diversi barchini, prevalentemente di fabbricazione artigianale, arrivavano a Lampedusa senza motore. Già a fine aprile scorso una bambina di appena 4 anni cadde in mare e annegò perché durante la navigazione l’imbarcazione dove viaggiava venne abbordata da un peschereccio tunisino che anche questa volta tentò di depredare tutto.

Il 26 marzo scorso sempre un barchino di sette metri, con 42 persone a bordo, venne trovato alla deriva senza motore, che, stando alle testimonianze fornite dai migranti, era stato rubato proprio da un peschereccio tunisino.

La procura di Agrigento, con a capo il reggente Salvatore Vella, ha dato avvio alle indagini, con un lavoro di approfondimento del fenomeno con il comando generale delle Capitanerie, con il comparto aeronavale della Guardia di Finanza e col mondo dell’accademia universitaria. Tanto che le informazioni acquisite nell’ambito di questa inchiesta sono state condivise con i Paesi esteri tramite i canali Interpol.

E gli esiti sono inquietanti. Gran parte dei barchini soccorsi sono senza motore. E nel Mediterraneo ci sarebbero bande di tunisini, a bordo di pescherecci, che rubano e poi rivendono a caro prezzo agli scafisti i motori dei barchini. Sono stati sequestrati anche motori da 300 cavalli, e il prezzo per un motore, rivelano fonti della Verità, va dai 1000 ai 15 mila euro. Dipende dalla potenza. Quelle presi di mira dai pirati sono le imbarcazioni cariche di gambiani, ivoriani, guineani, senegalesi, sudanesi e burkinabé. Non quelli con i connazionali a bordo. Il gip ha già convalidato i fermi, disponendo a carico degli indagati la custodia cautelare in carcere. Rischiano fino a 20 anni di reclusione.

“Per la polizia giudiziaria – ha detto il procuratore capo Salvatore Vella – diventa sempre più difficile lavorare su Lampedusa, e questo a causa dei numeri incredibili che stiano registrando quest’anno, sia come sbarchi che come migranti che approdano. Oltre al fatto che mancano interpreti”. 

“L’operazione conclusa – dice il questore di Agrigento Emanuele Ricifari – è motivo di orgoglio: ciascuna delle forze di polizia ha svolto la propria competenza. Il risultato traccia una strada per il reato che viene contestato nel nostro ordinamento per la prima volta per fatti avvenuti nel Mediterraneo. In più è un deterrente per chi volesse fare azioni disdicevoli simili”.

“Questi arresti sono la conferma di quanto sia fondamentale contrastare l’immigrazione irregolare – ha detto il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi – anche a tutela degli stessi migranti che finiscono nelle mani di criminali senza scrupoli che ne mettono a rischio la vita”. Piantedosi si è appellato al “dovere di tutti gli Stati di agire insieme per sconfiggere questa piaga mondiale che riguarda i Paesi di origine, transito e destinazione delle vittime, per la maggior parte donne e bambini”. 

Serenella Bettin

Stuprata a 16 anni, niente starnazzo delle anime belle

La Verità – sabato 16 luglio.

Ha 16 anni ed è stata violentata nell’androne di un palazzo a Pioltello, comune dell’hinterland milanese, da un marocchino, la sera del suo compleanno. È la notte del 12 luglio scorso. Lei sta rincasando dopo la festa, quando all’improvviso le si avvicina un uomo. Lo conosce. Di vista. Lui è uno di quelli che l’Italia accoglie e che vive di espedienti, spaccio e droga. Uno di quelli che riempiono le nostre stazioni, le nostre piazze. Uno di quelli che hai paura a incontrare la sera quando scendi dal treno in stazione Centrale e devi farti venire a prendere. Lei lo respinge, o almeno ci prova, tenta di allontanarlo, ma è notte, è buio, è da sola. La gente dorme. E i residenti sono chiusi in casa. Anche se urli nessuno ti sente. È così. È la triste realtà del nostro Paese. Accade a Bologna, a Roma, a Mestre, a Padova. Lei, ragazza nata a Milano, di origine sudamericana è quasi a casa. Mancano poche centinaia di metri. Non è tranquilla alla presenza di quell’uomo. Il passo di lei si fa sempre più veloce, la testa dritta per non far vedere che hai paura, il respiro affannoso, il cuore che ti sale in gola, ti toglie l’aria, quando conti i secondi e preghi di arrivare a casa viva. Sono sensazioni che tutte le donne provano quando nelle città si aggirano liberamente i clandestini. La sua abitazione è sempre più vicina, vuole solo abbracciare la madre, stendersi sul letto, sperando che non accada il peggio. Ma a un certo punto. A un certo punto lui la afferra. La ferma. La prende per un braccio. Il respiro di lei pare fermarsi, il cuore pompa a mille e lui, con forza, la spinge e la costringe a entrare dentro l’androne di un palazzo. Siamo tra i palazzoni popolari del quartiere Satellite, un ricettacolo divenuto simbolo del degrado, della violenza, della mancata integrazione. Un luogo come tanti altri in Italia dove se ti infili anche in pieno giorno speri di uscirne vivo. Vedi Primavalle, a Roma, dove se sei fortunato ti tagliano solo le gomme dell’auto. Quartieri abbandonati a se stessi. Terre di nessuno, in genere in mano alla sinistra progressista, dove si annidano microcriminalità e spaccio.

