Teach me again

Mi ha destabilizzato il caso di Cloe Bianco.
Mi sento come se la mia schiena fosse un pezzo di marmo scalfito da un piccolo scalpello che piano piano fa saltare via a uno a uno tanti piccoli frammenti.
Partono schegge. Scaglie. Frantumi. Pezzi. A poco a poco cadono tutti quei sipari che avevamo costruito. E a poco contano le tifoserie da stadio.
Le storie si raccontano guardando in faccia la gente. Cloe Bianco è la professoressa transgender che nel 2015 nell’istituto di San Donà di Piave (Venezia) dove insegnava fisica, si presentò vestita da donna.
Ai suoi alunni disse: “Da oggi chiamatemi Cloe”. Lì si scatenò il putiferio. Assessori. Presidi. Alunni. Insegnanti. Genitori.
Passano gli anni e Cloe Bianco finisce col ricoprire incarichi in segreteria. Per una sua volontà.
Ma arriva l’11 giugno 2022 e il suo camper, quello che lei usa come casa mobile, viene ritrovato distrutto dalle fiamme in un bosco tra Auronzo e Misurina in provincia di Belluno.
Dentro: il corpo carbonizzato di lei.
Quando mi sono infilata dentro a questa storia venerdì scorso non sapevo a cosa sarei andata incontro. Le storie ti prendono. Ti avvolgono. Ci entri dentro. Non ci mangi. Non ci dormi la notte. Te le porti appresso. Te le senti addosso.
Ci lascio sempre qualcosa quando le racconto.
La cosa che più mi ha destabilizzato e mi ha fatto sudare è stata l’omertà delle persone.
Il capire poco a poco, tassello dopo tassello, passo dopo passo, ripresa dopo ripresa, telecamera dopo telecamera, che fondamentalmente nessuno ti voleva parlare.
In alcuni paeselli è ancora radicata la vergogna. Per cosa poi. Per cosa. Gente che si batte il petto in chiesa e poi si nasconde dietro un’acquasantiera.
“Non giudicare qualcosa che non puoi capire”, mi ha detto una cara amica.
Mi ha lasciato sgomenta la freddezza. A cominciare dalla famiglia.
Ancora conservo dentro di me quegli occhi del padre che mi fa entrare in casa scambiandomi per la nipote, io che gli dico: “no forse si è sbagliato sono una giornalista”. E lui che stringendomi la mano e guardandomi dritta dritta negli occhi come a volerli bucare col punteruolo mi dice: “E allora no. Allora vada via. Allora vada fuori. Non ne vale la pena. Non ne vale la pena. Deve capire che non ne vale la pena. Ha capito?”.
Cosa non ne vale la pena? Parlare del figlio? Della figlia? I suoi occhi che prima erano calmi pacati. Poi sono diventati pieni di rabbia. E di tanto dolore. Lo vedevi tutto. Lo percepivi nelle pieghe di quel volto che lentamente cambiava. Poi la moglie di Cloe. Cloe quando era Luca era sposato. Aveva una figlia.
Alla moglie ho scritto una lettera.
Poi il parroco. Se non fosse stato per un parroco di un’altra parrocchia, mio vecchio professore del liceo, a cui ho chiesto aiuto, non avrei saputo alcune cose. Il parroco di San Donà di Piave pensate, con tutti i buoni principi che ha la Chiesa, mi ha letteralmente sbattuto il telefono in faccia. Come se gli stessi chiedendo qualcosa di sconcio. Di sporco. Di losco. “De scondon me raccomando”.
Come se ti beccassero al lavoro col grembiule sporco e tu fai di tutto per nascondere. Ci butti l’acqua. Il sale. Quella frizzante. Lo fai smacchiare. Ma non serve a nulla.
Il sindaco di San Donà del Partito Democratico non mi ha nemmeno voluto parlare. Un altro mi ha detto: “basta che non mi metti in mezzo”.
Ma in mezzo a cosa?
Alcune alunne che ho contattato, prima mi hanno detto sì. Poi noi. Poi qualcuna ci ha ripensato. Solo due mi hanno parlato. Una brutalmente mi ha detto: “non ho niente da dire”.
L’ex preside prima non mi ha voluto parlare. Poi invece si è lasciato andare in una lunga telefonata che trovate nel mio servizio mentre colavo in macchina a 35 gradi all’ombra.
I vicini di casa non li ho sentiti perché una volta ho letto un’intervista di una giornalista che ha detto: “i vicini di casa è da provincialotti. Non limitarti a loro. Vai oltre”.
E oltre sono andata. Oltre anche le mie convinzioni. E ci ho visto una storia di solitudine. E angoscia. Un incubo. Anche in paese ho provato a chiedere. Ma nessuno voleva parlare. Ti guardavano con quelle boccucce di rosa bagnate dal sudore dei 44 gradi sotto il sole che sembravano figli di Dio immacolati dal perbenismo.
Gli insegnanti poi. Uno ne ho trovato. Un altro, cuor di leone, mi ha tirato pacco all’ultimo.
Cloe era completamente lasciata sola. Forse anche perché quando si innesta quel meccanismo dentro la testa per cui non vieni capita, ti isoli. Ti ammazzi. Ti lasci andare.
Nel suo blog aveva pubblicato le sue ultime intenzioni. Lo aveva fatto il 10 giugno. Il giorno prima di bruciare viva.
Chi seguiva il suo sito, quelli che sapevano la sua storia, non hanno visto. Non hanno letto. Non hanno capito. Quell’annuncio della sua morte è rimasto così, totalmente ignorato da tutti. Anche quelli che dovevano starle accanto non hanno avuto il coraggio di seguirla fino in fondo.
Riemergo oggi dopo giorni di ricerche. Di porte chiuse in faccia. Di falsi sorrisi. Di gente che posta per avere un like. E fondamentalmente se ne sbatte. L’unica immagine che conservo di quel padre e che non vi posso mostrare è lui che mi stringe la mano. E la sua voce che mi dice: “non ne vale la pena”.
Spero che questo servizio serva a qualcosa. Al di là delle nostre convinzioni. Spero di essere andata oltre. Anche per me è stata a modo suo una notte prima degli esami.
“Teach me again – cantavano Elisa e Tina Turner – teach me again”. Insegnami ancora.
Insegnami ancora.

