Buonanotte al secchio

Il giornalismo raccontato giorno dopo giorno

Di notte

Questa sera sono distrutta. Le gambe. I piedi. Riparto sempre dai piedi. Dalla terra. Dalle origini. Ho camminato un sacco oggi. A dir la verità ho sempre camminato tanto. Cammino tanto io. Mi serve a smaltire i pensieri brutti. A farli scivolare giù lungo le gambe e calpestarli. Figli di bastardi vigliacchi. Leggo. Scrivo. Fumo. Corro. Quando facevo danza la mia maestra mi diceva: “anche se senti dolore tu continua. Tu continua a ballare”. Ho bisogno di farmi male. O farmi bene. Dipende.
E così oggi ho camminato tra un servizio e l’altro. Ho lasciato l’auto fuori della città, ma fuori fuori, e sono andata a piedi. Avevo bisogno di vedere qualcosa di bello. Di respirare aria fresca. Di sentire che il freddo ti sbatte addosso. E i polpastrelli si gelano quando accendi una sigaretta. Avevo bisogno di vedere attorno a me bellezza. Arte. Dipinti. Colonne. Chiese. Monumenti. Capitelli. Fiumicciattoli che ti sbucano di sotto mentre cammini. Balconi. Terrazze. Adornate come pandori a Natale finito. Avevo bisogno di sentire il rumore della gente. Quello freddo. Grezzo. Al grezzo. Quello che non c’è. Quello che c’è questo maledetto silenzio assordante che ti sconquassa l’anima, che ti squarcia i timpani. Quello che senti e vedi la gente che ti passa di fianco di soppiatto e non ti guarda nemmeno. Quello che alcuni sembrano cani. Con la coda dell’occhio stanno bene attenti a camminare a un dito dal muro, di modo da non incrociare mai il tuo sguardo. Il tuo respiro. In giro c’è tutto silenzio. Se lasci l’auto fuori della città e te la fai a piedi fino all’altra parte. Se te la rigiri la città. Ci vai oltre.
E ora non sto qui ancora a dirvi quale città, ci vedi le persone le più disparate. Mi piace incontrarle. Mi piace parlarci con le persone. Con quelle che non hanno paura. Anche con quelle che vivono con l’angoscia addosso. Per farmi dire cosa provano. Perché.
Se entri in un bar e chiedi permesso. Il barista ti guarda come fossi un insetto. Stai indietro ti prego. Igienizzati le mani. Non avvicinarti al bancone. “Scusi è tutto il giorno che sono fuori è possibile per me prima di consumare andare in bagno?”.
Zan. Silenzio. Non l’avessi mai detto.
Da lì parte un incrocio di sguardi. Avrà il covid – mah no – forse no – sembra seria – oddio e metti caso che me lo attacca – sai tengo famiglia – no le dico di no – ma no dai le dico di sì. La tua lotta per urinare in bagno e non farla in mezzo alla sala si riduce tutta in un gioco di sguardi diabolico. Che poi il freddo i quattro cinque caffè americano che mi scolo, l’ananas e l’acqua e il camminamento veloce contribuiscono di gran lunga a fare pipì. Così a un certo punto ingrandisci la pupilla. Ecco vedi guardami gli occhi. Bravo così. Lasciati assuefare.
E alla fine è sì. “Va bene vai ma igienizzati le mani prima e dopo quando esci”.
Se becchi quello giusto invece è uno spasso. Puoi entrare dentro al locale, e farci pure una baraccata tra poco. Fumare pure dentro al locale. Mi è capitato. Che tanto almeno si diverte. Poi. Poi è ora di tornare all’opera. Un altro caffè. L’ennesima sigaretta. Zainetto in spalla. Gambe pure. Fa freddo. Da tre giorni metto la calzamaglia. E via. Si riparte. Arrivo a casa. È buio. Non riesco ad accendere la luce perché tra le chiavi in mano, la borsa, la posta ferma da quindici giorni, il tacchino arrotolato su carta da formaggio per un frigo sempre in ordine pulito vuoto, tra il telefono chiama la sorella ciao come stai che fai tutto ok tutto bene, tra il messaggio l’amico gli amici che non vedo da un’po’, percorro l’intero salottino al buio. Sto per accendere la luce. Mi cimento in qualche acrobazia. Ma inciampo dritta al secchio del pellet. Si è fatto tardi. È ora di andare a letto.
Buonanotte al secchio.