È nell’androne del palazzo che si consuma la violenza. I residenti sono in casa. Nessuno sembra accorgersi di niente. Lui la afferra e la violenta. Sono attimi terribili, quando hai 16 anni e diventi vecchia di colpo. Ti si macchia il foglio e diventa tutto un incubo. Ormai è impossibile scappare. Quando è tutto finito, sotto shock, corre a casa, avverte i genitori, loro chiamano un’ambulanza e lei racconta di essere stata stuprata. I soccorritori la portano al Soccorso violenza sessuale della clinica Mangiagalli di Milano, dove la ragazza viene sottoposta ad accertamenti ed esami. I medici riscontrano i segni della violenza e i carabinieri della compagnia di Pioltello iniziano le prime indagini. È grazie alla descrizione fornita dalla giovane e dalle immagini delle telecamere che nel giro di un paio d’ore individuano il presunto responsabile. Lui si chiama Younes M, ha 28 anni ed è nato in Marocco. È un ragazzo del quartiere, disoccupato, e che vive di espedienti. I carabinieri gli piombano in casa e lì trovano droga e bilancini. Quaranta grammi di hashish per la precisione, suddivisa in dosi, e strumenti per il confezionamento. “In casa non sono stati trovati soldi”, riferiscono fonti alla Verità. “L’abbiamo trovato grazie alle telecamere e alla descrizione ben precisa dataci dalla ragazza anche se in stato di shock e parecchio scossa”. La ragazza, infatti, è in grado di fornire anche la descrizione dell’abbigliamento dell’uomo e le telecamere fanno il resto, inchiodando il marocchino. Lui viene arrestato in flagranza per detenzione illecita di sostanze stupefacenti e denunciato a piede libero per violenza sessuale, nell’attesa di completare la raccolta di tutti i filmati e di acquisire la prima informativa in procura del dipartimento Tutela fasce deboli. L’indagine viene affidata al procuratore aggiunto Letizia Mannella. Lui dapprima viene trattenuto nella caserma di Pioltello e il giorno successivo finisce in direttissima. Il giudice convalida l’arresto e lui finisce in carcere in custodia cautelare. La ragazza nel frattempo viene dimessa. I due abitano vicini. “È un quartiere difficile questo – ci dicono – il 90 % di chi ci abita è marocchino, egiziano, gente che vive così”. Già. Ecco cos’ha portato l’accoglienza, il buonismo, la mancata integrazione. Ha condotto alla ghettizzazione degli stranieri. I clandestini, i poveracci giunti in Italia traditi dalla fortuna promessa, si sono presi i quartieri dettando loro le leggi. Non è il primo stupro che accade a Milano o nei comuni limitrofi.

L’ultimo, prima di questo, una decina di giorni fa a Legnano. Una donna di 52 anni, di origini sudamericane, è stata violentata da un pakistano di anni 33, poi arrestato dalla polizia. O come quella ragazza aggredita e violentata ad aprile scorso in uno degli ascensori della stazione Centrale di Milano. Decisivo è stato il video. Anche lui un 27 enne marocchino senza fissa dimora. Questi stupri però finiscono in sordina.

Qui niente starnazzo delle anime belle.

Serenella Bettin

Il mio pezzo per la Verità

 

 

La furia della tempesta 🌩️

In alcune regioni del Nord Italia martedì e mercoledì si è abbattuta la tempesta. Ieri ve ne ho parlato su La Verità. Il cielo si è fatto torbido. Il buio ha iniziato a camminare con passo solenne. Le nuvole si sono appesantite, increspate, il vento ha iniziato a soffiare e quel pennone tricolore affisso sul tetto di una casa ha iniziato a sventolare.
Sono all’incirca le otto di sera, il Veneto è nella morsa del caldo afoso, quello torbido, quello che fa mancare l’aria. La temperatura segna i 36°, quella percepita per l’umidità è di 38°. Qui lo sanno cosa vuol dire convivere con l’umidità che ti si incolla addosso, quando prendi i giornali la mattina e si bagnano. Lo sanno cosa vuol dire convivere con l’afa. È sempre stato così. L’afa quando è troppa, porta tempesta e grandine. È il buio e la luce. Lo yin e lo yang.
Mercoledì sera l’afa ha iniziato a diminuire. Lo senti quando diminuisce, si forma una brezza leggera che sembra dolce ma per chi vive qui, preannuncia l’Apocalisse.
Bastano pochi minuti e il vento prende forza, 7 nodi che diventano 8, 9, 10.
L’altra sera la gente ha iniziato a chiudere tutto, le auto che erano per strada hanno cercato riparo, tutto dentro casa con le finestre aperte ha preso a volare, a sbatacchiare, a rovesciarsi. Le zaffate di vento erano così forti che parevano onde ciclopiche. E tutto intorno erano fulmini, lampi, tuoni.
Qui l’8 luglio 2015, lungo la riviera del Brenta, nel veneziano, ci fu un tornado, un F4, con venti a 300 chilometri orari.
La gente lo sa bene cosa vuol dire trovarsi la casa scoperchiata da un minuto all’altro.
Fu l’apocalisse che spaccò in due il cielo.
Dove il tornado passò non lasciò nient’altro che distruzione e disperazione.
E mercoledì sera le tegole sono venute giù come carte da gioco mosse da un soffio, il vento aveva una tale furia che ha sradicato alberi, pali della luce, alcuni parevano staccarsi da terra, stroncarsi, pareva l’inferno. I chicchi di grandine hanno iniziato a cadere come palle dal cielo…

Qui il mio pezzo 👇🗞️✍️

sbetti

Quei bambini per sempre, spariti nel nulla

La Verità – 3 luglio 2023.