#sbetti

Qui sotto 👇 il mio servizio andato in onda su Controcorrente Rete 4

Mercoledì 22 giugno 2022

Le colline della Versilia sembrano crateri lunari

Le colline della Versilia dall’alto sembrano crateri lunari. Il fronte del fuoco ha bruciato tutto. Le fiamme hanno devastato case, sentieri, piante. Le foreste di Massarosa nel lucchese sono in cenere. E dietro a questo, anche sul Carso, c’è la mano dell’uomo, vigliacco e spietato che brucia la terra dove vive. Le immagini che giungono dal drone dei vigili del fuoco, in volo sopra la Versilia, mostrano la devastazione.Colline annerite, incenerite; paesaggi completamente devastati e polverizzati. Immensi pezzi di terra senza più una pianta, un albero, un arbusto. Solo cenere. Noi di Libero l’avevamo annunciato tre giorni fa: “nel luogo da cui è propagato l’incendio, sono stati rinvenuti cinque inneschi”. E infatti.

Il rogo che da lunedì ha bruciato quasi mille ettari di bosco sulle colline fra Massarosa e Camaiore sarebbe stato provocato volontariamente dalla mano dell’uomo.A comunicarlo ieri il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani. “Le immagini delle foreste di Massarosa in cenere sono strazianti – ha scritto su Facebook – L’ estate si preannuncia rovente per il rischio incendi al quale si aggiunge la follia dell’uomo: sono stati trovati inneschi e la procura di Lucca ha aperto un fascicolo per incendio boschivo doloso”. Ieri pomeriggio era in corso il vertice tra la prefettura e il sindaco del comune di Lucca, Mario Pardini, per decidere il da farsi. Una delle questioni affrontate è stata la revoca o meno dell’ordinanza di evacuazione disposta dal sindaco giovedì scorso e che interessa 220 cittadini. Tutte persone che si sono appoggiate ad amici e parenti. Il comune di Lucca aveva anche allestito una palestra di una scuola. “Abbiamo predisposto nelle frazione evacuate presidi di polizia municipale – ci dice Pardini – per scongiurare atti di sciacallaggio”. Se ci spostiamo a Nordest il fuoco non si arresta.

Gorizia è una città coperta da una cappa come fosse nebbia. Non è l’afa. O meglio non solo quella. Sono le nuvole che si alzano dal Carso cariche di polveri fini. Il sindaco di Gorizia, Rodolfo Ziberna, ieri ha lanciato l’allarme per nuovi focolai che hanno ripreso forza fra l’ Italia e la Slovenia. E venerdì sera c’è stata l’evacuazione di vari comuni d’ oltreconfine, almeno 500 persone. Anche qui l’incendio sarebbe doloso. Fonti informate sui fatti riferiscono a Libero che è stato trovato un barattolo con all’interno un composto di “materiale bruciante” e “come tappo una lente grande quanto una moneta da due euro che col sole ha creato la combustione”. Il bilancio per ora è di 600 ettari bruciati sul versante italiano e 800 – ma potrebbero arrivare a mille – su quello sloveno.“L’incendio sul fronte tra Gorizia e Monfalcone – ci dice il sindaco Ziberna – è sotto controllo ed è in corso l’opera di bonifica per evitare nuovi inneschi. Oltre il confine invece è la tragedia. In Slovenia sono attivi sette elicotteri, Canadair croati, volontari che arrivano dalla Romania. Gorizia si è salvata, l’unica cosa è il livello Pm 10. Dovrebbe essere 50 ma nei luoghi colpiti abbiamo raggiunto anche i 300. Ho raccomandato ai cittadini di chiudere porte e finestre, e se devono uscire, di indossare la mascherina. Così come lavare accuratamente, anche col bicarbonato, la verdura, e bagnare con un panno gli infissi per togliere eventuali residui”. In una frazione di Doberdò del Lago, sempre nel goriziano, ci sono alcune abitazioni senza energia elettrica. Continue segnalazioni anche in Veneto. Incendi ieri nel vicentino e ogni tanto qualche focolaio a Bibione. Nel veronese le fiamme sono stati estinte e l’elicottero ha chiuso le operazioni. Al sud invece brucia la provincia di Matera. Le temperature qui sfiorano i 40 gradi. A Pisticci sono state evacuate 150 persone. E brucia anche la provincia di Palermo dove un vasto incendio ha colpito Monte Gulino.

Serenella Bettin

Libero – domenica 24 luglio 2022

Sono indomabili. E dopo la politica si stanno mangiando l’Italia

Libero venerdì 22 luglio

È un cofanetto di rara e squisita bellezza che accompagna quel pezzo di stivale che si estende alle pendici delle Alpi Apuane. Famoso per le spiagge che accoglie. Sabbia finissima, dune costiere, immense ville immerse nel verde; la Versilia è simbolo di mondanità elegante e raffinata. E ora brucia. Brucia. E Brucia.

Un territorio che si estende per circa 160 chilometri quadrati. Qui ci sono spiagge, laghi, montagne. Da Marina di Massa, passando per Forte dei Marmi, fino a Viareggio, ora è l’inferno. L’incendio è divampato lunedì scorso in serata, a Massarosa, in provincia di Lucca. Qui ci fioriscono industrie, centri abitati; vengono custoditi ulivi eccezionali, con panoramiche fantastiche. Ma ora qui si vede il rosso fuoco. Si respira la paura. L’angoscia. Il fumo che sale e ti entra in casa, dentro la gola.

L’incendio divampato lunedì sera ha camminato e camminato e si è allargato tra Bozzano e Massarosa, per oltre 90 chilometri di terreni.Tra martedì sera e mercoledì notte si è esteso verso Valpromaro, nel comune di Camaiore in provincia di Lucca; è sceso lungo la strada principale e ha scollinato verso Panicale dove ieri si stavano concentrando le forze antincendio. Un plotone di decine di squadre a terra, 105 pompieri schierati, tre elicotteri antincendi boschivi della Regione Toscana, tre Canadair e un elicottero flotta aerea dei vigili del fuoco. Il disastro. Ieri la stima era di mille ettari di terra interessati dall’incendio. Bruciati, volati via nel vento. Decine di case. E oltre mille sfollati.Il fumo è arrivato ovunque. Il vento ha soffiato quegli alberi inceneriti e quelle case distrutte e li ha portati fino al Mugello, fino a Viareggio, Forte dei Marmi, ma anche Firenze, Pistoia e Prato. La protezione civile ha consigliato di non uscire di casa, tenere chiuse le finestre e se si esce usare le mascherine Ffp2. Un macello. La procura di Lucca ha aperto un fascicolo. Ancora non si conosce bene l’origine di questo maledetto rogo, circoscritto al 70%. Anche se probabilmente è doloso. A Bozzano, nel luogo da cui è propagato l’incendio, sono stati rinvenuti cinque inneschi.

