“Qui dentro non siete autorizzati a entrare”

“Qua dentro non siete autorizzati a entrare”.
Perché? “Perché no”.
Il pachistano che mi sta davanti mi guarda con gli occhi freddi. Austeri. Incattiviti. Mi prende e mi accompagna fuori perché dove è lui io non sono autorizzata a entrare.
In Veneto hanno messo i migranti dentro le scuole. Ci arrivo che è quasi mezzogiorno. Il sole moscio si riflette su quelle finestre dove da dentro si vedono le loro teste. Sono teste di pachistani, di bengalesi, di nigeriani. Di immigrati venuti qui con la chimera che se vieni in Italia tutto si risolva. Mi avvicino allo stabile della scuola e la prima volta non riesco a entrare. Incontro un uomo fuori. È il titolare di un’associazione che gestisce la palestra. Mi dice che per fortuna i migranti non sono stati messi dentro la sua di palestra. Infatti, li hanno messi a scuola. Vedo le teste di questi migranti traditi dalla speranza di un futuro migliore ciondolare al di là dei vetri. Qualcuno sta cercando invano di imparare qualche monosillaba di italiano. Non riuscendo a entrare il primo giorno. Ci torno il secondo. E zac. Riesco a intrufolarmi dentro. I migranti sono qui asserragliati dentro le strutture di questa scuola che il 13 settembre dovrà riaprire le tende e suonare la campanella di un nuovo anno scolastico che sta per iniziare. È settembre vivaddio. Come inizi l’anno se accanto ci metti i profughi. Dentro una rete scoscesa, quella che i ragazzi usavano per giocare a pallavolo, è stata completamente spostata. Ci hanno messo finti letti, scomode brandine, vestiti su vestiti per dare loro una accoglienza. Poi un tipo della cooperativa che ci lavora si accorge. Mi prende e mi porta fuori. Mi dice che a lui non hanno detto o meglio “comunicato” quando i migranti da lì se ne dovranno andare. Incontro un bidello. È parecchio scocciato. Non sa niente nemmeno questo. Quando ci torno il terzo giorno davanti l’ingresso ci trovo le insegnanti. Sono tutte donne. Stanno discutendo. Bramando per il nuovo anno. Una c’ha una giacca a fiori viola verdi e azzurri. E tiene tra le mani un’agendona verdona che ricorda tanto i tempi in cui andavo a scuola. Come erano belli. Poi esce la preside. Mi dice che alla fine ha dovuto dire sì. Sì fino al 9 settembre. E poi? Anche nella seconda scuola non mi fanno entrare. Qui i migranti li hanno messi giusto in fondo al parco dell’istituto cosicché nessuno rompesse. Suono. Mi risponde il custode. Gli chiedo se per favore potesse uscire dato che a parlare attraverso un tubo ho qualche problema di comprendonio. Esce, ma la solfa è sempre quella. Arrivo nella terza. Qui sono in una palestra usata dai ragazzi. E dagli anziani per farci ginnastica. Ma con i migranti dentro: addio postura dolce. La palestra sta accanto all’asilo nido. Qui stanno raccogliendo le firme per mandarli via. Sgattaiolo dentro. Dentro ci sono migranti mesti, tristi, con le mani tra la testa piegati ricurvi sul letto. Trovo anche uno che si sta medicando una ferita. Chissà come se l’è fatta. Hanno tutti il telefono. Poi un pachistano mi vede, mi dice che lavora qua dentro, mi prende e mi sbatte fuori. “Adesso ci sbatti fuori”, gli chiedo. Non risponde.