Angela Celentano, Denise Pipitone, Mauro Romano, Sergio Isidori, Mariano Farina e Salvatore Colletta, Alessia e Livia Schepp, Emanuela Orlandi. Sono solo alcuni dei nomi dei casi più eclatanti di bambini spariti, sospesi nel nulla, alcuni scomparsi alla luce del giorno, inghiottiti nel buio. Bambini che ora sono, sarebbero, sarebbero stati, uomini, donne, adulti appunto. Per i genitori, per le cronache, rimangono sempre piccoli, anche se crescono.

La vita che avanti, che continua, questi bambini per sempre, finiti chissà dove e quelle famiglie spezzate in cerca di un appiglio per far sì che il punto interrogativo sciolga la sua zavorra e diventi esclamativo. O tragicamente un punto. 

Stando al dossier “I bambini invisibili” realizzato da Telefono Azzurro, in Italia ogni giorno vengono denunciate in media circa 47 scomparse di bambini, di cui 36 sono stranieri e 11 sono di origine italiana.

In Europa, pensate, si registrano circa 250.000 casi di bambini scomparsi, uno ogni due minuti.

Dati presenti nel Centro elaborazione dati del ministero dell’Interno, certificano che nel 2021 i minori scomparsi sono stati in totale 12.117 di cui il 3.324 italiani e 8.793 stranieri. Un aumento considerevole rispetto all’anno precedente.

Nel 2020 le persone scomparse, infatti, sono state 13.527 persone, di cui 7.672 minori: di questi, solo il 43% è stato rintracciato (3.322). Chi non viene ritrovato finisce nelle file dello sfruttamento, della tratta degli esseri umani, della violenza.

Sempre secondo Telefono Azzurro l’anno scorso sono state presentate denunce per la scomparsa di 17.130 minori.

E di queste, 14.410 riguardano ragazzi tra i 15 e i 17 anni. L’età dell’adolescenza, quella che ti fa sentire grande, ma sei ancora piccolo.

Degli oltre 17 mila bambini di cui non si ha più notizia, il 75,90% riguarda stranieri e il 24,10% italiani. Di questi il 72,11% viene ritrovato, ma solo il 31,17% riguarda gli stranieri.

Il numero maggiore di denunce per i bambini scomparsi è quello di egiziani e tunisini, ossia il 43,61% di tutti i casi di scomparsa di minori stranieri.

La maggior parte è di sesso maschile (91,33%). Dal 2021 al 2022 l’incremento è stato del 47,86% per i minori stranieri e del 24,18% per i minori italiani.

Se ci concentriamo sui primi quattro mesi del 2023, sempre in Italia, i minori scomparsi sono 5.908. Di questi ne sono stati ritrovati 2.423.

Gli italiani scomparsi da gennaio ad aprile sono 1.319. Di questi, 974 hanno fatto ritorno a casa, ma degli 345 ancora non si sa nulla. Di stranieri ne mancano 3140, su 4589 scomparsi. Numeri impressionanti che fanno rabbrividire e i brividi corrono ancora di più se si analizzano i dati dal primo gennaio 1974 fino al 31 dicembre 2020. Il 24 esimo report del Commissario straordinario del governo per le persone scomparse, stima che in questo poco meno di mezzo secolo sono sparite in Italia, 258.552 persone (di 62.842 non c’è più traccia anche dopo anni) e circa il 53% di loro è minorenne.

In questo arco temporale, 136.884 sono state le denunce di scomparsa di minori: 43.655 di nazionalità italiana e 93.229 stranieri. Che fine fanno?

Sergio Isidori aveva 5 anni e mezzo quando è scomparso, da Villa Potenza, in provincia di Macerata, dove viveva con la sua famiglia. Era il 23 aprile 1979. Oggi avrebbe 49 anni.

Denise Pipitone è scomparsa misteriosamente da Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, l’1 settembre del 2004, all’età di 4 anni e non è mai stata ritrovata. La mamma della piccola, Piera Maggio, non ha mai smesso di cercarla. Mauro Romano aveva 6 anni quando venne rapito davanti casa dei nonni a Recale, in Salento. Era il 21 giugno 1977.

Se si va sul sito Gmcn (Global Missing Children Network ) una rete internazionale il cui scopo è quello di fornire un aiuto al ritrovamento dei minori scomparsi, e si effettua una ricerca, la maggior parte in Italia riguarda stranieri. Ma c’è anche Pasquale Porfidia, scomparso a 8 anni da Marcianise, in provincia di Caserta. Era la mattina del 7 maggio1990. Oggi avrebbe 41 anni. 

Serenella Bettin

La Verità, 3 luglio 2023
Emanuela Orlandi

Dov’è finita Angela Celentano?

Era il 10 agosto 1996. Tra poco più di un mese saranno passati 27 anni. Quel giorno, alcune persone della comunità evangelica di Vico Equense, città della penisola sorrentina, tra il golfo di Napoli e quello di Salerno, si ritrovarono, come ogni anno, per una gita sul monte Faito.

Tra loro c’è anche una bambina di tre anni. È lì, insieme agli altri bimbi che gioca. I capelli riccioli neri, quegli occhioni grandi come gocce d’inchiostro, la maglietta azzurrina e un paio di pantaloncini rosa. Le ultime immagini che si conservano di lei, la mostrano in quello che doveva essere un sabato pieno di gioia. Ma alle 13. Alle 13 il padre si accorge che la figlioletta non c’è più. La bambina si chiama Angela Celentano e da quel giorno di lei non c’è più nessuna traccia. Sparita. Scomparsa. Volatilizzata nel nulla. 