A Lucca è stato evacuato il paese di Piazzano. Il sindaco Mario Pardini ha firmato una ordinanza per 200 persone. A Firenze l’incendio al Poderaccio, nelle campagne tra l’Arno e la Greve, di due giorni fa, pare sia stato propagato da alcuni oggetti accatastati e da sterpaglie vicino ad alcune baracche probabilmente abusive.

L’incuria dell’uomo. L’inciviltà. Lo specchio dell’Italia.L’inciviltà che causa danni, disastri, morti.Ieri a Prepotto, in Friuli Venezia Giulia, una volontaria della protezione civile è morta. Era impegnata nello spegnimento di un rogo e un albero l’ha travolta.

E poi sul Carso, tra Monfalcone e Trieste. L’altra notte era l’inferno. Un muro di fiamme. “La periferia di Trieste brucia – ha scritto una poliziotta su Facebook – il Carso è devastato, Monfalcone è accerchiata dalla fiamme, non si respira e l’autostrada è chiusa”. Sul Carso Sloveno gli ettari martoriati sono oltre duemila. Ieri sono stati evacuati tre villaggi e i vigili del fuoco impegnati erano oltre mille. In soccorso sono arrivati anche i croati. Nel goriziano sono state evacuate 300 persone. E al porto di Trieste non arrivavano merci. Fincantieri è rimasta chiusa anche ieri. Riaperta invece la A4 in direzione Trieste.

In Veneto i messaggi con cui si annunciano tragedie, roghi, incendi, sono uno dietro l’altro. Dopo la tragedia della Marmolada è stata un’escalation. Di giorno, di notte. Ieri anche le colline del Veronese, quei saliscendi che sembrano gomitoli di lana dorata e verde, hanno preso fuoco. La Regione ha dichiarato lo stato di grave pericolosità. E poi incendi in Valsusa, sull’Appennino bolognese, sopra La Spezia; altri incendi a Roma. In Campania. Nel foggiano. Nel barese. Sono indomabili. E dopo la politica, si stanno mangiando l’Italia.

Serenella Bettin

Nei tribunali regna il caos. Ognuno fa un po’ quello che gli pare

Libero – giovedì 21 luglio 2022

Da quando faccio la giornalista la mia fiducia verso la legge e la giustizia è scesa sotto la suola delle scarpe. Quelle rotte per giunta.

Il mio pezzo su Libero 👇

Chi ha progettato le nostre aule di giustizia di sicuro era mosso da nobili intenzioni.
Appena entri nel luogo dove si celebrano le sentenze, balza agli occhi quella famosissima massima a caratteri cubitali: “La legge è uguale per tutti”. Poi quando entrano i giudici ti rendi conto perché quel brocardo di derivazione latina rimane una presa per i fondelli.

Codesto infatti sta alle spalle di chi giudica e non davanti. Orbene. Partiamo dai fatti.

Mercoledì scorso a Sassari una dottoressa no vax, che si era rifiutata di sottoporsi alla vaccinazione anti covid, è stata reintegrata dal giudice della sezione civile del tribunale di Tempio Pausania. La dottoressa, dirigente medico tra l’altro, era stata sospesa dal servizio il 26 aprilescorso. La misura era stata decisa dalla azienda sanitaria di Olbia e dal Consiglio direttivo dell’Ordine dei medici chirurghi. Dopo un mese esatto, lei, assistita dal suo avvocato, aveva presentato ricorso urgente. Tra le motivazioni figurava l’impossibilità di mandare avanti la famiglia, in quanto il marito è dipendente di una società in crisi e lei è madre di quattro bimbi piccoli fra i 5 e gli 11 anni.Ieri, il giudice ha stabilito che la donna dovrà essere reintegrata in servizio e l’azienda sanitaria dovrà anche corrisponderle stipendi e contributi arretrati. Alé. Nell’ordinanza il giudice non argomenta con la presunta incostituzionalità dell’obbligo vaccinale, come in altre pronunce analoghe dei tribunali italiani – e già qui rende bene l’idea del caos che regna nel nostro Paese – ma fa riferimento alla carenza d’organico nell’ospedale e, bada bene, al fatto che la dottoressa aveva contratto il covid e avrebbe avuto 12 mesi di tempo per vaccinarsi e non tre, secondo le disposizioni ministeriali. Indi per cui la sospensione è illegittima.

Il 18 giugno scorso invece il tribunale del lavoro di Brescia ha disposto che a una dipendente di una azienda sanitaria venisse concesso l’assegno alimentare “in misura non superiore alla metà dello stipendio”. Anche lei sospesa e non vaccinata.

Immagini di un Paese che si sfracella che rendono bene lo stato attuale delle cose, dove ognuno sostanzialmente fa quello che gli pare. Solo che quando il caos regna tra i giudici, c’è da aver paura. Non solo alcune pronunce sono totalmente diverse, ma anche tra pronunce simili, le motivazione sono più disparate. A volte anche spiritose.

Senti questa per esempio. Pochi giorni fa, il 15 luglio, una psicologa no vax sospesa è stata reintegrata dal tribunale civile di Firenze e ora potrà esercitare la propria professione “in qualunque modalità (sia in presenza che da remoto) alla stessa stregua dei colleghi vaccinati”. Ma tra le motivazioni del decreto il giudice ritiene che i vaccini possano alterare il Dna e siano pericolosi. Li ha definiti “trattamenti iniettivi sperimentali talmente invasivi da insinuarsi nel Dna alterandolo”. La cosa ovviamente ha ingenerato il caos. A giugno scorso invece, sempre in Sardegna, un giudice del lavoro ha dato ragione a un medico non vaccinato, ma a condizione che si sottoponesse a proprie spese al test molecolare ogni 72 ore o ogni 48 all’antigenico in laboratorio o all’ antigenico rapido.

Verdetti diversi anche rispetto ad altre pronunce del Consiglio di Stato e dei Tar regionali. A novembre 2021 il Tar del Lazio aveva respinto il ricorso del medico di base Mariano Amici, sospeso dall’azienda sanitaria Roma 6, e lui era rimasto senza stipendio e senza lavoro. Così come il Tar Puglia che ad agosto scorso aveva confermato la sospensione senza retribuzione per una dottoressa no vax.Idem la pronuncia del Consiglio di Stato del 3 dicembre 2021 che aveva respinto il ricorso di un medico abruzzese che aveva rifiutato il vaccino sulla “base di dubbi scientifici non dimostrati”, facendo leva sul fatto che i medici “per legge e ancora prima per il giuramento di Ippocrate” non possono “creare o aggravare il pericolo di contagio”.