#sbetti

#giornale

Da Belgrado… passando per Jasenovac… il reportage sul Giornale

Dopo avere lasciato la Repubblica serba di Bosnia Erzegovina, partiamo alla volta di Belgrado. Ma prima di imboccare l’autostrada, al confine tra la Bosnia e la Croazia, c’è il campo di concentramento di Jasenovac. Il più grande lager dei Balcani nella seconda guerra mondiale. Il terzo dopo Auschwitz e Buchenwald. Impossibile non fermarsi. Qui, le persone che ci arrivavano venivano uccise con una brutalità bestiale. Alcuni morirono di fame, altri di sete. Di stenti. Altri congelati con i liquidi in pancia. Venivano scuoiati. Sgozzati. Presi e cannibalizzati. Alcuni decapitati. Bruciati. Affogati. Molti assistevano alle esecuzioni. Lo srbosjek, il tagliaserbo, era un coltello speciale, sempre fisso al polso, con una lama all’ingiù che serviva a sgozzare le persone in un colpo solo. Un frate, Peta Brzica, in una sola notte ne scannò 1.360. C’erano settimane in cui il fiume Sava, che ora ci scorre accanto, era perennemente tinto di rosso. Erano serbi. Rom. Ebrei. Il religioso che dirigeva il campo, Miroslav Filipovic Majstorovic, lo chiamavano Frate Satana. Frate Satana diceva messa. Uccideva e poi pregava. Un rito meccanico, chirurgico. Uno di quei riti che gli uomini non hanno dimenticato, ma dove la storia non ha insegnato nulla. E in questo immenso campo verde, il rumore dell’accendino che accende la sigaretta è l’unico in questo silenzio spettrale.

Ci rimettiamo in viaggio alla volta di Belgrado. Ci accompagnano tre mezzi dell’associazione Love. Arriviamo alle otto di sera. La fitta e incolta vegetazione della Bosnia ha lasciato spazio al cielo grigio della Serbia. A mano a mano che cala il buio e ci avviamo verso la capitale, le gramigne lasciano posto ai palazzi, alle luci, ai grattacieli. La Dubai dei Balcani la chiamano, la New York della Serbia. Perché è bella Belgrado, bella davvero. È bella da far venire i brividi. La città è un intreccio di colori, di sapori, di foglie colorate, un via vai di scoiattoli che saltano sul prato e si arrampicano sugli alberi. Belgrado è un insieme di canti, di balli la sera, di cani randagi e di vecchiette che vendono lenzuola lungo le strade. C’è un’anziana che dà da mangiare ai piccioni, un pianista che suona in mezzo alla gente, i ragazzi che giocano a palla e i pensionati che si sfidano a scacchi.

Un libro, cadutoci tra le mani per caso, parla della magia di Belgrado, The Magic of Belgrade. Momo Kapor, il suo autore, morto nel 2010, era arrivato a Belgrado partendo da Sarajevo a nove anni e ha iniziato a raccontarla. A illuminarla. Storie, frammenti, aneddoti. Un nativo di Sarajevo che racconta la Serbia. Eppure, si sono fatti la guerra. Una delle più atroci: fratelli contro fratelli, amici contro amici, mariti contro mogli. A vent’anni dalla fine, a vent’anni da quando la Nato bombardò Belgrado, impossibile dimenticare. Popoli della stessa vecchia nazione, prima che la Jugoslavia si dissolvesse, perennemente in conflitto. La Bosnia con la Serbia. La Serbia con la Bosnia. Una Serbia che non vuole entrare nella Nato ma che attende ancora l’ingresso nell’Unione europea. E l’ago della bilancia è il riconoscimento del Kosovo che riaccende i riflettori. Un problema, quello del riconoscimento internazionale che è solo una delle questioni che il Kosovo deve ancora risolvere. Il giochetto mosso alla Serbia è che se per entrare nell’Unione europea, occorre riconoscere il Kosovo, allora non sarà mai. «La Nato ha bombardato la Serbia per il Kosovo – spiega al Giornale, Jovan Palalic ora segretario generale del Partito popolare serbo ed eletto al suo quinto mandato all’Assemblea nazionale serba nel 2016 – voleva che il Kosovo fosse un paese indipendente, ma per i serbi non lo sarà mai, il Kosovo è parte della Serbia». Un Paese, la Serbia, che andrà a elezioni l’anno prossimo e dove se arrivi con un visto dal Kosovo lo considerano uno smacco. Impossibile accettare il visto di un Paese che non riconoscono. «Riguardo all’Unione europea – continua Palalic – non possiamo dire che la Serbia non voglia entrare, ma ora il processo è bloccato per la posizione di Macron. La Francia non vuole l’allacciamento dei Balcani all’Ue. Macron ha problemi in Francia e secondo me sono problemi domestici».