Tutte le persone presenti quel giorno iniziano a cercarla, la zona è molto affollata, ma nessuno sembra averla vista. Che fine ha fatto Angela? Com’è possibile che una bambina nel mezzo di un picnic con tutte quelle persone sparisca così, lasciando ai genitori anni di angoscia e disperazione. Diventa una culla il dolore, dove la speranza è sempre accesa, ma la rassegnazione è sempre lì, pronta, che ti aspetta la sera. Quel giorno arrivano tutti: carabinieri, guardia di finanza, polizia, esercito, unità cinofile, elicotteri, raggi infrarossi, cani volpe, perfino i cavalli per avvistare le persone al buio. Per scongiurare una eventuale caduta della piccola, intervengono anche speleologi e rocciatori. La zona viene setacciata al cardiopalma, a spron battuto, con fare chirurgico. I carabinieri di Vico Equense ascoltano i testimoni, guardano e riguardano quelle ultime immagini di quel filmato girato poco prima che il padre si accorgesse della assenza della figlia, ma niente, Angela non si trova. I giorni seguenti arrivano molte segnalazioni, quasi tutte anonime e alcune case e ville della zona vengono perquisite.

Il 19 agosto arriva una telefonata a casa dei genitori. Si sente solo il pianto disperato di una bambina. È Angela? La speranza in quel frangente si fa più viva, i genitori non sanno che il tunnel durerà anche per gli anni a venire. 

Nell’audio si sente la voce di una bambina e in sottofondo forse quella di un uomo. 

Il papà di Angela, Catello Celentano, dice: “Pronto, pronto”. Lo ripete più volte quel “pronto”, come a voler infilare la mano dentro al telefono. Come a voler sentire la figlia, a sentirla ancora una volta. Poi il silenzio. Il telefono viene riagganciato e nessuna richiesta. Nessuna domanda. La voce non è mai stata riconosciuta con chiarezza.

Le indagini proseguono per anni ed è il 2009, quando salta fuori l’ipotesi di una pista turca. Una blogger racconta di aver saputo che la ragazza fosse ancora viva e si trovasse in Turchia. La magistratura italiana tramite una rogatoria internazionale riuscì a interrogare un uomo che avrebbe tenuto Angela segregata, ma le indagini si risolsero con un nulla di fatto, dall’esito negativo. Nel 2010 sul sito angelacelentano.com, il sito realizzato dalla famiglia per raccogliere segnalazioni, arriva una mail di una ragazza messicana Celeste Ruizche dice di poter essere Angela. Ma si scoprì che dietro la giovane messicana in realtà vi era un uomo. Poi fu la volta della pista francese. Ma anche qui nulla di fatto. E poi l’estate scorsa. Una ragazza venezuelana presenta una spiccata somiglianza con la bambina, compresa quella voglia sulla schiena che ha Angela. Viene eseguito il test del dna. A febbraio scorso arrivano i risultati. Non è lei. L’11 giugno scorso Angela ha compiuto 30 anni. Il sito tenuto in vita dai genitori segna un tracciato indelebile di questa, ormai donna. “Ti riconosci – c’è scritto accanto alla foto della figlia – se hai dubbi sulla tua identità e pensi di essere Angela, contattaci”. Angela oggi avrebbe i capelli castani, forse lunghi, quel viso ovale, dolce. Quegli occhi ancora neri come gocce d’inchiostro. 

Ad oggi il caso non è stato risolto.

