Riparti dalle origini

Il paese dove sono cresciuta

Dalla prima linea della lotta al covid: Veneto

Siamo dentro il reparto Malattie Infettive dell’ospedale di Treviso. Il camice bianco del primario Pier Giorgio Scotton che ci accompagna lungo le corsie, svolazza adagio. Senza fretta. Lui, qui, con la sua equipe, dall’inizio dell’emergenzacombatte ogni giorno contro un virus che sta flagellando il mondo. Una situazione critica in un Veneto dove si contano sempre più carri funebri, ambulanze e corrieri di Amazon. Il turn over delle epigrafi in alcuni paesi è impressionante. Se al mattino c’è un funerale. Al pomeriggio ce ne sta un altro. In questo reparto hanno 15 apparecchi ad alti flussi. Pompano 60 litri di ossigeno al minuto. “Questo – ci spiega il primario – evita che i pazienti possano andare nelle terapie semintensive”. Quando qualcuno finisce in terapia intensiva, lui sa già come andrà a finire. “Dai primi giorni già si vede quale sarà l’esito”, ci dice. Dal policlinico universitario invece di Padova le voci dei parenti che escono dall’ospedale non sono rassicuranti. “È ancora sedata. È ancora intubata”. Questa è la prima linea dell’emergenza. Il fronte. Qui a gestire i malati di covid ci sta una flotta di 600 persone, tra medici, infermieri, operatori. Gli ultimi quattro piani del monoblocco, più il terzo di Rianimazione e il terzo del Sant’Antonio, sono monopolizzati dal covid. Le ambulanze partono, arrivano, caricano scaricano barelle. Gli infermieri vestiti con scafandri, di cui non si vede il volto, salgono nelle ambulanze in una corsa contro il tempo. I medici e gli infermieri provano a non pensare. Studenti giovani di medicina o neo laureati si ritrovano al bar dell’ospedale, dieci minuti d’aria e poi si ritorna a combattere. “I malati non calano – spiega al Giornale il direttore dell’azienda ospedaliera Luciano Flor – qui abbiamo 208 posti letto riservati covid e 47 in rianimazione. Il reparto malattie infettive da 24 posti è passato a 58. Per cinque, sei pazienti che escono, ne abbiamo cinque, sei che entrano”. Ora qui di ricoverati ce ne stanno 202. Nella prima ondata gli operatori contagiati erano 140, ora, dal primo settembre ce ne sono stati 450. Giovani medici anche specializzandi. “Sono – preoccupato – dice – perché i ricoveri non calano, tanti ne dimettiamo, tanti ne entrano. Ma il tasso di mortalità è più basso di marzo”. Con un Veneto che comunque parla di un tasso di mortalità a fine novembre di un più 44% rispetto a quella che era la media dei tre anni precedenti. Questo è l’aspetto più drammatico, con oltre 5 mila morti. Anche a Verona, tra Borgo Trento e Borgo Roma, la pressione è forte. Da settembre a novembre i ricoveri sono arrivati a circa 700. L’azienda ospedaliera universitaria dal primo gennaio 2020ha assunto 253 persone per fronteggiare soltantol’emergenza covid. E un altro esercito di 240 infermieri sta per arrivare. “La pressione è elevata – ci dice il direttore generale Francesco Cobello – è uno sforzo enorme e delle 46 terapie intensive ora ne abbiamo tre libere. Abbiamo assunto tutto il possibile anche se trovare personale oggi è molto difficile”. Qui i posti covid sono 249: 172 ordinari, 31 semintensive e 46 intensive. Dobbiamo andare. C’è la diretta della conferenza stampa di Zaia. L’altro ieri è stato il giorno più brutto, con un Veneto a 165 morti in un giorno. Anche oggi non è dei migliori, più 77. Con 54.632 tamponi, tra molecolari e rapidi, la percentuale dei positivi sui tamponi è del 6,98. Il numero dei positivi dall’inizio è 200.607 (+ 3871), oggi 94.225. I ricoverati totali sono 3317, le terapie intensive 372 (-1). I morti 5069. Dimessi 8953. Cambiamo stazione. Alla radio suona Rain and Tears degli Aphrodite’s Child. Pioggia e lacrime. Viene in mente il primario del reparto malattie infettive di Treviso. Colui che combatte contro il virus, sapendo già come andrà a finire.

Serenella Bettin

“Ho steso l’anoressia”

È piccolina. Che a vederla pensi. Ma tutta questa potenza sta racchiusa qui dentro? Poi quando capisci cosa ha passato, capisci che può essere vero.

Fino in fondo. Fino in fondo. Se la sua vita potesse essere riassunta in tre parole sarebbero queste. Perché lei la vita l’ha vissuta tutta. Fino in fondo. Ogni secondo. L’ha toccato quel fondo. Spingendosi al limite. Al di là della fatica e del dolore. E così ha deciso di vincere. Negli occhi ha la fiamma di chi arde, nei capelli ha la criniera di chi corre, la bassa statura degli uomini d’azione, quasi timida, all’inizio diffidente, lei è nata per combattere. Sara Cardin, 33 anni, segno zodiacale acquario, Primo caporalmaggiore dell’Esercito, è la campionessa del mondo di karate. 