É invece recente la posizione del Tar Lombardia che boccia la legge che lascia senza lavoro e stipendio i sanitari che non intendono vaccinarsi. Sarà. Ma allora forse non è sbagliato il progetto delle aule di giustizia di cui parlavamo all’inizio. Basta semplicemente aggiungere un “non”. “La legge non è uguale per tutti” e si aggiusta tutto.

Serenella Bettin

sbetti

“Non stancarti mai di trasmettere”

Vi propongo qui la recensione di BookRider. Una fantastica triade di tre giovani professionisti che recensisce libri. E lo fa con dovizia di particolari, con abbondanza di prove, con ricchezza di argomenti. Dopo averli letti i libri, pagina dopo pagina, parola dopo parola.

Potete anche seguirli su Instagram 👉 https://www.instagram.com/bookrider/

Qui alcuni passaggi della recensione del mio libro

Aspettando che arrivi sera è un libro che apre a mille riflessioni, e fa parte di quei reportage giornalistici che aiutano a mettere seriamente in discussione la maggior parte delle nostre conoscenze. Su ogni argomento c’è la tendenza a parteggiare per una linea di pensiero o l’altra; in pochi decidono di entrare nel vivo per capire che la realtà è ben più complessa di un titolo sensazionalistico o di un minimale comunicato ANSA”

“Serenella Bettin è una perla rara, una giornalista che non ha paura di sporcarsi le mani verificando e approfondendo ogni possibile anfratto delle realtà che esamina”

“Il testo è in forma diaristica, e seguiamo l’autrice nel suo lavoro: raccoglie testimonianze dirette, incrocia dati, esamina fonti e documenti, è sempre in movimento”.

“Scopriamo di giri loschi e poco chiari all’interno delle cooperative, dove le indagini sono sempre troppo lente”.

“Il caso di Conetta è al centro del reportage. Serenella Bettin riesce a trasmettere immagini come pochi”

“Ero arrivata a Conetta con il fotografo Lorenzo Porcile. […] Ricordo quei cancelli che si aprivano e si chiudevano come a scandire il tempo che lì dentro sembrava essersi fermato. E ricordo quel tonfo secco, ignobile, freddo, sotto quel sole cocente. E ricordo anche quel filo spinato che vibrava ogni qualvolta il cancello si chiudesse. Così come ricordo gli occhi di quegli immigrati, dentro a quel recinto, dove a noi era proibito entrare. Appena arrivati, ci erano venuti incontro. Poi siccome lì davanti non potevamo stare, allora noi eravamo andati sul retro e lì i profughi avevano iniziato a sfogarsi. A gettarci addosso tutte le loro frustrazioni e mancanze della prima linea di accoglienza italiana, di quella bieca e corrotta accoglienza, abbracciata dal filo spinato.”

“Leggendo le storie narrate dall’autrice, sono stato travolto da un senso di indignazione. Come lei stessa nel diciannovesimo capitolo, però, il giornalista deve fare proprio questo: denuncia, fa arrabbiare, indignare, riflettere. Dovrebbe far saltare il lettore dalla poltrona. Il lungo pezzo di cui sto parlando – che potrebbe essere un ottimo vademecum del perfetto giornalista –, termina con: “Non stancarti mai di trasmettere”. Missione riuscita”.

Ma per leggerla tutta 👉 https://bookrider.it/aspettando-che-arrivi-sera-serenella-bettin-recensione/

Quando la malasanità fa più danni del covid

Da Libero di domenica 17 luglio

L’hanno lasciato lì in una sedia a rotelle. Ha aspettato ore prima di essere visitato. Quando ha iniziato a stare male è arrivato tardi anche il defibrillatore”. Parla così a Libero chi in questi giorni è accanto alla famiglia del piccolo Nicolò Vincenzi, sette anni e mezzo, di Frosinone, morto venerdì pomeriggio all’ ospedale Fabrizio Spaziani.E sono racconti agghiaccianti quelli che ne escono. Nicolò con la sua famiglia, padre, madre e una sorella più grande, di 17 anni, viveva a Mole Bisleti, una frazione del comune di Alatri.Giovedì scorso, in mattinata Nicolò ha la febbre. La famiglia per precauzione lo fa sottoporre a un tampone e il tampone risulta positivo al covid.Venerdì mattina stava bene. La febbre era scesa. Ma a un certo punto inizia a manifestare episodi di vomito. I genitori lo portano dalla pediatra che prescrive un farmaco al piccolo e per scrupolo intima loro di recarsi in ospedale.In pronto soccorso arriva in buone condizioni. Ma dopo un po’ inizia a stare male. Aveva caldo, ma era gelato. Labbra violacee e perdeva la forza e la concentrazione.“Quando è arrivato in ospedale – spiega a Libero Christian Alviani, il legale che segue la famiglia con il collega Alessandro Petricca – ha subito espresso la sua positività al covid ma nonostante questo gli hanno fatto un altro tampone e hanno voluto aspettare l’esito”. Così passa un altro quarto d’ora e il bambino nel frattempo peggiora. La mamma chiede di intervenire subito “ma – ci spiega sempre l’avvocato – hanno dovuto aspettare che l’operatore lo venisse a prendere. Il medico nel frattempo stava visitando un’altra persona. E da lì è partita una serie di carenze dal punto di vista dei dispositivi. Anche per somministrargli la soluzione fisiologica, gli infermieri hanno dovuto attendere gli anestesisti perché il bambino era troppo disidratato e non trovavano la vena. La pediatra aveva avviato la procedura per il trasferimento a Roma ma anche qui ci sono stati ritardi, perché non c’era un’ambulanza idonea disponibile subito. La situazione è andata peggiorando sempre più”.