Serenella Bettin

Pezzo uscito su La Verità il 3 luglio 2023

Qui il link 👉 https://www.laverita.info/bambini-scomparsi-2662217185.html

Com’era, come dovrebbe essere

Ladri di bimbi: aumentano i tentativi di sequestro

Il 10 giugno scorso una bambina è scomparsa in pieno giorno dal palazzo in cui viveva con la madre. La bambina si chiama Kataleya Alvarez e da quel giorno di lei non si sa più nulla. Ha 5 anni. Ed è stata rapita verso le tre del pomeriggio. L’edificio dove alloggiava è l’ex hotel Astor a Firenze. Alle porte del centro città. Accanto ai capolavori monumentali diGiotto, Brunelleschi, Ghiberti. Accanto alla inverosimile bellezza del Ponte Vecchio e alla struggente meraviglia della cattedrale di Santa Maria del Fiore. Accanto a questo ensemble di bellezze cromatiche che ogni anno appagano l’anima di migliaia di visitatori. Come possa una creatura sparire dal cuore di una città tanto viva come Firenze, con il vocio della gente che si propaga nelle strade, sarebbe interessante saperlo. Ma la realtà è che quella palazzina è un edificio interamente occupato da immigrati che pagavano il pizzo ai gestori del racket. Realtà lasciate allo sbando, volutamente sottaciute, dove tutti vedono ma nessuno parla. C’è voluto il sequestro di una bimba per portare all’attenzione delle istituzioni una realtà vergognosa che si consuma dentro quelle mura. Ma ormai i sequestri dei bambini o i tentati, avvengono sotto gli occhi di tutti. Pieno centro. Pieno giorno. Il padre di Kata ha chiamato i giornalisti da tutto il mondo. Dov’è finita mia figlia? Che fine ha fatto? Domande che rimbombano nella testa dei genitori fino a spaccarla. Quella speranza di un padre, di una madre, che ti tiene aggrappato alla vita e quell’angoscia che ti conduce verso la morte. Bambini che spariscono così nel nulla senza lasciare traccia. Genitori che devono avere non due, ma mille occhi perché basta una frazione di secondo. Il 21 maggio scorso in piazza Gae Aulenti a Milano, una donna marocchina ha tentato di rapire un bimbo di 2 anni. Tutto è accaduto in pochissimi secondi. Anche qui, pieno giorno, pieno centro, alle sei e mezza del pomeriggio, in una piazza che non è un sobborgo di periferia, con favelas, baraccopoli, baracche e abitazioni precarie; ma è una piazza pedonale, sopraelevata, a forma circolare, circondata da vari edifici come il complesso Unicredit. In più è unita a Corso Como, una delle strade più vitali di Milano, con negozi, bar, ristoranti. Il piccolo si trovava in piazza assieme ai genitori e al fratellino di sette. Con loro c’era anche un’amica di famiglia con un altro bimbo di anni otto. Le due mamme erano in gelateria, il padre era fuori ad attendere, e nel mentre sorvegliava i tre piccoli che erano a pochi metri di distanza, si è accostata una donna. La ventiduenne di origini nordafricane si è avvicinata ai bimbi, ha detto loro qualcosa, pronunciando “frasi senza sconnesse, senza senso”, rivelano fonti della Verità, e poi di scatto ha afferrato il più piccolo dei tre bambini ed è corsa via. È stata la prontezza di riflessi del padre del bimbo a sventare il peggio. Ma non è il solo caso. Giusto un mese fa c’è stato un altro episodio. Questa volta a Vercelli in Piemonte. Una donna di 30 anni ha tentato di rapire una neonata di 4 mesi in una chiesa in pieno centro. Anche qui è stata la prontezza dei riflessi della madre a evitare la disgrazia e la donna è stata arrestata e indiziata di tentato sequestro di persona, sottrazione di persone incapaci e violenza privata. Ma è il 22 aprile scorso quando un uomo di 50 anni a Fiumicino (Roma) ha tentato di rapire un bimbo di 8 anni. Il peggior incubo. Il rapimento del proprio figlio nel proprio giardino di casa. Secondo quanto raccontato agli investigatori, il bambino stava giocando nelcortile della abitazione dove vive con i genitori, quando uno sconosciuto all’improvviso si è avvicinato. Ha parcheggiato l’auto lungo la strada, è sceso dalla vettura e introdottosi nel giardino ha afferrato il piccolo per un braccio e lo ha trascinato con forza fino alla macchina. È stato il bambino a salvarsi da solo. Il piccolo si è divincolato ed è scappato tornando a casa dove la madre era già in preda al panico. E andiamo al 4 giugno scorso quando a Ferrara in piazza Castellina, anche qui a due passi dal centro storico, un uomo di 25 anni,indiano, ha cercato di rapire una bimba di 3 strappandola dalle braccia della madre. Solo la nonna coraggio di 43 anni è riuscita a evitare il peggio. La nonna, in gamba per fortuna, ha inseguito l’uomo fin dentro la stazione e lo ha messo con le spalle al muro. L’indiano puntava a salire su un treno per Venezia ma la nonna lo ha bloccato. Ha iniziato a urlare. La gente si è fermata. E allafine il venticinquenne è stato arrestato dai carabinieri. Ci piacerebbe sapere quanti giorni di galera fanno questi ladri di bambini. La riforma Cartabia ha introdotto la querela di parte anche per il reato di sequestro di persona, “facendo tuttavia salva la procedibilità d’ufficio quando la persona offesa sia incapace per età o per infermità”. Almeno questo. Alleluia. Anche a Monza pochi giorni dopo il tentato rapimento del bimbo a Milano in piazza Gae Aulenti, una bimba di 8 anni è finita nel mirino dei manigoldi. A denunciare il fatto sono stati i genitori stessi. La piccola stava passeggiando in strada a Correzzana, un comune di appena tremila anime in provincia di Monza e Brianza, con due amichette dopo una festa di compleanno, quando una donna, a bordo di un’auto, che indossava il velo islamico, avrebbe tentato di trascinarla dentro la vettura. Stando al racconto delle ragazzine in auto c’era anche un uomo. Qui la piccola si è salvata grazie all’intervento delle amiche. E la notizia ha messo tutti in allerta. Anche perché Correzzana, dicono, è un paesino molto tranquillo dove non era mai accaduto niente di simile. Qualche padre e qualche madre preoccupati, hanno lanciato consigli nei gruppi social e nelle chat su whatsapp, “si sta avvicinando la bella stagione e noi tutte, con i nostri figli, passeremo più tempo nei parchetti e all’aperto. Posti molto gettonati per queste cose. Basta davvero un attimo, fate attenzione”. Già. E infatti questi racconti sembrano rievocare tempi andati. Episodi che parevano essersi fermati e che invece aumentano in modo considerevole, soprattutto negli ultimi mesi. Già anni addietro se ne parlava. Nel 2010 a Bologna un uomo del Bangladesh tentò di rapire un bambino di 3 anni. L’episodio scosse parecchio la città. Il piccolo stava camminando con la madre in via Albertoni accanto al policlinico Sant’Orsola. La donna stava tenendo per mano il figlio quando lo straniero afferrò il bimbo tenendolo per il braccio e tentò di strapparlo a colei che lo aveva messo al mondo. Attimi di terrore e panico, anche perché se i farabutti riescono nell’intento, cosa fai? Chi chiami? Anche qui furono le grida della madre ad attirare l’attenzione. Ma è proprio nel mentre finiamo di scrivere questo pezzo, che giunge la notizia di un altro tentativo di rapimento a Milano. Uno sconosciuto, il 22 giugno scorso, ha cercato di rapire una bimba di 4 anni mentre era al parco Vergani con la baby sitter. E stata lei a evitare il peggio. L’uomo è scappato.