https://www.ilgiornale.it/news/belgrado-ora-si-allontana-e-guarda-russia-e-cina-1795947.html

Il presidente della Repubblica di Serbia, Aleksandar Vucic, però, vorrebbe scendere a compromessi con il Kosovo e ha aperto un dialogo. A cui il Kosovo avrebbe risposto picche. «La Serbia – ci dice Palalic – vuole parlare con il Kosovo. Vogliamo un compromesso, tutto si può fare, ma dentro la nostra risoluzione dove il Kosovo è parte della Serbia». E quindi se la prospettiva è che la Serbia venga estromessa dall’Ue, allora meglio stringere accordi con Cina e Russia. «Due settimane fa – ricorda Palalic – abbiamo stretto un accordo con l’Unione economica euroasiatica per il libero mercato, possiamo esportare merce senza dazi doganali. Un’opportunità anche per le aziende italiane». Un convegno a Verona un mese fa ha lanciato un monito agli italiani per investire in Serbia ed evitare le sanzioni russe. Non solo. Il governo serbo ha schierato i poliziotti cinesi accanto ai propri. E i rapporti con la Bosnia? «In questo momento sono complicati perché non c’è un governo in Bosnia – spiega Palalic -. Noi vogliamo mantenere l’Accordo di Dayton, i musulmani invece vogliono distruggere il potere della Repubblica serba. Non è una guerra tra Serbia e Bosnia ma è una guerra tra musulmani croati e serbi ortodossi che vivono in Bosnia». Già una guerra. Ancora la guerra. Così tornando in Italia, lungo la via del ritorno, una domanda continua a martellarci. Perché ancora tutto questo odio? «Troppo male è stato fatto», ci aveva risposto un ragazzo di Sarajevo.