Poco dopo il piccolo è morto. Ieri l’azienda sanitaria di Frosinone ha diffuso una nota spiegando che “era stato anche allertato il 118 per il trasferimento di competenza, avvenuto in altre occasioni anche con elisoccorso” e che il bambino è stato preso subito in carico e seguito immediatamente. Ma “il rapido peggioramento delle condizioni cliniche non ha consentito il trasferimento in quanto il paziente non era stabilizzato e quindi non era trasportabile”. Dall’azienda sanitaria hanno fatto sapere che il bambino era già giunto in gravi condizioni anche se allora non si capisce perché gli sia stata dato un codice verde. “Non è vero che il piccolo appena arrivato al pronto soccorso era in gravi condizioni”, ci spiega Alviani.“Il decesso – fa sapere l’Asl – è intervenuto in breve tempo, nonostante l’equipe medica intervenuta abbia effettuato le necessarie manovre di rianimazione”.

“A Frosinone è così – ci dice il nostro contatto che conosce la famiglia – se arrivi in pronto soccorso i tempi di attesa sono infiniti”. Intanto la procura ha aperto un’inchiesta e la Regione ha disposto un’indagine nell’ospedale. Sul corpo del bambino, che non aveva altre patologie, è stata disposta l’autopsia. Il paesino dove Nicolò viveva è piombato nello sconforto. Il parroco della comunità ieri, Don Luca Fanfarillo, ha pubblicato una storia su Facebook con l’immagine del piccolo. “Corri tra gli angeli con il tuo cappellino di paglia”. Nella foto si vede il bimbo in mezzo ad altri amici. Le braccia incrociate, gli occhi diligenti, con dentro magari un sacco di sogni. Anche lui come la piccola Ginevra, morta a fine gennaio scorso dopo essere stata trasportata con un volo dell’Aeronautica militare dall’ospedale di Catanzaro al Bambin Gesù di Roma. Anche per lei, due anni appena: il giro infinito degli ospedali, il tempo che passa e la mancanza di terapie intensive.

Serenella Bettin

Mancano stranieri. Ma gli italiani torneranno a raccogliere pomodori 🍅

La Ragione – Martedì 19 luglio 2022

Inutile che ci giriamo attorno. Ci sono tanti lavori che gli italiani non vogliono più fare. Mica da oggi. Da mo’. Si sono convinti che fare il cameriere a Londra sia più chic che farlo in Italia.
Nel Belpaese poi un cameriere è un poveraccio che tira a campare, per cui se gli va bene, gli danno otto euro l’ora per raccogliere su le bucce delle arance degli altri, inumidite degli sputacchi di gente rozza e trozzalona che si affoga nella bolgia di aperitivi gratuiti.


Un medico bravo invece, sempre italiano, è una persona altamente specializzata e preparata a cui diamo ben volentieri un calcio nel culo spedendolo all’estero, dove gli danno ben volentieri oltre a un dignitoso stipendio anche vitto e alloggio.
In quanto se sei bravo, la meritocrazia non è cosa nostra.


Il risultato è la migrazione degli italiani all’estero e l’immigrazione selvaggia nelle nostre coste.
I migranti invece, quelli bravi, quelli che vengono in Italia per lavorare non possono farlo.

Ecco perché 👇

Il mio pezzo su
Su La Ragione

Luigi è costretto a spazzare per terra perché non trova un italiano o un indiano che lo faccia al posto suo. Si sveglia ogni mattina alle cinque. Lavora 16 ore al giorno per cercare di mandare avanti i due ristoranti che ha a Jesolo nel litorale veneto. Quest’anno non trova personale. Non trova nessuno che gli possa dare il cambio e che voglia prendere la scopa in mano. Li chiamano gli introvabili. Un discorso trito e ritrito ma che merita di capirne i germi. Nella sola provincia di Venezia già a maggio scorso mancavano 25 mila lavoratori stagionali. Mancano cuochi camerieri chef. Mancano italiani indiani bengalesi tunisini egiziani marocchini. Se prima della pandemia le “osterie veneziane“ ricevevano quintalate di curriculum a settimana, ora non c’è uno straccio di nessuno che si presenti sulla porta e ti dica: “Mi faccia lavorare. Sono senza lavoro. Sto cercando. Ho bisogno”. “Merito” del reddito di cittadinanza distribuito con notevole clemenza, dei giovani che pretendono di più, del fondoschiena sul divano, del lavoro in nero, o del fatto che durante la pandemia uno dei mestieri più mazziati è stato proprio quello che si consuma all’interno dei locali. Quello di quando la gente si diverte e il tuo lavoro è far divertire gli altri. E del fatto che certi lavori poi gli italiani non li vogliono più fare. Commessi, camerieri, pastori, agricoltori? No grazie. Già a maggio scorso la Coldiretti aveva lanciato un appello per “velocizzare il rilascio dei nulla osta necessari per consentire agli extracomunitari di poter arrivare in Italia per lavorare nelle imprese agricole”. Monito seguito a ruota da Confindustria: “Ci diano più extracomunitari, ci servono”. Così Lega e Fratelli d’Italia hanno detto: “Ok, ma prima di far lavorare i migranti, perché non prendete quelli col reddito di cittadinanza?”. Anche perché far lavorare gli stranieri è impresa assai complessa. Un mese fa Guido Crosetto aveva twittato che “per un problema informatico al ministero dell’Interno è bloccato il decreto flussi e (denuncia di Coldiretti) si rischia di non poter raccogliere la frutta!”. Perché se si bloccano le assunzioni, il raccolto va a marcire. Un settore quello dell’agricoltura dove la manodopera estera è fondamentale. Ma ai profughi i primi due mesi non è consentito far niente. Per avere uno straccio di permesso di soggiorno che consenta di faticare i tempi sono infiniti. E intanto le mele diventano nere. “Ci piscia la luna” si dice al mio paese (Marche). “Noi abbiamo persone nelle comunità straniere che vorrebbero lavorare”, mi ha detto un giorno Ernesto Pancin, il direttore degli esercizi pubblici Venezia, “ma non possono perché il visto turistico non lo consente”. La soluzione è che gli italiani col culo al fresco tornino a raccogliere i pomodori. Pardon le mele.

Serenella Bettin

Quale fiducia possono avere i nostri giovani?