Serenella Bettin

Inchiesta uscita su La Verità il 3 luglio 2023

Baby gang. “Noi vestiti di nero così non si vede il sangue”

“Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo”. Sono “ragazzini”, hanno tutti dai tredici ai sedici anni. A volte anche otto. Li incontro un sabato notte accanto alla stazione di Padova. Sono in quattro, tutti vestiti uguali, zaini in spalla, guanti neri, i cappucci delle felpe che avvolgono le teste. Il capetto, quello più basso e tarchiato, ma assai sveglio, mi viene incontro senza indugio. Abbiamo invaso il suo territorio. E si sente minacciato. “Fammi vedere i tuoi documenti, chi sei? Cosa vuoi sapere?”. “Chi siete? Cosa fate?”, chiede. “Noi facciamo parte della baby gang AK47, hai presente il fucile? Ecco quello. Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo. Il nostro divertimento è bere, fumare, picchiare”.

Mi addentro in mezzo a loro. Sono quasi tutti stranieri. “Ragazzini di seconda generazione”, come li chiamano i progressisti.

Qui a Padova in zona stazione c’è un vero e proprio formicaio. Ma anche in Prato della Valle o in pieno centro. Sono divisi in gruppi a seconda delle nazionalità. Ci sono albanesi, marocchini, tunisini, romeni. I capetti li riconosci subito. Sguardo duro. Schiena dritta. Spalle fiere. Hanno intorno una nuvola di adepti che li segue. Se non fai come il gruppo sei tagliato fuori. Se li guardi più di mezzo secondo comincia la sfida e c’è da aver paura. In Prato della Valle, un gruppo ci spiega che “ci sono i Maranza, a Milano vengono chiamati Zanza. Bisogna essere tutti vestiti uguali e soprattutto di nero perché bisogna picchiare la gente e se picchi qualcuno non si vede il sangue”. Ci sono maschi, femmine. Quando si menano è proprio la vista del rosso vivo che li eccita. Il pugno preso in faccia. Il calcio. Il fatto che se rispondi, “l’altro ti rispetta”. “Ti senti invincibile – mi dice un bullo pentito – ti sale l’adrenalina nelle gambe ed è bellissimo”. “Una volta hanno fatto Verona contro Padova”, mi dice un ragazzino. Avrà all’incirca 12 anni. Accanto una ragazzina con addosso un piumino e sotto seminuda dice che “qui è normale e ogni weekend scoppia la rissa”.

A Mestre nel veneziano, la situazione non è diversa. I teppisti si annidano attorno al centro commerciale. Molti urlano, danno fastidio alle persone, sputano. Una banda turca, in pieno centro, mi mostra la maglia rossa con scritto “Turkey”. Hanno dai 13 ai 17 anni. “Urliamo per fare casino. Se uno inizia a fissarci io vado lì e lo colpisco. Per entrare nel nostro gruppo devi essere turco e nato in Turchia, siamo sempre i migliori e puntiamo i più grandi. Siamo dei criminali”. “Loro – mi dice un altro indicando due giovani – sono stati presi e schedati dalla polizia. Hanno menato un ragazzo perché ha insultato la loro patria e la loro madre”. Un ragazzo mi passa accanto con la bottiglia di vino in mano. “Noi siamo baby gang. Siamo tutti moldavi. Questa sera beviamo perché domani abbiamo un incontro. Siamo 30 contro 5. Da noi si usa così”.

Infatti. I vandali delle bande giovanili stanno tenendo sotto scacco intere città. Milano, Torino, Udine, Bologna, Roma. Bevono, si menano e hanno armi. Si organizzano nei social, Tik Tok, Instagram, si danno appuntamento in un luogo all’ora x e comincia la rissa. Albanesi contro marocchini. Tunisini contro romeni. Turchi contro moldavi. Neri contro bianchi. Bianchi contro neri. A Padova è anche accaduto che prendessero a bottigliate dei clienti seduti ai tavolini di un bar. Altre volte prendono di mira qualche coetaneo e non c’è verso di fermarli. Un ragazzino di 14 anni che intervisto nel Polesine, quest’estate è stato pestato a sangue. “Mi hanno fermato per chiedermi se avessi sigarette e soldi – racconta – mi hanno rubato 15 euro. Erano in quattro, poi c’erano altri sei, sette ragazzi. Alcuni avevano la mia età. Altri due più piccoli. Il ragazzo più piccolo mi diceva: “se mi incolpi un’altra volta io ti ammazzo”. Mi hanno picchiato, ho perso sangue e sono finito in ospedale. Avevo una lesione alla mandibola sinistra. Non è la prima denuncia che prendono, più di una volta hanno picchiato qualcuno”.

Un investigatore privato che raggiungo Giuseppe Tiralongo, a Roma ha “sventato” un omicidio. Ingaggiato dai genitori del ragazzino, italiano, ha scoperto che costui stava pianificando l’uccisione di un uomo con alcuni amici. Avevano già la pistola. “Qui non si parla più di baby gang – dice – sono vere e proprie bande di criminali. Ragazzini annoiati, anche della Roma bene”. Una nota del ministero dell’Interno del 7 ottobre scorso parla di baby gang come “una realtà in aumento in Italia”. Transcrime, il centro di ricerca tra la Cattolica, Alma Mater e l’Università di Perugia, il mese scorso ha pubblicato uno studio sulle Gang giovanili nel nostro Paese. “Nella maggior parte dei casi i membri sono italiani”, quelle “composte in prevalenza da stranieri di prima o seconda generazione sono più frequenti nel Nord del paese rispetto alla media nazionale. Mentre situazioni socioeconomiche di marginalità e disagio sono evidenziate in prevalenza nelle regioni del Sud”. Il report del Servizio analisi criminale della Polizia criminale sui minori, a febbraio scorso, parlava di 25 mila minori denunciati o arrestati nel 2021, con un +10%. In aumento del 20% i reati di lesioni personali, danneggiamento, minacce, omicidio doloso, rapina, resistenza e violenza a pubblico ufficiale. In crescita anche i traffici di stupefacenti e la percentuale degli stranieri all’interno di queste bande: dal 44 al 46 %. Ragazzi violenti, gruppi criminali, iniziano ad armarsi sul web e poi spaventano le piazze.