sbetti

I migranti dentro le scuole. Follia

In Veneto hanno messo i migranti dentro le scuole. Mi chiedo come un comune e una prefettura arrivino a poter pensare anche solo lontanamente di partorire il pensiero di mettere dei migranti dentro le scuole che qui riprendono, tra l’altro, tra una settimana.
Il giorno 13 settembre.
Io ci sono entrata dentro quelle scuole prima che mi sbattessero fuori perché lì dentro è proibito entrare.
L’Italia, infatti, prendi nota, è l’unico Paese dove tutti possono entrare e tutti possono uscire assolutamente indisturbati, ma se una persona per bene che svolge una professione intende documentare cosa accade all’interno di una scuola dove tra pochi giorni dovranno tornare i vostri figli, vi bloccano, perché no. Non potete.
Non potete entrare. È necessaria l’autorizzazione. È proibito.
Perfino nelle ex caserme adibite a bed&breakfast per i migranti – nel mio servizio vi racconto anche queste, nessun sindaco è riuscito a entrare – E nel servizio che ho fatto per #FuoridalCoro vi mostro cosa ho trovato.
Il sindaco di Padova e il prefetto della città patavina l’altro giorno in grande pompa magna davanti ai cronisti locali impegnati e riportare pedissequamente le loro parole, hanno assicurato che i migranti se ne andranno il 7 settembre, cioè ieri, per esseri messi chissà dove.
Il portavoce del sindaco con cui ho parlato il giorno 29 agosto mi aveva detto, proprio il 29 agosto, che i migranti se ne sarebbero andati dalle scuole per la fine di agosto e inizi di settembre.
Ora, la fine di agosto è passata da un pezzo. E gli inizi di settembre… ormai tra poco siamo a metà. Mi chiedo come come in un Paese normale, scusate non me ne vogliano loro signori se uso questo aggettivo, ecco mi chiedo come in un Paese normale si possa arrivare a mettere dei migranti dentro le scuole che poi saranno usati dai ragazzi.
Alla mia domanda: “Ma questi usano le strutture che saranno usate dai ragazzi e dai bambini”, mi sono sentita rispondere: “E quindi, qual è il problema”. Così l’altro giorno sono tornata davanti queste scuole e allegramente e simultaneamente ho visto le docenti e la preside uscire dalla prima riunione.
Subito dopo i migranti.
Che bellezza. È l’Italia.
Welcome.

sbetti

Il mio servizio andato in onda il 6 settembre scorso per Fuori dal Coro , Mediaset

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/fuoridalcoro/immigrati-boom-di-arrivi-i-clandestini-finiscono-nelle-scuole_F312803501001C12

“Chi ha ucciso mio figlio non ha fatto un giorno di carcere”

Quando i genitori di Davide mi ricevono a casa è una mattina di settembre. Lo senti in questa casa che manca qualcosa, qualcuno. Il ricordo di Davide è lì presente, fisso, costante, è impregnato ovunque. Nelle pareti, nell’aria, negli occhi dolci della madre e in quelli mesti del padre.
Aveva 17 anni Davide. Tempo un mese e ne avrebbe compiuti 18.
Una vita piena di sogni. La fidanzatina Lucrezia. Il fratello più piccolo. L’essere così legato a lui come vivessero in simbiosi. I genitori. La motocross. La scuola. Le sue passioni. Il fratello gli diceva sempre che avrebbe voluto mettere su un’officina. “Io sto dietro con la tuta – gli diceva – tu studia, stai davanti, fai meccatronica”.
Accanto al tavolo del salone c’è una foto che parla di loro: ritrae Davide con il fratello.
“È un inferno quotidiano”, mi dice la madre piangendo. “Davide non c’è più”.
Il dolore è impossibile da cancellare. Soprattutto se sai che chi ha fatto del male a tuo figlio è ancora libero. E lo sarà sempre.
Al braccio destro la madre ha tatuato il nome del figlio. Al collo indossa la catenina con la sua iniziale.
Davide Pavan è morto la sera dell’8 maggio 2022. Aveva passato la serata dalla fidanzatina. Stava rincasando con lo scooter quando a Paese, comune del trevigiano, è stato centrato in pieno da un’ auto. Davide è praticamente morto sul colpo. A causare l’incidente un poliziotto risultato poi positivo al test dell’alcol e che viaggiava a velocità sostenuta. L’agente ha patteggiato una pena di 3 anni, 6 mesi e 10 giorni. Ma praticamente non ha fatto un giorno di galera.
Anzi ai genitori del ragazzo è arrivata una fattura di 183 euro da parte della ditta incaricata dal comune di Paese per pulire la strada rimasta sporca del sangue del figlio e per levare i rottami dell’incidente.
Quando il padre mi parlava si vedeva che aveva tanto da dire. Avrebbe voluto dire di più. Ma qualcosa lo smorzava. Non ce la faceva. Era come se si fosse rassegnato. I soldi che hanno avuto di risarcimento dice sono soldi sporchi. Si sentono anche in colpa a spenderli. “La casa poi”, mi dice. Questa casa è troppo grande. Troppo grande senza Davide. “Brucerei tutto”.
A un certo punto suonano alla porta. La madre si alza. “Scusi devo rispondere”.
“Signora non si preoccupi”.
“È uno dei soccorritori di mio figlio…”
La mia intervista su La Verità.