Qui dove ci stanno la Perla del Delta e l’uomo che crea le maree

Le chiamano le cavane e stanno qui tra terra e mare. Sospese sull’acqua sembrano palafitte. Sono le rimesse dei pescatori. Alcune sono grandi. Altre sono piccole. Qui i pescatori tengono le barche, gli attrezzi, da qui partono, vanno per mare, poi tornano. Chi è nato al mare. Torna sempre. Entriamo dentro una cavana, è la cavana dell’Ostrica Rosa Tarbouriech, la Perla del Delta, in questo territorio Patrimonio dell’Unesco. Sacca degli Scardovari, a Porto Tolle. Qui dove il Po e l’Adriatico fanno l’amore, nascono le più belle ostriche. Polpose, allenate, muscolose. Un sistema innovativo di allevamento le rende ancora più carnose, più belle. Un’acqua particolare che garantisce il giusto tocco. Dal pontile guardiamo di sotto, stupenda, cristallina, si vede il fondale. Entriamo e ad accoglierci c’è Riccardo Marangon con altri colleghi. Lui ha 26 anni. A capo di tutto c’è Alessio Greguoldo, l’uomo che crea le maree, che di anni ne ha 43. Riccardo ci mostra il procedimento. Qui l’ostrica nasce, cresce, viene allevata, accudita, pulita e confezionata. Da qui parte la semina, ancora prima dell’embrione. I semi vengono messi dentro una cesta triangolare fatta a retina tutti assieme. Oltre quattro milioni. Quando le ostriche crescono vengono legate a una corda tre a tre con una goccia di cemento, un cemento speciale, atossico. Le ostriche in questo modo restano aggrappate. Da qui le portano all’impianto che sta in laguna, e vengono lasciate qui un anno e mezzo. Quando diventano “adulte” le vanno a prendere e le staccano dalla corda con un macchinario. Poi le passano, una a una; con un attrezzo eliminano alghe, parassiti. L’ostrica viene messa dentro a delle ceste, dei panieri australiani e rimessa in mare per la fase di affinamento. Ma tutto il processo è sorprendente. Mediante un’app sul telefonino gli uomini della squadra di Greguoldo creano le maree, se quel giorno decidono che le ostriche devono stare in ammollo, da qualsiasi parte del mondo essi si trovino, abbassano le ceste, ci sono dei tubi che avvolgono la corda e portano le ceste di sotto; se invece l’ostrica deve rimanere asciutta, le tirano su. Le onde e il vento favoriscono il movimento e l’ostrica si muove, fa immersione, diventa bella, rigogliosa. Va in palestra, fa muscoli. Fa fatica, va su e giù, giù e su, e il muscolo si ingrossa. L’ostrica di Greguoldo è carnosa polposa, c’è tanto da gustare. Ha il guscio più spesso. Dopo due mesi sono pronte per essere vendute, pulite, preparate, le si portano al consorzio e arrivano sul piatto. Piatti di grandi chef, ovunque in Italia, dappertutto nel mondo: Grecia Malta Cina Giappone Dubai. Il tutto parte nel 2010. Greguoldo conosce Florent Tarbouriech, guru internazionale del sistema di allevamento di ostriche, che gli dice: se riuscite a fare una cozza così buona – la cozza di Scardovari è marchio Dop – perché non provare a fare anche un’ostrica. Greguoldo ci sta, accetta e nel 2016 entra in società. Costruisce il primo impianto, nel 2017 il secondo, nel 2019 il terzo e il quarto. A oggi gli impianti sono sei. Nel 2017 entrano nei grandi ristoranti, le ordinazioni aumentano, da 1000 pezzi a settimana arrivano a produrne 7 mila. Il loro lavoro inizia la mattina alle otto con la luce del sole e finisce prima del buio. Il lavoro è a ciclo continuo. L’ostrica è come un bambino. Nasce, cresce, piange, ride, la devi mettere in acqua, la devi pulire, la devi vestire. “L’innovazione e l’ambiente – dice Greguoldo al Giornale – hanno favorito un’ostrica che ha dell’incredibile. Il muscolo si sviluppa fino a 4 volte di più rispetto a un’ostrica che è sempre in acqua”. Di media ha il 21% di carne, la sua arriva fino al 29%. “C’è un’acqua particolare che fornisce nutrimenti importanti per i molluschi. La sapidità dell’animale è inferiore agli altri. Piace anche a chi non è amante delle ostriche”. Un’ostrica rosa perché sulla conchiglia i raggi del sole formano striature. Di questo colore.

Serenella Bettin

Venezia “solo” ai veneziani

Venezia 13 gennaio 2021 Processed with MOLDIV

Arriviamo a Venezia che è mattina. Ad attenderci Elisabetta Scarpa, veneziana doc che con il marito Francesco Bortolato gestiva il vecchio “biavarol”.

Un punto per i veneziani. Un’oasi di riferimento. Un ritrovo. Una storia lunga oltre un secolo, 113 anni. Elisabetta Scarpa con suo marito vive qui accanto all’Arsenale e all’incrocio tra campo San Martin e Rio dell’Arsenal, sta la loro vecchia bottega. Biavarol significa “biadaiuolo”, da biada: cereale. Ma da ottobre scorso, la loro bottega è chiusa. Lei ha 60 anni. Lui 63 ed è in pensione. Hanno due figlie. Sara, 35 anni, che fa il medico. E Lisa che di anni ne ha 29 e fa la fisioterapista. Sara ci viene incontro, ha due gemelli. Belli. Di tre mesi. Sembrano due batuffoli. In questo locale ora con le saracinesche abbassate ci sono passati veneziani e turisti dal 1907. Un grosso indotto data la vicina presenza dell’Arsenale, della Biennale. E di manifestazioni come il Salone Nautico. «Avevamo deciso di chiudere racconta Elisabetta Scarpa al raggiungimento della pensione di mio marito. Non perché non ci sia lavoro anzi, ma ora vado in pensione anch’io e ci godiamo i nipoti. Vogliamo vendere, ma ci vuole qualcuno che se ne intenda. È da aprile che cerchiamo e abbiamo trovato solo stranieri». A farsi avanti indiani, cinesi. Ma questa. Questa è un’arte. Il contatto con le persone, il saper scegliere i prodotti. Il sentirsi parte di una comunità. Il poter dire “ti lascio le chiavi, passa mio figlio dopo a prenderle”.

