“Ho steso l’anoressia”

È piccolina. Che a vederla pensi. Ma tutta questa potenza sta racchiusa qui dentro? Poi quando capisci cosa ha passato, capisci che può essere vero.

Fino in fondo. Fino in fondo. Se la sua vita potesse essere riassunta in tre parole sarebbero queste. Perché lei la vita l’ha vissuta tutta. Fino in fondo. Ogni secondo. L’ha toccato quel fondo. Spingendosi al limite. Al di là della fatica e del dolore. E così ha deciso di vincere. Negli occhi ha la fiamma di chi arde, nei capelli ha la criniera di chi corre, la bassa statura degli uomini d’azione, quasi timida, all’inizio diffidente, lei è nata per combattere. Sara Cardin, 33 anni, segno zodiacale acquario, Primo caporalmaggiore dell’Esercito, è la campionessa del mondo di karate. 

L’anoressia, la bulimia lei le ha messe al tappeto. Raggiungiamo Sara una mattina di novembre a Ponte di Piave in provincia di Treviso. È qui che lei vive con suo marito Paolo Moretto, nonché il suo allenatore. Vent’anni di differenza, ma un amore folle. Qui ci sta anche la sua famiglia. Nonno Danilo, il papà James, la mamma Tiziana e nonna Maria. Le sue colonne portanti, quelle che quando Sara vince da bravi veneti fan banchetti di prosecco e ossetti. Sara Cardin è cresciuta qui, in mezzo alle colline, lavorando con la famiglia sui campi, qui a sette anni ha messo piede per la prima volta sul tatami. Quel quadrato blu di otto metri per lato bordato di rosso dove lei esprime tutta se stessa. “Combatti – ho scelto di vincere”, è il titolo della sua autobiografia, edita Baldini Castoldi, che Sara ha scritto con Tiziana Pikler. “La prima volta che ho messo piede in palestra – racconta Sara a Oggi – mi ci ha accompagnato mia mamma. Avevo sette anni, Paolo, ora mio marito 27. Ero una bambina. Ma quei dieci minuti hanno modificato per sempre la mia vita. Due volte a settimana, un’ora a lezione. Il karate ci diceva Paolo ci insegna a difenderci, non è fatto per far del male agli altri bambini”. Un male che lei ha conosciuto subito e che l’ha portata in prima fila nella lotto contro la violenza sulle donne con “Fare X Bene”onlus. Era brava Sara, molto più brava degli altri. Era veloce, coordinata, quel quid in più che faceva la differenza. “Non accettavo sbagliare, io volevo sempre vincere”. Poi un giorno. Poi un giorno fa un sogno. “Io non volevo fare i suoi giochi – racconta – lui diventava cattivo e mi faceva male. Mi spaventavano i suoi giochi schifosi. Diceva che dovevo stare ferma, che dovevo stare calma e comportarmi bene. Io non ci riuscivo e lui si divertiva. Lui era forte e io ero debole”.

A dodici anni inizia la sua attività agonistica, tre giorni la settimana. Nel 2001 a soli 14 anni, partecipa alla sua prima gara internazionale, vincendo in finale un incontro durissimo. Ma già dentro di lei emergevano i primi problemi con il cibo. “La categoria di peso – racconta – era diventata un grande problema”. Il suo preparatore atletico di quel tempo, Guru lei lo chiamava, era convinto che dovesse gareggiare nei – 50 kg. Da lì comincia comincia l’ossessione. Il tunnel verso l’anoressia. “Per calare di peso come spuntino mangiavo delle carote, ero arrivata a pesarmi dalle sei alle ottovolte al giorno. Volevo essere perfetta e volevo vincere. Così ho cominciato a indossare abiti larghi, così da far sembrare che sparissi dentro ai vestiti, oppure mi rosicchiavo l’interno delle guance perché ero convinta che il viso diventasse più magro. Ma dall’anoressia alla bulimia il passo è breve. Tornando a mangiare i sensi di colpa crescevano e come riprendere il controllo? Vomitando ovviamente. Ti devasta – ci dice con gli occhi di chi ora ha superato anche quel momento – Quanto male stiamo quando vomitiamo? Ecco, immagina di farlo per quindici volte al giorno. Mi infilavo le dita in bocca, poi anche il sapone, era come se dovessi ripulirmi da qualcosa”.