👉 https://www.laverita.info/pavan-vedelago-ingiustizia-2665710414.html

sbetti

La Verità – 21 settembre 2023

La radiografia al collo dell’utero prescritta a un uomo

Esattamente cosa vuole dire “necessaria radiografia al collo dell’utero” in un paziente uomo? 

E cosa vuol dire: “Paziente esce dall’auto, un incidente di 4 ore, iniziato due ore fa con dolore al collo e nausea?”. E “studio radiografico della mamma cosciente”? 

E ancora. Cosa sta a significare: “impressionante moderata disidratazione dovuta alla mancanza di appetito”. O “le membrane mucose secche e pallide sono annotate, non ittero”.

E cos’è esattamente un “fumatore gerarchico”?

A leggerli questi sberleffi della lingua italiana verrebbe da pensare che siamo matti o che qualcuno è uscito di senno, ma in realtà sono i referti giunti in mano alla Verità e provenienti dal pronto soccorso dell’ospedale di Latisana in Friuli Venezia Giulia.

Scivoloni linguistici, ruzzoloni verbali, svarioni idiomatici, che raccontano e narrano situazioni così talmente assurde e inverosimili, se non fosse per il fatto che gli autori di simili prodezze sono i medici esterni di origine sudamericana di cui il pronto soccorso di Latisana, quest’estate, si è avvalso per far fronte alla carenza di personale negli ospedali.

I medici argentini sono stati messi a disposizione all’azienda sanitaria universitaria Friuli Centrale da una società privata. Il punto è che se già in situazioni di emergenza è facile sbagliare, figuriamoci con questi referti di cui non si capisce assolutamente nulla.

E il pronto soccorso è una realtà in emergenza assoluta.

Non sono ammessi distrazioni, ritardi, sbagli, errori, tentennamenti. Qui il tempo corre alla velocità della luce e bisogna prenderlo in tempo prima che prenda gli esseri umani.

Qui si sta in fila come i dannati, il traffico di barelle è inverosimile. Arrivano come arrivano le valigie ai nastri trasportatori. Gli infermieri le prendono, le spostano, le accostano, fanno retromarcia, vanno avanti, indietro. Ci sono anche quelli che sollevano i malati e – uno – due – tre – al mio quattro – giù sulla barella. Se uno si mette anche a perdere tempo per interpretare quello che un medico sudamericano, con tutto il rispetto, voglia dire, campa cavallo. Tanto che ora l’ospedale ha deciso di prendere un interprete. Ossia, la sanità pubblica in Italia è così talmente avanzata, che anziché far lavorare i medici italiani, importiamo quelli di altri Paesi e poi se non ci capiamo, prendiamo un traduttore che ci fa da tramite. Che bellezza.

Così abbiamo contatto il presidente regionale Fvg Aaroi – Emac, l’associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani – Emergenza Area Critica, e abbiamo addirittura scoperto che tutto questo è dovuto sì alla mancanza di personale, ma anche al covid di cui ancora portiamo sul groppone gli strascichi. 

“La normativa italiana – ci spiega Alberto Peratoner– non prevede che questi possano lavorare in Italia, però con l’emergenza covid, con una deroga, è stata data la possibilità ai medici extracomunitari di venire qui. Ma per lavorare in Italia uno deve avere una parificazione con la laurea italiana, così come noi per fare i medici negli Stati Uniti dobbiamo fare un esame. Ma allora perché non investire sui nostri specializzandi?”. Già. Perché? “Quello che c’è dietro a queste cooperative private per noi rimane un mistero. Noi vediamo solo il risultato finale, che è questo, ma cosa spinga una cooperativa a scegliere un medico latino americano anziché uno italiano non lo sappiamo”. Le aziende sanitarie comprano questi pacchetti dalle cooperative e come si dice “ndò cogli cogli”. “Infatti – continua Peratoner – poi a noi arrivano questi casi qua. L’azienda ha dovuto ingaggiare dei traduttori per permettere ai pazienti di capire la lingua. Il problema è che queste coop senza criterio lanciano questi medici nel sistema pubblico. Farebbe sorridere, se non si pensa che dietro ci siano delle persone”.