È così Venezia, soprattutto ora, piena di veneziani. “Abbiamo iniziato qui nel 1985 racconta ma già dal 1907 c’era una latteria. Poi col tempo abbiamo iniziato a vendere detersivi, formaggi, salumi. Era un punto di riferimento, sa quante persone si davano appuntamento in negozio per scambiare due parole? Questi negozi servono alla società. Con questo negozietto abbiamo comprato casa a Venezia, abbiamo fatto studiare due figlie. Veniamo da 42 anni di esperienza. Ma ora a far la spesa si va nei vari supermarket delle grandi catene spuntati in giro”. Già a Venezia hanno fatto supermercati perfino dentro i vecchi teatri. A fine ‘800 qui c’erano una cantina e un sali e tabacchi. Poi il palazzo venne demolito. E nel 1907 ricostruito. “Nel 1985 siamo subentrati al vecchio titolare in affitto. E nel 1997 a scadenza del contratto la proprietaria ci ha detto o uscite o comprate. Abbiamo comprato, due figlie piccole, ma abbiamo fatto un sacrificio. Per cinque anni non abbiamo fatto ferie. E ora piange il cuore, perché non troviamo nessuno”. Un antico mestiere che a Venezia sta scomparendo. In un intersecarsi di calle e callette, passando per Riva degli Schiavoni, attraversando una Piazza San Marco vuota, insolita, deserta, avvenente, Elisabetta ci conduce in campo San Luca. Qui in un ufficio ci sta una mappa della vecchia Sarlea, società associazione rivenditori latte e affini fondata da Mussolini. Poi diventata Arlea che non esiste più. La mappa mostra tutte le latterie di Venezia ora scomparse. Ogni punto rosso è un morto. La punta massima nel 1960 con 211, e poi via via sempre più scemando. Fino a poco tempo fa ce n’era una a Rialto. Di negozi alimentari ora ce ne saranno 40. “I negozi di vicinato dice Angelo Varagnolo delegato Colav alimentaristi – sono serviti nel primo lockdown. Ora la gente è tornata a comprare nei supermercati. I supermercati hanno ucciso tutto”. Usciamo dall’ufficio. Ci sono negozietti chiusi. Svendesi, vendesi, cedesi attività. Non li ammazza solo il Covid.

Sul #Giornale 👉 https://www.ilgiornale.it/news/politica/venezia-solo-ai-veneziani-e-i-negozi-storici-muoiono-1916943.html