Da lì i genitori si accorgono che qualcosa non andava e le discussioni in casa iniziano a diventare sempre più frequenti. Le battaglie davanti allo specchio, la scuola che va avanti, gli allenamenti estenuanti, lei che doveva avere il controllo su tutto, e quel dualismo eterno tra la voglia di emergere e il desiderio di una vita tranquilla. A 15 anni arriva la prima convocazione nel gruppo della Nazionale senior e Sara già all’epoca voleva portare in alto l’onore della propria nazione. Il nonno le ha trasmesso questo grande amore per il Tricolore e la maglia azzurra. Un Tricolore che lei indossa sulla divisa quando veste l’uniforme del Primo caporalmaggiore. L’Esercito le dà la possibilità di vivere della sua passione. Oltre a tutti i valori da lei pretesi come amore, rispetto e fiducia reciproca. Gli allenamenti vanno avanti, Sara continua a sfinirsi, a farsi male. Il Guru dell’epoca non voleva che si mostrasse debolezza. Anche col naso sanguinante. A 17 anni si innamora di quello che oggi è suo marito. I suoi non lo sanno. Lui all’inizio non voleva saperne ma lei, carattere di chi mai si arrende, ci prova fino in fondo. Il 26 luglio 2014 convolano a nozze. Da lì il riscatto. Rigore, stakanovismo, studio quasi maniacale, perfezione, determinazione e voglia di vincere.

I problemi alimentari a poco a poco spariscono, un percorso duro, doloroso. “Pensi sempre di non farcela, e poi invece ce la fai”. Fino al suo sogno. Il mondiale. Era il 9 novembre 2014. Il podio. La medaglia d’oro. L’inno d’Italia cantato a squarciagola dal pubblico. Sara era la campionessa del mondo. Ad oggi Sara che si sta preparando per le Olimpiadi 2021, vanta un argento e un oro ai Campionati del Mondo, otto podi ai Campionati Europei, 20 titoli italiani e 7 assoluti. Tutti custoditi nella sua bacheca. “Io credo serva tanto coraggio per combattere – ci dice – e più accettiamo di combattere più impariamo a farlo. Nessuno nasce campione, c’è sempre una storia dietro. Vincere a volte è una scelta, scegliere di continuare a vedere la bellezza nel mondo, scegliere il bicchiere mezzo pieno, scegliere di non mollare mai, scegliere i sogni, la felicità, ma soprattutto scegliere le persone al nostro fianco”. Ci guardiamo negli occhi. Si è fatto tardi. È mezzogiorno e mezzo. “Devo andare… devo andare a fare la pasta per il mio Paolo”.