Serenella Bettin

La Verità – sabato 26 novembre 2023

Durante il servizio girato per Mediaset con il cameraman Carlo Brotto siamo stati colpiti da dei sassi lanciati dai ragazzi

Il nostro servizio qui 👇 clicca il link.

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/vita-da-baby-gang_F311547501046C05

E questa la mia intervista a un bullo pentito.

Intervista inedita ad un ragazzo che racconta la sua esperienza passata all’interno di una baby gang 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/confessioni-di-un-ex-baby-violento_F311547501046C08

Immagini inedite

Lungo la rotta balcanica

Una continua emorragia di clandestini. Di migranti. Un flusso inarrestabile. Arrivano a frotte di cento, duecento persone al giorno. Scendono dai boschi. Spuntano dagli alberi. Si mettono in cammino, molti dal Pakistan, poi calano verso Trieste ed entrano illegalmente nel nostro Paese. Siamo al confine con la Slovenia e percorriamo un tratto di rotta che fanno i clandestini per giungere in Italia. É notte fonda. Risaliamo i sentieri battuti dai migranti. A terra spuntano calzetti, scarpe, borse, zaini. Qui sono appena passati. Ci sono rifiuti, documenti, caricabatterie. La Rotta Balcanica viene percorsa ogni giorno da un numero di clandestini che supera di gran lunga le cifre degli sbarchi sulle coste siciliane. Secondo i dati forniti da Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere europee, da gennaio a ottobre 2022, sono stati 128.438 gli attraversamenti illegali nell’Unione Europea, con un balzo del 168 per cento rispetto ai primi dieci mesi del 2021. Sembra impossibile che ci sia una porta dell’Italia dominata da una invasione totalmente incontrollata. Senza respingimenti. Lunedì mattina qui, la polizia di frontiera ne ha rintracciati 118. Una funzionaria che incrociamo alla sottosezione di Ferretti a Trieste ci guarda con aria affranta. “Ne sono arrivati anche oggi?”, chiediamo. “Sì, come ogni santissimo giorno”. Vediamo i migranti ammassati mentre aspettano. Qui vengono prese le impronte, viene fatto lo screening sanitario e poi si effettuano le varie pratiche. L’ “accoglienza” nei centri è di competenza delle prefetture. Ma di fatto questa, di cui le anime belle si riempiono la bocca, non c’è. Agli intellò non interessa nulla se i clandestini finiscono con il riempire i piazzali delle stazioni in un hub a cielo aperto, come avviene a Trieste. Qui ne incrociamo centinaia. Qualcuno è in partenza per Milano. Qualche altro per la Germania. Ma molti vogliono rimanere in Italia. “Italy is good, Italy is good”, ci dicono. Sanno solo due parole. “Asilo, asilo” e “International protection”. Al mattino alle sette, chi ha l’invito da parte della polizia di frontiera a presentarsi all’ufficio immigrazione, fa la fila davanti alla questura per regolarizzare la propria posizione, chiedendo asilo o protezione. La maggior parte però si presenta spontaneamente e rientra nella cerchia di quelli non rintracciati. E sono tanti. Fonti della Verità ci dicono che se ogni giorno ne pescano 200, in realtà sono almeno il doppio. La presentazione in questura avviene un mese dopo il rintraccio, il che vuol dire che abbiamo migliaia di persone che di fatto rimangono in Italia clandestinamente. E ne siamo consapevoli. La questura poi trasmette le richieste di asilo alla prefettura affinché la commissione vagli la posizione del clandestino. E così passano altri due tre mesi. Dati alla mano, forniti dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, nel 2021 ci sono state 53.609 richieste. Di queste il 58% è stato respinto. Questo 58% dovrebbe andarsene dall’Italia ma, ci rivelano sempre le nostre fonti, di fatto non viene espulso e rimane qui. Solo il 14% prende lo status di rifugiato. Un altro 14% ottiene la protezione sussidiaria e un altro 14% la speciale. Dal Pakistan, per dire, su 7920 richieste nel 2021, ci sono stati 5583 dinieghi. I principali Paesi di provenienza sono Pakistan, Bangladesh, Tunisia, anche Afghanistan. L’ Egitto invece è la nuova presenza. Fonti ben informate ci dicono che tra i disperati che ogni giorno fanno la tratta si è sparsa la voce che in Italia si faccia presto ad avere i permessi. Ma anche qui stessa manfrina. L’83 % delle richieste egiziane viene rigettato. I migranti fanno ricorso e chi è uscito dalla porta rientra dalla finestra. L’anno scorso sempre la polizia di frontiera di Trieste in tutto il mese di ottobre aveva rintracciato 491 immigrati. Quest’anno 1932. Senza contare quelli non “censiti”. Il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, l’altro giorno è tornato a chiedere le riammissioni in Slovenia, in virtù di quell’accordo bilaterale del 1996. “Sulla rotta Balcanica – ha detto – non siamo Paese di primo ingresso e quindi è ingestibile di fronte a questi numeri dare risposte a una situazione che non si sarebbe dovuta creare”. “La situazione è insostenibile – dice alla Verità Lorenzo Tamaro, segretario provinciale del Sap Trieste – questa situazione non può essere scaricata sulla polizia che oltretutto lavora in forte carenza di organico e logistica inadeguata. Non abbiamo neanche delle norme adeguate e incisive come lo sono state quelle sulle riammissioni in Slovenia”. Prendiamo la via del ritorno. Incontriamo un gruppo di migranti. “Italy is very good”, dicono “I want to stay here. I want to stay here (Io voglio stare qui. Io voglio stare qui)”. Si fa sera. Nei boschi spuntano resti di indumenti e oggetti in continuazione. I clandestini hanno ricominciato a a camminare. Tra poche ore scenderanno verso Trieste. L’emorragia è inarrestabile. 