Guarda il video 🎥 https://www.facebook.com/1216623535/videos/10225103306949265/

In viaggio con le pescatrici di Vongole

Dal Giornale del 16 gennaio 2021

Tra il Po e il Mare Adriatico. Inizio pesca ore 7. Consegna pontili ore 7. Tempo per la consegna della quota ore 11. Grosse: 20 kg. La quota è la quantità che le pescatrici di vongole devono pescare. E questo è il messaggio che arriva loro ogni sera. Ogni mattina partono e raggiungono il mare. Partiamo alla volta di Porto Tolle. Uno dei comuni più estesi d’Italia. Il secondo del Veneto dopo Venezia, un paese sotto il livello del Po. Qui se ti affacci vedi gli argini che ti passano sopra la testa. Fa freddo stamattina. Un freddo gelido, secco. Superata Chioggia, inizia un banco di nebbia che dura fino a Ravenna. Ci fermiamo a fare benzina, il termometro segna meno uno. Le mani con i guanti che lasciano scoperti i polpastrelli si screpolano a vista d’occhio. Basta solo il freddo che ti sbatte addosso a farle crepare. Qui siamo tra il Po e il Mare Adriatico, un’oasi incantata dove ci stanno pure i campi di lavanda. Quelli che a primavera diventano viola e ci arrivano turisti da tutto il mondo a fotografarli. Ora sono una distesa di nebbia verde grigia e appena violacea pronta per passare l’inverno e poi fiorire. Questo inverno. Questo maledetto inverno. Le pescatrici di vongole sono qui che ci aspettano. Katiuscia Bellan ha 42 anni; Rosaria Fregnan, di anni ne ha 45 ed Eleonora Saja. Insieme formano la flotta delle quasi 800 pescatrici su 1475 pescatori totali che ogni mattina si svegliano prima dell’alba e vanno in mare aperto. In ammollo. Eleonora è la più giovane. C’ha 18 anni e i riccioli biondi. Timida. Sa il fatto suo. Vuole diventare pescatore e prendere gli insegnamenti del nonno. Lei sta facendo un corso. Il Corso di pesca commerciale e produzioni ittiche qui a Porto Tolle. Un corso nato per formare professionisti che possano svolgere un servizio qualificato nel loro territorio. Qui si impara in mare. La mamma è Rosaria che ci illustra il procedimento. “Si parte alla mattina alle sei, ognuna ha la sua barca”. Una barca che a vederla ti chiedi come delle donne resistano qui sopra. Pioggia. Vento. Neve. Niente le ferma. Sopra la barca ci stanno in tre, dipende. Due vanno in acqua e raccolgono. Una tira con la rasca, uno strumento simile a un rastrello che c’ha una sacca dietro per raccogliere le vongole, poi si torna in barca, si fa la cernita, una a una, pulizia e si insacchetta il tutto. La quota deve essere conferita al consorzio, il Consorzio dei pescatori del Polesine che sotto di sé ha 14 cooperative. Ogni sera alle pescatrici arriva un messaggino su whatsapp con scritto quali cooperative pescano, in che sacca devono andare, si chiamano così qui le lagune e quanto devono pescare. Hanno tutte partita iva e la maternità dura sei anni. Un duro lavoro il loro. Che non conosce feste, sabati e domeniche, anzi ora, sotto Natale lavorano di più. Hanno mani importanti le pescatrici. Katiuscia ha le mani energiche vigorose scalfite dalla fatica e dal vento che tisbatte addosso. Il pescato poi, una volta mandato al consorzio viene scaricato, pulito, lavato, controllato nei minimi termini e confezionato. Al Consorzio a riceverci c’è il presidente Luigino Marchesini che ci spiega il tutto. Ci accompagna il sindaco Roberto Pizzoli. Un’attività importante qui la pesca. Un’eccellenza. Una tradizione familiare. Il lavoro si impara, si tramanda di generazione in generazione, ci sono anche i figli dei pescatori che partono per mare come i marinai con i pescherecci. Qui tutte le case ricordano quelle dei pescatori. Ci stanno pure quelle di un rosso acceso che appena le vedi sono un allegro pugno in un occhio. Spiccano tra il colore della nebbia e i raggi sbiaditi del sole. Almeno oggi. Perché d’estate qui è un incanto. È un luogo incontaminato tra il Po e il Mare Adriatico. Quest’anno Bandiera Blu e Spighe Verdi. Facciamo una tappa alla Spiaggia delle Conchiglie. Il paradiso. Si è fatto tardi, è ora di rientrare.

Serenella Bettin

Mia madre fa lezione in piedi davanti al computer

Dal Figlio del Foglio del 29 maggio 2020 👉 https://www.ilfoglio.it/il-figlio/2020/05/29/news/mia-madre-fa-lezione-in-piedi-davanti-al-computer-in-salone-per-ore-ma-non-basta-piu-320171/

Conosco i ragazzi di mia madre che fa l’insegnante. Non li ho mai visti. Ma li conosco tutti, per nome. Li sento nominare. Quando arrivo da mia madre, la trovo in piedi davanti al tavolo del salone: con il telefono in mano, riprendendosi sullo schermo, e con il portatile e il tablet tiene le sue lezioni. Mia madre ha sessantaquattro anni. Le lezioni le dice ogni giorno. Anche di sabato. Ha venticinque alunni per classe e ha diviso i bambini in cinque gruppi. Mia madre tiene la stessa lezione cinque volte. Cinque volte al giorno spiega lo stesso pronome. Cinque volte al giorno spiega la stessa regione. Dalle due e mezza alle tre. Dalle tre alle tre e mezza. E così fino alle cinque. Poi corregge i compiti. Non una volta, ma venticinque volte. Compila il registro, inserisce i compiti sulla piattaforma elettronica, prepara le carte per la segreteria, risponde ai whatsapp, anche di notte; manda i compiti la mattina, se li prepara la sera prima, imposta la chiamata con gli alunni, tiene l’agenda, aggiorna il calendario, aggiunge i partecipanti, li toglie, a seconda delle esigenze di tutti. I suoi bambini sono molto contenti. L’anno prossimo andranno alle scuole medie. “Immagina il tuo primo giorno”, è stato un tema che ha dato. Qualcuna se lo immagina con le amichette di sempre; qualche altra si vestirà bene: ci saranno tanti ragazzi. Un altro ha scritto che avrà tanta paura. “Maestra ma ci rivediamo?”, “ma ci rivediamo in classe?”. “Bambini avete domande?”. “Sì. Maestra come stai?”. Perché la paura, che in questi mesi si è presa tutto, gli spazi, i tempi, i divani, i cambi mai fatti degli armadi; la paura va anche presa per mano. E per quanto gli insegnanti ora stiano facendo il massimo, sputando sangue, andando oltre lo schermo, non basta. Non basta più.