Serenella Bettin

Il pezzo su Oggi settimanale

Il #PanCor: il pane fatto con la farina degli abeti

Questo è il pane fatto al Fogolar 1905 di Udine. Quello realizzato con la farina degli abeti della tempesta #Vaia. Quando l’altro giorno sono entrata in questo posto mi sembrava un incanto. Stefano Basello, quello che vedete in foto con la gerla, che da 13 anni fa qui il cuoco mi ha accolto come pochi avrebbero saputo fare. Arrivavo da una mattina indaffarata. Mille cose. Il traffico fagocitante e trasbordante ed esorbitante di questi giorni. Le ultime mail da controllare. Una borsa da disfare e una da rifare. Mi ha accolto come fossi entrata nel mondo delle fiabe. Con il camice da chef appuntato. Abbottonato. Schiena dritta. Perfetta. Sguardo ruvido e attento. Era l’una. L’una del pomeriggio. “Vuole mangiare qualcosa?”, mi ha chiesto. “Oddio no, non so, non si preoccupi, non importa”, gli ho detto io. Mi pareva così strano arrivare in un posto e sentirmi dire se avessi voluto qualcosa da mangiare. Non sentirsi subito dire: “da dove cominciamo? Di cosa ha bisogno?”. Così mi sono fatta accompagnare. Cullare. Mi ha guidato verso la sala. E appena mi sono girata c’ho visto il fuocherello accesso. “Wow”, gli ho detto. Lui mi ha sorriso.
Poi. Poi mi sono accomodata. Mi hanno fatto accomodare. Mi hanno indicato la toilette. Mi hanno messo a mio agio. Mi sono seduta e mi hanno portato l’antipasto. L’antipasto in questo posto da sogno consisteva in: pane fatto con la farina degli abeti caduti dopo la tempesta Vaia.
Sì. Sono loro che ogni mattina si svegliano alle cinque e vanno su per i boschi. Sappada, Zoncolan, Timau, gerle in spalle e via. Raccolgono licheni, erbe, cortecce. Tutto quello che possono caricano su una gerla e portano al ristorante. Con gli scarti ci fanno i contenitori. E infatti qui. Qui tutto viene servito su fette di abete. Rotelle d’acero. C’è il pane servito sui sassi riscaldati del Tagliamento. Il burro di malga sulla pietra carnica, l’antipasto dentro a una corteccia con tronchetti d’abete che fanno da base a una pasta fritta. Il pane poi è un lavoro di precisione. Di attento studio. Tutto viene pensato al dettaglio. Nulla viene lasciato al caso. Dall’acqua recuperata al confine con l’Austria, al forno fatto arrivare direttamente dal Belgio fino alle farine selezionate e controllate poi dall’Università di Padova. Così mentre facevo questo servizio, non ho pensato al covid. Non ho pensato al coronavirus. Stefano Basello mi raccontava dei suoi ricordi dei nonni, dei genitori, delle sue storie, di queste arti che lui vuole tramandare di generazione in generazione e mi sono lasciata condurre verso luoghi e tempi lontani.
E c’ho visto mani che scavano. Che cercano. Che scalpellano. Mani che osservano. Agguantano. Provano. C’ho visto uomini e donne e bambini che crescono. Crescono con il profumo di bosco, con quello che sa di bello, con i valori, i mestieri, il territorio, il proprio lavoro. Crescono con quello che conta. Che conta davvero.
Perché qui dove siamo seduti ora, qui 115 anni fa c’era un’osteria cambio cavalli. La gente arrivava, si cambiava, cambiava il cavallo e ripartiva alla volta dell’Austria. Ora ci sono un ristorante. Un hotel, un gourmet, un bistrò, una sala convegni, una SpA.
La prova che le cose se non le lasci morire, crescono, lievitano, come questo pane, fatto col cuore.
Oggi sul #Giornale

#sbetti

E questo il video del documentario presentato al Visionario di #Udine. La regia di Swan Bergman.
https://youtu.be/VNNJsE8_FVg

PEZZO 👉👉👉 https://m.ilgiornale.it/news/politica/alberi-travolti-bufera-e-pane-antico-che-sa-bosco-1900233.html