Ho letto la lettera che il presidente dei Rettori delle Università Italiane ha scritto al premier (ex boh) Mario Draghi per esortarlo a restare. Carina. Non c’è che dire. Encomiabile.
A tratti mi sono persino commossa. Anche perché avevamo un presidente del Consiglio decente e ci siamo giocati anche questo. Nel delirante spettacolo di un Paese che si sfracella hanno fatto cadere anche lui. È caduto così, come una carta da gioco in equilibrio su se stessa.
Peccato che la lettera del rettore sia piena di sogni ormai asfaltati e di progetti altamente irrealizzabili.
Provare per credere.
Basta andare a farsi un giro fuori dalle scuole – quando sono aperte – per capire che ai ragazzi del nostro governo di passabanchi freghi meno di zero. A loro, che resti su Draghi, frega quanto a me può interessare se la mia vicina lascia aperta la finestra.
Un giorno di inizio giugno mi sono imbattuta in alcuni studenti. Quarta liceo. E parlando del più e del meno alla mia domanda chi è il presidente del Consiglio, qualcuno mi ha risposto: “Quello che non ride mai, come si chiama?”. Un altro mi ha detto “Mattarella”. Un altro “Pier Silvio Berlusconi”. Un altro mi ha detto “non lo so, di sicuro quello che sta sul c…. a mio padre”.
Bisognerebbe starci in mezzo a questi ragazzi. Andare a farsi un giro nei corridoi e nei cortili.
I sogni di questi giovani, svogliati e intorpiditi, si sono infranti.
Alcuni non sanno manco dove mettere le mani.
Fuori dalle Università tra qualche scintilla ancora accesa, trovi sguardi assenti, desideri calpestati, speranze tradite, rigurgitate da una realtà che ti si sfracella addosso e giovani da 110 e lode totalmente impreparati ad affrontare il mondo del lavoro.
Se hai occasione poi di frequentare qualche giovane coppia puoi toccare con mano la dura realtà di chi ha studiato, si è laureato, e per una decina d’anni il suo status sociale sara quello di eterno sfigato.
Ma è evidente che ai vertici non sanno come si sta in basso. Giovani senza sogni. Nè desideri. Nè obblighi.
La lettera parla di “fiducia da restituire alle nuove generazioni”.
Ma non capisco di che fiducia si parli.
La prospettiva futura è totalmente svanita. Il futuro, a causa di politiche totalmente fallimentari, lo hanno preso, incelofanato, gettato come si getta la immondizia nel sacco della spazzatura insieme all’umido e lasciato in terrazza una con le blatte che gli corrono attorno.
“A loro – scrive il presidente – dobbiamo fornire modelli positivi. Garantire stabilità e una mano ferma”. “La formazione, la ricerca. Le giovani studentesse e i giovani studenti del nostro Paese hanno bisogno di esempi da seguire”. Ora io non lo so di quali esempi si parli. Se mi volto da una parte vedo rapper americani che parlano di coiti e prostitute. Se mi giro dall’altra vedo fantomatici influencer che durano il tempo di un secondo. E se faccio un giro tra i livelli più alti di politica vedo spettacoli indecorosi di funamboli circensi che urlano. Sbraitano. Strepitano. Si contorcono su se stessi.
Davvero non capisco quale futuro ci possa essere con dei modelli così colti.

sbetti

L’interrogatorio choc dei fratelli Bianchi

Libero 11 luglio 2022

Qui vi racconto la parte in cui i fratelli Bianchi dicono al pm che se loro avessero dato un calcio a Willy, Willy avrebbe il naso rotto e il labbro spaccato ecc ecc e il pm risponde: “Guardi che Willy è morto”.

Allucinante

“Non crede che Willy avrebbe avuto fratture del viso, il naso rotto, il labbro spaccato, la mandibola rotta se fosse stato vero che gli avessimo dato questi colpi?”.“Guardi che è morto Willy”. Raggelante.Ad ascoltare le deposizioni dei fratelli Bianchi si gela il sangue. Questa è la frase che Gabriele Bianchi rivolge al pubblico ministero che basito gli risponde: “Guardi che Willy è morto”.“Purtroppo lo so”, risponde Bianchi. Il giudice evidentemente imbarazzato taglia corto: “Va bè atteniamoci ai fatti del processo”.Sono le 3.20 del mattino del 6 settembre 2020 quando senza alcun motivo Willy Monteiro Duarte, un giovane capoverdiano di 21 anni, viene ucciso davanti a un locale di Colleferro, comune della città di Roma.Per la sua morte vengono accusati quattro ragazzi: Francesco Belleggia, Mario Pincarelli e i due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele. La sentenza di primo grado di lunedì scorso non ha concesso sconti ai due fratelli che passeranno il resto della loro vita in carcere, anche se la strada per il passaggio in giudicato è ancora lunga. Ci sono Appello e Cassazione e tutti i benefici annessi e connessi qualora vengano riconosciuti.Gli altri due componenti del branco, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, sono stati condannati rispettivamente a 23 anni e 21. Così ha stabilito la Corte d’Assise di Frosinone. L’accusa aveva chiesto l’ergastolo per i Bianchi appunto e 24 anni per gli altri due. Sabato sera su Rai 3, durante la trasmissione di “Un giorno in Pretura” sono andate in onda le deposizioni dei fratelli Bianchi e sono state ripercorse le fasi processuali riproponendo le testimonianze delle parti coinvolte. Deposizioni che sconvolgono l’Italia, con i fratelli che provano a fornire la loro versione dei fatti.“Da stupido – dice Marco – ero agitato, ho dato la la spinta a Willy e il calcio. Ma il calcio… l’ho preso qui sul fianco, non l’ho preso sul petto, io so le mie conseguenze se do un calcio frontale sul petto. Io non mi sarei mai permesso di dare un calcio frontale. La mia colpa, la mia responsabilità io l’ho sempre detta: ero agitato, non sapevo cosa stesse succedendo, quindi quando io sono arrivato pensavo che il mio amico stava litigando, perché se io sapevo una cosa del genere che il mio amico non stava neanche litigando io capivo la situazione, prendevo i miei amici e me ne andavo.