Scrutinio Finale

Questo pezzo “Scrutinio finale”, nel Figlio del Foglio, pagina curata da Annalena Benini, è un pezzo a cui tengo molto.

Perché lo sto vivendo appieno. Perché ci sono dentro. Fino al collo. Perché non solo racconta tra le righe il sentire di una figlia per la madre, un rapporto ancestrale, viscerale, ombelicale; lo senti dentro, ti prende appieno, soffre una, soffre anche l’altra; ma perché narra anche lo stato in cui sono costretti a vivere alcuni insegnanti che magari non si sono mai tirati indietro per lavorare.

Quando torno a casa dei miei e vedo mia madre in piedi davanti al salone, in cuor mio spero che la scuola finisca al più presto (tra parentesi è finita ieri per la gioia di insegnanti e genitori, i bambini non l’hanno manco sentita) perché non ne posso più di vedere mia madre che tiene le lezioni in rete, che risponde ai whatsapp anche di notte, che risponde sempre, che tenta di barcamenarsi in mezzo all’universo fino a pochi mesi fa sconosciuto di nuvole, drive, piattaforme, caricamento dati, pdf.

Non è questa la scuola. Non lo è.

Non è questa la scuola che avevamo sognato. Fatta di liberi pensieri, di libri altisonanti, di cavalcate tra i manuali, i letterati, di conversazioni a tavolino con gli onesti. Non lo è.

Personalmente sono stanca di vedere mia madre che lavora il triplo di prima per riuscire a correggere, a finire il programma, a mettere i voti, a connettersi in piattaforma.

Il cellulare, il tablet e il computer suonano a ogni ora del giorno, è un continuo di rimandi, drin, plin, notifiche, suoni, input, distrazioni che se non servono a distrarre distraggono lo stesso.

Così l’altra sera sono andata dai miei. Era tardi, ho aperto la porta della cucina e ho trovato mia madre curva sulla sedia che fissava lo schermo del telefonino.

Cosa fai, le ho chiesto. Mi ha detto che stava guardando un video su YouTube. “Sai quei tutorial come li chiamano adesso”. Credevo stesse guardando qualcosa per la casa, un dolce, un impacco per i capelli, e invece no.

Stava guardando un video per fare gli scrutini online.

E sul Foglio trovate il mio racconto.

LEGGI IL PEZZO 👉https://www.ilfoglio.it/…/05/news/scrutinio-finale-320595/

Apro la porta della cucina, è sera tardi, e trovo mia madre curva sulla sedia che fissa lo schermo del telefonino. Le chiedo: cosa fai? Mi dice che sta guardando un video su YouTube, “sai quei tutorial, come li chiamano adesso”. Credevo stesse guardando qualcosa per la casa, un dolce, un impacco per i capelli, e invece no. Sta guardando un video per fare gli scrutini online. “Webinar: gestione scrutini ed esami con il registro elettronico”. Mi dice che gliel’ha mandato un collega sulla chat delle insegnanti e che può essere utile. Mia madre insegna dal 1976, e da una decina di giorni è nel pallone, non sa chi come cosa e dove andare a parare. Conosco bene quella sensazione di quando non hai ben delineato il perimetro delle cose, di quando non le hai concretizzate, di quando non sai come prenderanno forma e sostanza nel mondo reale. Sai che esistono perché se ne parla, ma non sai dove siano, che forma abbiano.