Serenella Bettin 

Pezzo uscito sul quotidiano La Verità il 17 novembre 2022 👇

Il mio servizio per Controcorrente Mediaset lo potete rivedere qui 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/migranti-come-arrivano-dai-balcani_F311547501047C03

Riprese di Carlo Brotto e Simon Barletti.

Montaggio: Simon Barletti.

Doppiaggio: Simon Barletti

Qui è quando abbiamo dormito in auto aspettando che calasse il buio per trovare i clandestini 👇

Serenella Bettin e Fausto Biloslavo 👇

E questo invece è un servizio realizzato con l’inviato di guerra Fausto Biloslavo nell’estate 2019 per il Giornale 🗞️

🎥📸 #Reportage: al confine tra la Slovenia e la Croazia. In viaggio tra i trafficanti della rotta balcanica. Qui il triplo dei clandestini dei barconi. E vogliono tutti venire in Italia.

LEGGI IL PEZZO 👇
http://m.ilgiornale.it/news/cronache/scudo-anti-migranti-1752804.html

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Appunti della Bettin 📲 👟 📝 👇

Quattro considerazioni sulla Rotta Balcanica che i talebani dell’accoglienza non apprezzeranno. Sono rientrata dalla Rotta e ho voluto lasciare che i pensieri defluissero via. Li ho lasciati scorrere come scorre l’acqua sul lavello sporco. Ero così talmente piena di visioni, di luci, di voci, di suoni, respiri, sbadigli, sospiri, di persone, di parole che ho voluto prendermi qualche ora per stare in silenzio e respirare. Ho lasciato che i pensieri scivolassero via per capire se fossi io a vedere tutto amplificato. Non lo è stato. Ho atteso il far della sera dormendo in auto. Il mio libro sull’immigrazione, karma vuole, si chiama proprio “Aspettando che arrivi sera”. La Rotta Balcanica è quella cosa che ti entra dentro e che vedi dal finestrino dell’auto quando stai per arrivare nel bosco e devi lasciare la macchina e proseguire a piedi. Sono suoni ovattati che immagini nella mente. Sono rumori sospetti, di notte, con le scarpe che scricchiolano sopra le foglie. Sono soffi di fogliame che cade. Voci nel buio. Luci in penombra che sembrano fiammelle che sputano fuoco sopra Trieste. Sono guardrail che ti passano accanto. Sono ombre. Quiete. Silenzi sospetti. Ma soprattutto sono passaggi. Da una parte all’altra. Dal Pakistan all’Iran. Dall’Iran alla Turchia. Dalla Turchia alla Bulgaria. Fino alla Serbia, alla Bosnia. Dalla Bosnia alla Croazia. Dalla Croazia alla Slovenia. E giù in Italia. Da questa porta aperta sul nostro Paese ogni giorno entrano illegalmente centinaia e centinaia di migranti. Il giorno che sono arrivata la polizia di frontiera ne aveva rintracciati 118. Erano tutti lì in fila per le pratiche. I documenti. Lo screening sanitari. Gli occhi spenti. Fuori dalla testa. I piedi martoriati dalle piaghe. Sembravano unguenti. Sanguinanti. Pieni di bolle. Pareva il miele che ribolliva dentro l’acqua. Carta vetrata. Cemento. Gesso. Pieni di terra. A una funzionaria a cui ho chiesto “Sono arrivati anche oggi?”, mi ha risposto: “Sì, come ogni santissimo giorno”. La polizia è affranta. Non ha mezzi. Risorse. Strutture. Danno loro un invito a presentarsi in questura. E questi la mattina alle sette fanno la fila. In piedi come i dannati li vedi mentre aspettano per chiedere accoglienza e protezione. Quale accoglienza. Quale protezione. Avuto il foglio, il prossimo passo è la commissione. Che deve vagliare la posizione di ognuno. Passano mesi. E chi esce dalla porta spesso, grazie ai ricorsi, rientra dalla finestra. In questo limbo creato ad arte “migranti” rimangono nel nostro Paese. Ingrossano le fila delle stazioni. Le vie. I quartieri. Le strade. Clandestinamente rimangono in Italia. Dati alla mano, il 58% delle richieste che la commissione riceve viene rigettato. Ma di fatto, mi dice una fonte ufficiale, questi dall’Italia non se ne vanno. Le espulsioni costano troppo. Rimangono qui. Senza casa. Né lavoro. Né niente. Perché alle anime belle, progressiste con il filo di seta e le sciarpette di Hermes, questo non interessa. Alle anime belle non interessa se questi una volta arrivati in Italia pernottano davanti la stazione, bivaccano sui giardinetti, sostano in mezzo alla strada, dormono sopra i carrelli della spesa del discount (visto io con i miei occhi). No, ai talebani dell’accoglienza interessa altro. Chi se ne frega se questi disgraziati si annidano nei parchi. Per i radical chic l’importante è che vengano in Italia, poi se sono ridotti allo sfascio in mezzo alla gente che per passare deve fare lo slalom tra sacchi a pelo e tende e coperte, non è un problema. Stanno lì. Aspettando che arrivi sera.

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