Serenella Bettin

La Verità 13 settembre 2023

Quell’11 settembre

C’erano i libri di matematica sul tavolo quel pomeriggio.
Stavo studiando per recuperare il debito.
C’erano i libri di matematica sul tavolo quel pomeriggio, quando i due aerei si infilarono come si infilano le sciabole dentro il fodero, in quelle due Torri Gemelle simbolo di una città che non dorme mai.
Io stavo studiando le equazioni. Matematica era l’unico libro che potevo aprire al contrario e manco me ne accorgevo.
Non me n’era mai importato un tubo, eppure i professori, quelli che dovrebbero prepararti a vivere su questa terra fatta di squali e di coglioni, si ostinavano a darmi il debito ogni anno. Solo l’anno della maturità, non so per quale grazia divina, avevo il 7. Ma la mia media è sempre stata eccellente e quindi il debito lo consideravo un punto nero nel naso di cui me ne strafottevo.
Stavo studiando. La tv era accesa ma muta. Una proverbiale consuetudine che adottavo quando mettevo la testa sopra i libri e mi davano noia. Ancora ricordo quel tavolo a sfondo verde. Le serrande erano abbassate per non far entrare troppa luce.
Mio padre era in salone. E a un certo punto spalanca la porta. “Gira, gira, che sta succedendo?”. Cambiai canale, anche se nel giro di un baleno non ci fu bisogno di girare, le reti italiane erano lì unificate dall’orrore.
Due aerei si erano conficcati dentro le Torri della Grande Mela.
La gente era lì col naso all’insù che li guardava, li seguiva, erano troppo bassi per volare sopra New York. Il primo aereo si era già conficcato, come l’atleta infila la spada dentro il fodero, dentro la prima torre. Tutt’intorno erano solo fumo urla detriti sangue rumore angoscia. Poi un altro aereo, in diretta tv, prende e si imbuca dentro la seconda di Torre, la sorella, quella gemella.
Dalle Torri si vedevano gli uomini venir giù come biglie. La disperazione. Farla finita.
Poi. Dopo un po’ la prima Torre si sbriciola. Viene giù come un castello di pastafrolla sbriciolandosi al suolo. Dopo un po’ anche la sorella crolla.
E tutto intorno erano caos, macerie, uomini, donne, anziani, bambini. Tutto intorno era la polvere. Da lì l’orologio si è fermato. L’Occidente entra nel mirino del terrorismo islamico. Da lì è cominciato tutto. Anche la nostra sottomissione.

sbetti

La bomba immigrazione sta per riesplodere

Ho ricominciato a occuparmi di un tema a me molto caro. L’immigrazione. Non quella che vi fanno vedere. Ma quella nascosta.

Mi ha riaperto i cassetti della mente che sapevo che prima o poi si sarebbero riaperti, lo sapevo. Me lo sentivo. Sapevo che quel chiavistello che non ho mai chiuso sarebbe saltato via come salta via il tappo quando la pressione non regge.

Sapevo che quei cassettini si sarebbero riaperti. Solo che l’altro giorno quando mi sono trovata a riaprirli, non avevo più i pomelli. Il tempo li aveva logorati. Il legno era stato ciucciato e mangiato dai tarli.

I pomelli erano saltati. E ho dovuto riprenderli in mano. RiprenderMi in mano. Ho dovuto infilare le unghie dentro le fessure e tirare e tirare tirare tirare. Ho dovuto scavare ancora più a lungo rispetto a quello che ci viene detto, proferito, pontificato. Ho dovuto riaprire i vicoli della mente, quelli che erano rimasti al buio. In penombra.

Quelli che fai un passo e cammini e poi me fai un altro e ti sorprende il tramonto. Ho dovuto farlo per arrivare a scoprire che è pure peggio di prima.

Perché checché ne dicano quelli che in passato mi hanno dato della razzista – che sono coloro i quali i campi di accoglienza non li hanno mai visti manco in cartolina – io a differenza loro ho sempre cercato di denunciare il business, l’accoglienza che diventa una macchina per macinare e fabbricare soldi, ho sempre denunciato l’ipocrisia, l’invasione, il falso perbenismo, la bieca carità. Ho sempre denunciato come stessero queste persone.

E sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento. Di riaprire quelle ferite. Di continuare a farle sanguinare. Di continuare a incidere la lama perché facciano ancora più male. Ancora più dolore. Perché possano arrivare in faccia alla gente. E scuoterla.

Per trattare certe storie bisogna andare. Scavare. Andare oltre. Immergersi. Oltrepassare. Non fermarsi davanti a un cancello chiuso. A un telefono sbattuto. A una porta chiusa in faccia. Ti ci devi immergere dentro, devi non riuscire a comprendere più chi sia tu con la consapevolezza di essere te stessa. @L’accoglienza non è quella che vi viene data in pasto.