Siccome ho reagito male, mi sono agitato, quando ho visto questo ragazzo – Willy ndr – ma com’era questo ragazzo poteva essere un altro ragazzo, ho reagito male, gli ho dato la spinta”. “E il calcio dove glielo ha dato?”, chiede il pm. “Il calcio gliel’ho dato qui sul fianco”, risponde Bianchi che prima mostra il fianco destro e poi il sinistro. Una ricostruzione che diverge con quanto detto dai testimoni, che parlano proprio di un forte calcio sul petto di Willy.“Ma lei – dice Gabriele Bianchi al pm – lei non pensa che i colpi da me dati e da mio fratello per la nostra struttura fisica e la nostra esperienza… Non crede che Willy avrebbe avuto fratture del viso, il naso rotto, il labbro spaccato, la mandibola rotta se fosse stato vero che gli avessimo dato questi colpi?”. All’aggressione, come viene ricostruito, quella sera hanno assistito molte persone ma per la lestezza dei movimenti e dei colpi, per la troppa confusione, per il buio, dai testimoni sono state date molte versioni tra loro discordanti. La pubblica accusa ha ricostruito i 50 secondi, lasso di tempo in cui Willy venne brutalmente picchiato, dall’arrivo in auto dei fratelli Bianchi in mezzo alla folla, al calcio violentissimo che gli viene inferto, fino all’accanimento dei quattro imputati sul corpo a terra di Willy.I fratelli Bianchi sono esperti di arti marziali tanto che durante il processo il pm chiede come mai Marco Bianchi da un quotidiano locale venisse definito “il maledetto”. “Lei sa perché?”, chiede il publico ministero. “No…così per caso ma non mi presentavo mai agli incontri dicendo quel nome”. “Lei sa per quale motivo le hanno dato questo nome?”.“Ma è un nome così… dicendo il maledetto si associa a una persona violenta”. Gli imputati sono stati condannati anche a pagare una provvisionale di 200 mila euro ciascuno ai genitori di Willy e di 150 mila euro alla sorella. Willy Duarte aveva 21 anni. Faceva l’aiuto cuoco, i soldi che prendeva li metteva in famiglia, sognava. Sognava un giorno di fare lo chef.

Serenella Bettin

Genitori vestiti peggio dei figli. Nell’era dell’inconcepibile accadono cose assurde

Il mio pezzo su La Ragione

Nell’era dell’inconcepibile, quella dove accadono cose assurde che diventano normali, succede anche che i genitori si svestano più dei figli. Nella ridda quotidiana di improvvise cadute di stile e assenze di decoro, capita di imbattersi in una bolgia di corpi seminudi che desta un certo imbarazzo. Via il codice etico. Via quello comportamentale. Via il rispetto. Via i valori. Ma soprattutto via i vestiti. Pericolose orge di cambiamento che sfociano nel ridicolo. Al punto che i presidi sono costretti a dover emanare circolari per ricordare che a scuola, nel caso in cui qualcuno l’avesse dimenticato, si va vestiti.

A Treviso la dirigente del liceo Canova ha invitato: “gli studenti e le studentesse a indossare un abbigliamento adeguato e consono all’ambiente scolastico”. Qualcuno la chiama la guerra agli shorts. Ma non c’è nessuna guerra. Si tratta di riportare il buon senso nei binari. A Lecce la preside dello scientifico Banzi, Antonella Manca, ha vietato abiti succinti di qualsiasi foggia e scollature, così come top, minigonne, anche i bermuda per i ragazzi. Rammentando a studenti e genitori che: insomma! “la scuola  è un ambiente educativo, un luogo istituzionale che merita rispetto”. Ok è estate ma in aula non si viene vestiti come si va al mare.  Come erano decorosi i tempi in cui ci si alzava in piedi quando entrava il professore e se avevi la canottiera manco ti facevano entrare. Nasciamo nudi. 

Ma non viviamo soli. 

Oggi vedi queste ragazzine svestite come signorine, che indossano top sotto il seno, scollature vertiginose da far ubriacare maschi in via di sviluppo, minigonne inguinali o jeans strappati dove le chiappe appaiono in tutto il suo splendore (quando c’è).  Soprattutto se anche i maschi possono indossare la gonna. A Milano Martino Mora, professore del liceo Bottoni, si era rifiutato di far lezione ai maschi travestiti per la giornata contro la violenza sulla donna. Conclusione la preside gli ha tolto una classe, passando il messaggio che i giovani possono andare a scuola con le chiappe al vento e chi tenta di riportare il decoro è un perfetto antenato granitico rozzo convinto delle sue posizioni indossolubili. 

Ma i peggiori sono alcuni genitori. Madri che parcheggiano i suv dei mariti davanti le scuole, scendono dalle auto con tacchi vertiginosi e orribili anfibi da carpentiere, minigonne ascellari, top al capezzolo e capelli rosa fucsia verdi. Una l’altro giorno indossava un paio di scarpe spaiato. Una rossa. Una verde. Si usa così adesso. Padri che fanno cerette. Sopracciglia. Indossano camicie sottovuoto e pantaloni sempre più stretti. Giunti a questo punto appare evidente come manchi il decoro. L’amore per se stessi.  Siamo veramente sicuri di volere vivere in un Paese affollato da donne seminude e maschi con il push up nei glutei? Io no. 

Serenella Bettin

Sono esausta. Ho il cuore in fiamme. Siamo in Italia. Sembra l’Africa

Andrea Mirabile con la mamma

Sono sfibrata. Ho il cuore in fiamme.
Oggi su Libero trovate il mio servizio sul bambino di sette anni e mezzo, morto a Frosinone perché “non c’erano ambulanze idonee e non si sono capiti manco con i defibrillatori”. E intanto il tempo è passato. E doveva fare il tampone.
Così mi ha detto chi è vicino alla famiglia.
Trovate tutto sul quotidiano. L’azienda sanitaria dice che era troppo grave per essere trasportato e che sono intervenuti tempestivamente.
Ci sono stata appresso a questa storia tutto il pomeriggio e più scrivevo più la rabbia aumentava. A ogni parola che mi veniva detta era una sensazione di schifo che mi avvolgeva.
Sono tre giorni che scrivo di bambini morti.
Non riesco nemmeno a condividere i pezzi perché mi sembra di mancare di rispetto alle famiglie. E non saprei cosa dire.
Il primo. Domenico Bandieramonte. Aveva solo 4 anni e mezzo. Era di Lampedusa. Il 29 giugno scorso si era sentito male. Aveva vomito. Un normale virus intestinale pareva. La madre Ambra Cucina qualche giorno dopo aveva lanciato un appello disperato in Facebook. Che a vederla era uno strazio. “Ho bisogno di qualcuno che senta la mia voce, ho bisogno di dottori, di specialisti. Da sola non ce la faccio”. In ospedale i genitori avevano atteso 4 ore. E pare che trasportato a Catania abbia contratto un batterio. Mercoledì scorso Domenico è morto.
Andrea Mirabile poi. Sei anni. Di Palermo. Morto mentre si trovava in vacanza con i propri genitori. All’inizio si credeva che la causa della morte fosse una intossicazione alimentare ma venerdì le carte in tavola sono cambiate e si sospetta una intossicazione ambientale o da contatto. La famiglia era volata a Sharm el-Sheik in un resort il 26 giugno. Ma il primo luglio la coppia, insieme al figlioletto, dopo aver cenato al ristorante del resort con menù alla carta, ha iniziato a stare male. Vomito. Nausea.
Andrea è stato portato in quella che in quei Paesi viene definita clinica. Che non è altro che un ricovero attrezzi dove dentro ci finiscono flebo cassette del pronto soccorso. Dove i medici e gli infermieri vanno e vengono.
Dopo tre giorni il piccolo Andrea è morto. La madre Rosalia Manosperti aveva lanciato un appello drammatico. “Sono Rosalia Manosperti – aveva detto – è da sabato che sono ricoverata insieme a mio marito nell’ospedale di Sharm el-Sheikh, dove abbiamo perso anche nostro figlio di sei anni. Io chiedo a tutte le istituzioni competenti di attivarsi affinché ci riportino in Italia prima possibile con un volo di linea speciale”.
Ieri a Palermo è stato lutto cittadino deciso dal sindaco Roberto Lagalla.
E ora lui. Nicolò. Quello che mi hanno raccontato gli avvocati è agghiacciante.
Come quella bimba, Ginevra Soressa di cui avevo scritto a gennaio. Ancora conservo quel ricordo di quella foto di quella bimba bellissima e arzilla.
Due anni. Trasferita da Crotone a Catanzaro e da Catanzaro a Roma, fino a che è morta.
Morta perché mancavano le terapie intensive. Morta perché ormai era troppo tardi.
Viaggi chilometrici. Perdite di tempo. Rispetto rigoroso maniacale dei protocolli. Siamo in Italia. Nel 2022.
Sembra l’Africa.