L’anoressia, la bulimia lei le ha messe al tappeto. Raggiungiamo Sara una mattina di novembre a Ponte di Piave in provincia di Treviso. È qui che lei vive con suo marito Paolo Moretto, nonché il suo allenatore. Vent’anni di differenza, ma un amore folle. Qui ci sta anche la sua famiglia. Nonno Danilo, il papà James, la mamma Tiziana e nonna Maria. Le sue colonne portanti, quelle che quando Sara vince da bravi veneti fan banchetti di prosecco e ossetti. Sara Cardin è cresciuta qui, in mezzo alle colline, lavorando con la famiglia sui campi, qui a sette anni ha messo piede per la prima volta sul tatami. Quel quadrato blu di otto metri per lato bordato di rosso dove lei esprime tutta se stessa. “Combatti – ho scelto di vincere”, è il titolo della sua autobiografia, edita Baldini Castoldi, che Sara ha scritto con Tiziana Pikler. “La prima volta che ho messo piede in palestra – racconta Sara a Oggi – mi ci ha accompagnato mia mamma. Avevo sette anni, Paolo, ora mio marito 27. Ero una bambina. Ma quei dieci minuti hanno modificato per sempre la mia vita. Due volte a settimana, un’ora a lezione. Il karate ci diceva Paolo ci insegna a difenderci, non è fatto per far del male agli altri bambini”. Un male che lei ha conosciuto subito e che l’ha portata in prima fila nella lotto contro la violenza sulle donne con “Fare X Bene”onlus. Era brava Sara, molto più brava degli altri. Era veloce, coordinata, quel quid in più che faceva la differenza. “Non accettavo sbagliare, io volevo sempre vincere”. Poi un giorno. Poi un giorno fa un sogno. “Io non volevo fare i suoi giochi – racconta – lui diventava cattivo e mi faceva male. Mi spaventavano i suoi giochi schifosi. Diceva che dovevo stare ferma, che dovevo stare calma e comportarmi bene. Io non ci riuscivo e lui si divertiva. Lui era forte e io ero debole”.

A dodici anni inizia la sua attività agonistica, tre giorni la settimana. Nel 2001 a soli 14 anni, partecipa alla sua prima gara internazionale, vincendo in finale un incontro durissimo. Ma già dentro di lei emergevano i primi problemi con il cibo. “La categoria di peso – racconta – era diventata un grande problema”. Il suo preparatore atletico di quel tempo, Guru lei lo chiamava, era convinto che dovesse gareggiare nei – 50 kg. Da lì comincia comincia l’ossessione. Il tunnel verso l’anoressia. “Per calare di peso come spuntino mangiavo delle carote, ero arrivata a pesarmi dalle sei alle ottovolte al giorno. Volevo essere perfetta e volevo vincere. Così ho cominciato a indossare abiti larghi, così da far sembrare che sparissi dentro ai vestiti, oppure mi rosicchiavo l’interno delle guance perché ero convinta che il viso diventasse più magro. Ma dall’anoressia alla bulimia il passo è breve. Tornando a mangiare i sensi di colpa crescevano e come riprendere il controllo? Vomitando ovviamente. Ti devasta – ci dice con gli occhi di chi ora ha superato anche quel momento – Quanto male stiamo quando vomitiamo? Ecco, immagina di farlo per quindici volte al giorno. Mi infilavo le dita in bocca, poi anche il sapone, era come se dovessi ripulirmi da qualcosa”.

Da lì i genitori si accorgono che qualcosa non andava e le discussioni in casa iniziano a diventare sempre più frequenti. Le battaglie davanti allo specchio, la scuola che va avanti, gli allenamenti estenuanti, lei che doveva avere il controllo su tutto, e quel dualismo eterno tra la voglia di emergere e il desiderio di una vita tranquilla. A 15 anni arriva la prima convocazione nel gruppo della Nazionale senior e Sara già all’epoca voleva portare in alto l’onore della propria nazione. Il nonno le ha trasmesso questo grande amore per il Tricolore e la maglia azzurra. Un Tricolore che lei indossa sulla divisa quando veste l’uniforme del Primo caporalmaggiore. L’Esercito le dà la possibilità di vivere della sua passione. Oltre a tutti i valori da lei pretesi come amore, rispetto e fiducia reciproca. Gli allenamenti vanno avanti, Sara continua a sfinirsi, a farsi male. Il Guru dell’epoca non voleva che si mostrasse debolezza. Anche col naso sanguinante. A 17 anni si innamora di quello che oggi è suo marito. I suoi non lo sanno. Lui all’inizio non voleva saperne ma lei, carattere di chi mai si arrende, ci prova fino in fondo. Il 26 luglio 2014 convolano a nozze. Da lì il riscatto. Rigore, stakanovismo, studio quasi maniacale, perfezione, determinazione e voglia di vincere.

I problemi alimentari a poco a poco spariscono, un percorso duro, doloroso. “Pensi sempre di non farcela, e poi invece ce la fai”. Fino al suo sogno. Il mondiale. Era il 9 novembre 2014. Il podio. La medaglia d’oro. L’inno d’Italia cantato a squarciagola dal pubblico. Sara era la campionessa del mondo. Ad oggi Sara che si sta preparando per le Olimpiadi 2021, vanta un argento e un oro ai Campionati del Mondo, otto podi ai Campionati Europei, 20 titoli italiani e 7 assoluti. Tutti custoditi nella sua bacheca. “Io credo serva tanto coraggio per combattere – ci dice – e più accettiamo di combattere più impariamo a farlo. Nessuno nasce campione, c’è sempre una storia dietro. Vincere a volte è una scelta, scegliere di continuare a vedere la bellezza nel mondo, scegliere il bicchiere mezzo pieno, scegliere di non mollare mai, scegliere i sogni, la felicità, ma soprattutto scegliere le persone al nostro fianco”. Ci guardiamo negli occhi. Si è fatto tardi. È mezzogiorno e mezzo. “Devo andare… devo andare a fare la pasta per il mio Paolo”.

Serenella Bettin

Il pezzo su Oggi settimanale