E l’immigrazione continua a non essere gestita. Ha solo smesso di fare rumore. I migranti hanno cessato di protestare. Ma la miccia sotto sta per esplodere.

#sbetti

Alla famiglia del ragazzo morto il conto da pagare. Lo schifo totale

Più passa il tempo e più mi convinco che l’umanità fa schifo.
Si esprime in tutto il suo ribrezzo e raccapriccio che assume contorni tali da far venire il voltastomaco.
La sera dell’8 maggio 2022, a Paese, un comune del trevigiano, un ragazzo di 17 anni, Davide Pavan, viene travolto con il suo scooter da una Golf.
L’auto era guidata da un poliziotto di 31 anni, il cui tasso alcolico, in quel frangente, alla prima rilevazione era di 1.50. Alla seconda di 1.26.
Per Davide non ci fu nulla da fare. È morto praticamente sul colpo.
Il poliziotto ha patteggiato tre anni e mezzo ma non farà un giorno di carcere, dato che anche questo processo segue le narrazioni raccapriccianti che colorano i nostri tribunali, dove se ammazzi qualcuno sei libero ma se rubi un ovetto kinder ti sbattono dentro.
E non farà un giorno di carcere perché trattasi di pena inferiore ai quattro anni. E quindi ci sarà, nei vicoli nascosti dei manuali giuridici e nei meandri obsoleti e affabulatori dei codici, sicuramente qualche pena alternativa.
Ma non è questo il punto.
Ora ai genitori di Davide, morto in quella tragica sera dove in un istante cambia tutto, è arrivato il conto da pagare. Ossia?
Per ripulire la scena dell’incidente, la ditta che si occupa di far le pulizie per conto del comune di Paese, ha fatto arrivare la fattura alla famiglia del ragazzo. Sono 183 euro per ripulire il sangue del figlio e l’olio sversato e i rottami dello scooter.
Costi di “bonifica dell’area con smaltimento dei rifiuti e assorbente per sversamento liquidi”, riporta il documento.
Rifiuti? Il corpo del figlio trattato come un rifiuto?
Una cosa di questo tipo era accaduta anche al figlio dei coniugi Pelliciardi, barbaramente massacrati a Gorgo al Monticano (Treviso) la notte del 20 agosto 2007.
Al figlio Daniele, che intervistai a gennaio scorso, oltre alle spese per la sentenza che avrebbe dovuto pagare il killer, chiesero 400 euro per il trasposto delle salme dalla casa all’obitorio.
L’Ulss te le mette in conto.
Ora scusate ma a me queste cose fanno sempre più schifo. Chiedere dei soldi a delle famiglie distrutte dal dolore quando nei comuni spendono soldi a nastro per le sagre delle salsicce è una cosa di una vergogna assoluta. Chi ha permesso l’invio di quella fattura, dovrebbe semplicemente vergognarsi.
In un mondo che pensa ormai solo ai propri interessi e se ne strafotte delle persone.

sbetti

Ma sei pro o contro?