sbetti

L’amore oltre la morte

Mi sono sempre chiesta se esista l’amore vero. Quello che va oltre il cuore. Quello in grado di spalancare tutte le porte. Quello più forte. Più forte della morte.
Mi ha colpito la tragedia della Marmolada. Mi ha colpito come si bastona col ferro un bambino mandandolo a letto senza cena.
Mi ha ricordato la strage del Ponte Morandi.
Le più grande sciagure avvengono quando ti stai divertendo e pensi alla sera a quando sarai stanco e riposerai in divano, oppure davanti a una birra con gli amici, o una pizza, o quando ti stenderai sul letto pensando alla giornata e ti lasci avvolgere dall’abbraccio della persona amata.
Uno non pensa mai di partire e non ritornare.
La vita che soffia via. Che ti scivola via tra le mani. Quella furia della natura che non puoi fermare perché siamo esseri tremendamente mortali.
Com’è vigliacca la vita.
Quando ho iniziato a seguire la tragedia della Marmolada, sono andata a guardarmi i profili Facebook delle persone. Si fa così oggi. Una delle
prime cose che fanno i cronisti. Cercano il profilo. Guardano se c’è qualche foto. Se era sposato. Che lavoro faceva. Se c’è l’anno. A quando risale l’ultimo post.
È il mondo che cambia. E noi vigliacchi eternamente dietro a questa vita a tempo determinato.
Allora tra tutti i profili, di gente appassionata della montagna, esperta, preparata, che fino a poche settimane fa postava foto da luoghi fantastici posti improbabili e indescrivibili, ce n’è uno che mi ha colpito. E che racconta la vita di una donna. E l’amore tra due persone. Ed è quello di Alessandra De Camilli di Schio.
Il marito Tommaso Carollo è una delle undici vittime della strage della Marmolada. Lei si è salvata. Da quando è successo il fatto Alessandra non fa altro che condividere in modo pacato quasi timido quasi come a urlarlo quell’amore che travalica le montagne e spacca le pietre e oltrepassa le colline e solca i mari e arriva in cielo e spalanca tutte le porte ed è più forte più forte della morte, ecco in modo pacato quasi timido condivide le foto di loro due insieme. “Ti amo Tommaso
Sempre e per sempre”, ha scritto il 5 luglio con l’immagine di loro due che si baciano.
“Ovunque tu sia, io so amare fino a lì. #persempre. Ha scritto qualche giorno dopo.
“Passano i giorni ed è sempre peggio. Manchi tantissimo”, ha scritto un giorno fa.
Lei è viva grazie a lui che l’ha protetta. Le ha fatto da scudo. “L’ultimo ricordo che ho di te è quando mi hai detto “Via! Via! Via! Mi hai buttato per terra e mi hai fatto da scudo. Tutto è successo in un attimo: c’erano pietre, pezzi di ghiaccio, neve che rotolavano giù. Ho perso i sensi. Quando mi sono risvegliata c’erano i soccorritori e vicino a me solo il tuo caschetto. Tu non c’eri più”.
Io non lo so se questa storia risvegli le coscienze di molti, se nella nostra inutile frenesia quotidiana ci fermiamo a pensare alla vita che non è mai come vorremmo. E a quegli amori che per quanti mortali restano eterni.
Sono sicura che Tommaso da lì ti guiderà sempre e se ci sarà bisogno ti butterà ancora a terra. Scaraventandoti via.
Fiero di quello che ora stai facendo.

#sbetti

“Non mi importa di essere grassa”

Servizio andato in onda su Controcorrente Prima Serata, 15 giugno 2022

Un giorno la redazione mi chiama e mi dice: “Recupera qualche donna che partecipi a sti concorsi di Miss Curvyssima, vai da lei, fatti raccontare la sua storia e intervistala”.

E così ho fatto. Mi sono messa alla ricerca. E ne ho trovata una giusta. Lei si chiama Luigina Favale. È salentina. Ma vive a Cesena. Dove fa la maestra di scuola elementare. Qui si è dovuta trasferire per dar seguito al suo lavoro, che è la cosa che ama fare di più in assoluto. Oltre a dipingere, disegnare, leggere, scrivere, cucinare. Entrare dentro casa sua è come entrare in un mondo bellissimo, colorato, dove sai come entri e non sai come esci. Ti viene voglia di vestirti di giallo, verde, ocra, arancione, rosa, a seconda dei colori delle stagioni.

“Se la mattina mi sveglio e penso al mare mi vesto d’azzurro – mi ha detto – se mi sveglio e penso al verde mi vesto di verde”.

Lei, 44 anni, quando di anni ne aveva 18 aveva quasi una 40, 42, poi a causa di alcune intolleranze alimentari ha iniziato a prendere peso. Ma per lei non è un problema. Negli occhi ha la luce di chi se ne frega. Nelle sue parole, nella musica della sua cadenza, così calda, focosa, del Sud, ci sta racchiusa tutta la sua essenza.

Dal backstage 👇🎥