Mia madre da febbraio, assieme ai suoi colleghi, vive un mondo fatto di nuvole dove mettere i dati, drive dove caricare le lezioni, caselline sospese tra un pixel e l’altro dove inserire i voti; sa che esiste il registro elettronico, ma materialmente non sa dove sia. Il fatto poi di trasportarlo all’interno di una piattaforma, come le hanno detto, la manda ancora più in crisi. Come si prende il registro e lo si condivide nello scrutinio finale? Nelle chat di whatsapp del gruppo delle maestre, i docenti si scambiano messaggi per cercare di capire come affrontare questa fase, quella più problematica, quella più impegnativa, quella che ti porta a dover dare giudizi senza giudicare, soprattutto quest’anno: dare un voto è estremamente difficile. Gli scrutini nell’istituto comprensivo dove insegna mia madre cominciano lunedì 8 giugno. La dirigenza scolastica ha suddiviso con estrema precisione tutte e 69 le classi. Ogni classe ha la sua ora per fare lo scrutinio: scaduta quella, si prende e si gira alla classe successiva. Lo scrutinio quest’anno avrà luogo sulla piattaforma elettronica, la Office 363 Education. Non sarà possibile per i docenti andare in aula, sedersi, aprire i registri, guardarsi negli occhi e decidere i voti. Nemmeno senza bambini, stando a distanza, in cinque insegnanti per aula. Si può andare al ristorante ma non ci si può sedere in un’aula con le finestre aperte e le mascherine. Non si può discutere – non solo virtualmente – parlare di un alunno, scambiare opinioni, prendere del tempo per riflettere, per pensare, per questo tempo così perso che ora tutti vorremmo. Una volta gli scrutini duravano ore, da qualche anno ci sono i registri elettronici, e da quest’anno lo scrutinio è online. Per affrontarlo sono stati diffusi dei criteri di valutazione pienamente esaustivi, sintetici e sbrigativi. Per il comportamento si valuta se sia maturo e responsabile, responsabile e corretto, corretto e basta, parzialmente corretto, non sempre corretto e poco responsabile, scorretto e poco responsabile. Per l’apprendimento si tiene conto se gli obiettivi siano stati pienamente raggiunti, raggiunti e basta, raggiunti in modo positivo o in modo complessivamente positivo, generalmente raggiunti, raggiungi in modo parziale o non raggiunti. Poi per il giudizio globale ci sono una serie di frasi prestampate dove inserire la parola desiderata.

Per esempio, se il bambino si è applicato con impegno, si decide se questo impegno sia stato costante, proficuo, rilevante, discontinuo. Ma quello che mia madre e le sue colleghe e colleghi continuano a non capire è perché non si possa andare in classe per lo scrutinio finale, e materialmente come avverrà lo scrutinio online. Il coordinatore di classe dovrebbe aprire lo scrutinio, collegarsi in piattaforma, avere ben chiara la situazione e redigere il verbale. Forse è troppo chiedere a qualcuno, che fino a pochi mesi fa usava soltanto whatsapp, di connettersi in piattaforma con il telefonino, partecipare alla videoconferenza e scrivere contemporaneamente con il computer. Per non parlare di tutti quei report, caricamento dati, trasporto file e pdf che per una persona di sessantaquattro anni erano quasi arabo.

“Ho impiegato mezz’ora – mi dice mia madre – per capire come cancellare un voto, secondo te riesco a fare tutto questo? E’ uno scrutinio secco. Una volta si parlava e si discuteva ore”. I voti una volta avevano un peso. Ma anche adesso ce l’hanno. Nel vero senso della parola. “Sì, nel registro elettronico – mi spiega mia madre – se dai un otto, ti viene chiesto il peso”. Come il peso? “Sì, ok l’otto, ma in cinque anni è veramente un otto? Che peso ha?”. La guardo perplessa, che peso ha? Intanto mia madre gira il cucchiaino dentro la tazza della camomilla. “Ti fanno venire il mal di stomaco – mi dice – Ti fanno venire il mal di stomaco”.

Giovani in prima linea a combattere contro il virus

C’è un posto dove i giovani combattono. La nostra inchiesta su Panorama di questa settimana. Giovani medici, infermieri, neolaureati che combattono contro il virus.

👉 https://www.panorama.it/abbonati/Inchieste/giovani-medici-infermieri-covid

Seguimi sui miei canali