Mi si avvicina un ragazzo. C’avrà all’incirca trent’anni. Che dico un ragazzo. È un uomo. C’ha gli occhi incavati che fuoriescono dal bulbo oculare. Il suo iride è a metà tra il verde e il marrone. Dipende. Se fa la faccia sorpresa gli occhi si irradiano di verde. Altrimenti si irraggiano di marrone. Spruzzano una tonalità tendente al marroncino. Il suo corpo sembra quello di un’ antilope spelacchiata che non mangia da giorni. Magro. Affossato. Incavato. Indentro. Intarsiato come si intarsia un santo nel legno. Me lo immagino velocissimo nella corsa. Ottimo saltatore. Che vive in branchi, in mezzo ad altre persone. Sorseggia una birra. Alle dita indossa degli anelli. Mi guarda con due occhi verdi spalancati e mi chiede cosa stia facendo. Gli dico che sono una giornalista. E che sto facendo un servizio sull’immigrazione. Mi risponde perché. Come mai. Qual è il senso. Il senso. Quello che ho sempre cercato in tutto quello che facevo. L’andare oltre. Il non fermarsi mai, dinanzi a nulla. Far sì che il nostro Servizio appunto Servisse agli altri.
Mi chiede se sono pro o contro i migranti. Gli rispondo che non c’entra pro o contro. C’entra che non è questo il modo di gestirli i migranti. I poveracci. I disgraziati che sbarcano sulle nostre coste pagando fior di quattrini. Mi dice perché, come mai, in fondo c’è bisogno di queste persone.
Ma perché non si possono ammassare duecento trecento persone e stiparle come polli in batteria dentro un centro perché questa non è accoglienza, è chiudere dentro un ghetto persone semplicemente per il fatto che sono straniere. Gli dico che chi non ha diritto deve tornarsene da dove è venuto e che le cooperative hanno sempre lucrato sulle spalle di questi poveracci giunti da noi credendo di trovare l’Eldorado.
Mi dice: sì ma il tuo servizio deve essere pro o contro.
Ma no ancora. Non capisci. Inutile parlare allora. Non c’è un pro o contro, serve raccontare la realtà delle cose, dar voce alle persone, è per quello sto in mezzo alla gente.
Gli dico anche che lui in un centro del genere non ci starebbe mezzo secondo dato che consuma liberamente al bar la sua birra. Mi dice che non è vero, che lui in centri come quello c’è stato. Ah sì? “Sì. Io sono di Trieste. Ho vissuto un periodo per strada. Nei dormitori, in quei posti che tu denunci”.
Lo guardo. Allora sai di cosa sto parlando. Poi d’improvviso due urla. Sta scoppiando una rissa.
Un ragazzo che sfida un vecchietto…

sbetti

“Lei lo sa, la chiavo senza baciarla”

“Lei lo sa, la chiavo senza baciarla”. “Se mi guardo allo specchio, mi viene duro. Lei mi salta sul ca…o come un canguro”.
A Castelfranco Veneto in provincia di Treviso hanno annullato un concerto di un rapper milanese. (Scusate se riporto i versetti delle ammirevoli canzoni).
Tale Nicholas Alfieri in arte Niky Savage si sarebbe dovuto esibire alla festa studentesca al Playa Loca, noto locale della movida trevigiana, l’11 settembre prossimo, ma il sindaco Stefano Marcon ha fatto di tutto perché il casanova col succo alla pera non si esibisse.
Se non fosse per il catafascio totale dei rapporti vissuti dai giovani, mi verrebbe da dire finalmente.
Finalmente.
Ma ci sono voluti gli stupri di gruppo perpetrati in serie, da chi ragiona con quello che ha in mezzo alle gambe prima che con il cervello, per arrivare forse a capire – e nemmeno pienamente – che ormai la situazione è completamente alla deriva. Da quanta melma si è depositata perfino galleggia.
Il primo cittadino di Castelfranco ha invitato i genitori a non mandare al concerto i figli.
Ma tale Nicholas Alfieri in arte Niky Savage su Spotify vanta ben 30 milioni di ascolti, quindi non sarà di certo la mancata performance a diminuire la popolarità del rapper che si vanta di acrobazie sessuali con una donna che “la tratto come una pu…. Sta giaguara. Sta saltando sul cazz già da un’ora”. E ancora: “Oke, oke, vuoi fare fesso a me�Troie, troie, le sto chiavando in tre”.
“Dopo i fatti di Caivano e Palermo – ha detto il sindaco – spero intervengano le forze preposte, dire che è inopportuno è un eufemismo”.
In effetti, non servivano di certo gli stupri per arrivare a comprendere che certe colorazioni ed elucubrazioni mentali se trasportate sugli spartiti musicali diventano pericolose. I ragazzi che seguono questo rapper che in contemporanea “chiava” – scusate non voglio essere volgare ma mi serve ripeterlo – tre donne che definisce oke e che tratta una ragazza come una put… diventerà un modello per 30 milioni di persone, tale per cui diventa normale trattare le donne come poco di buono e consumare con tre contemporaneamente.
Ai miei tempi, e non per apparire incanutita e imbiancata, si andava alle feste studentesche e ci si divertiva con la musica anni 80. Si rimembravano i vecchi tempi.
Del resto, le anime belle non l’hanno mai capita questa deriva pericolosa. Hanno sempre difeso queste sardanapalesche neo culture musicali.
Loro erano quelle che sponsorizzavano Fedez. Quello che cantava: “ dai fammela menare fino a quando non salgono”, “una tr…a costa meno di una moglie”, “bella la tua nuova tipa, è la tua prima cotta, dentro è tanto dolce ma ha una faccia da mignotta”.

sbetti