RipartiAmo

Dal diario di Facebook

È stata una giornata massiccia. Oggi sul #Giornale trovate due servizi sulla continuazione della storia del focolaio di Vicenza importato dalla Serbia. E un’intervista che vi dirò appena esce.
Ma è stata una giornata massiccia perché tornare a scrivere di Covid mi ha lasciato una sensazione strana. Questo mestiere per certi aspetti rende ruvidi. Sì insomma, non è stato come la prima volta dove mi tremavano le dita, non trovavo un posto dove fermarmi per scrivere, in giro era buio pesto, non c’era nessuno, e mi ero ritrovata a scendere quei colli di notte da sola, ancora non sapendo a quello che saremo andati incontro dopo.
Stavolta è stato diverso. Ma mi ha comunque lasciato un tarlo. Stavolta è stato che ho lavorato, ho scritto e poi tra un servizio e l’altro sono andata a fare la spesa.
Ancora mi ricordo di quando per fare la spesa la gente aspettava fuori, non ci si salutava nemmeno, tutti sospettosi impauriti, pieni di paura. Uscivi e quelle strade erano così deserte. Il vuoto attorno. Il nulla. Non c’era nessuno. Nemmeno un lamento. Solo il silenzio faceva rumore. Quello del terrore.
E allora dicevo sono andata a fare la spesa e ho visto che in una piazza stavano facendo festa. La musica la sentivi da molto lontano. Disco, anni 80, disco dance, musica a palla. Che bello mi sono detta. Che bello. Che bello vedere il paese che fa festa, che riparte, il sole, il mare, l’estate, sì ok stiamo attenti ma almeno partiamo.
Così ci passo accanto e mi ferma una persona. Allora cominciamo a parlare e mi sento dire che non è possibile fare una festa così, che si prende il giro il paese, con tutte quelle persone che sono morte. Io gli dico cosa c’entri questa cosa e lui mi dice che non è rispettoso, che quest’anno bisogna aspettare, che se per caso scoppia un focolaio siamo tutti fottuti. Io lo guardo. Sgrano gli occhi. È la mia testa mi ributta indietro a tre mesi fa. Mi sembra di vedermi là, anziché i tacchi le scarpe da ginnastica, la calzamaglia, il cappottone verde, la sciarpa, che cammino avanti e indietro per il paese e fumo la mia sigaretta. Mi viene l’angoscia. Indietreggio. Non lo voglio. Non voglio ascoltare una persona che mi ributta indietro di tre mesi. Non la voglio ascoltare. Non dobbiamo dimenticare ma dobbiamo vivere.
E mi meraviglia perché questa persona era una di quelle che diceva all’inizio che era tutta na minchiata.
Allora io non la biasimo. Non la giudico. Ci sono diverse sensibilità di approcciarsi alla cosa. Diversi strascichi lasciati dietro di noi da questa triste storia, ma mi sono accorta di come molti ancora siano così talmente terrorizzati da non concepire l’idea che si possa provare a ripartire.
Anche i nostri nonni quando sollevarono una a una le macerie di una guerra, provarono a ripartire. Noi non abbiamo lottato. A combattere con il fucile di cartone sono andati i medici. Ma abbiamo un dovere. Non far morire il paese. Perché mi risulta impossibile pensare che nella mente delle persone non ci sia un momento in cui questo possa finire. Mi risulta impossibile.
Perché cosa facciamo? Stiamo sempre tutti a casa? Ci chiudiamo? Non usciamo più di casa? Per quanto? Chi ci dà da mangiare? Ci ci guadagna da vivere? Mi hanno risposto che ci deve pensare lo Stato. Che devono arrivare i soldi.
Vero. Lo Stato non ha versato niente. Ma una logica assistenzialistica tipica di uno stato comunista dove la gente infinocchiata e intortata in tutti i modi, attende le sovvenzioni i sussidi e quanto può produrre, io non la voglio. Non la voglio una mentalità che pensa che lo stato debba dare tutto a tutti. E che siamo tutti uguali. E che tu devi produrre dieci. E tu venti. E tu dieci come gli altri. Non la voglio.
Voglio un Paese che riparte. Che decide come quanto fare dove andare con chi. Voglio la gente che compra. Che esce. Che mangia. Che è felice. Che balla. Che lavora. Che fa lavorare gli altri. Voglio l’imprenditore che rischia. Che chi lavora di più prende di più. Che chi lavora di meno prende di meno.
Anche i nostri nonni piangevano i morti. Loro che la guerra l’hanno fatta per davvero.
Ma loro almeno non si piangevano addosso.

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La campanella è suonata ma i banchi sono vuoti

La campanella è suonata. Ma i banchi sono vuoti. L’altra sera mia madre mi ha chiamato. Mi fa: “una mia collega mi ha detto che su YouTube c’è un video con il suono della campanella, riesci per favore a spiegarmi come posso trovarlo? Perché volevo metterlo durante la video chiamata dell’ultima lezione”. Mia madre ha una quinta elementare. E’ la prima volta in 44 anni di insegnamento che non sente il suono della campanella suonare. Quella dell’ultima lezione. Quella che ti spalanca le porte e ti getta a picco sul mare, l’estate, le vacanze, i libri nuovi da leggere, quelli che sanno di carta profumata che ti accompagneranno in spiaggia. Le ho spiegato allora che doveva prendere il tablet, aprire YouTube, cliccare sul pallino che somiglia a una lente di ingrandimento, e posizionarsi sulla parola “cerca”. Cerca. Scrivere: “suono campanella scuola” e attendere il caricamento dei video. Abbiamo ripetuto l’operazione quattro volte. Spegneva YouTube. Lo riapriva e ripartiva. “Bene così?”, mi chiedeva. Sì certo. Sei bravissima. Il giorno dopo mi ha mandato un messaggio su whatsapp e mi ha scritto “suono della campanella andato, tutto ok”, me l’ha scritto con una emoticon che trionfa vittoria. Quanto è stato duro il suono di quella campanella. Quanto responsabilità in queste insegnanti che quest’anno il fischio di fine l’hanno suonato loro. Mentre mi scriveva, stavo attraversando un parco e su una panchina ho visto un gruppetto di ragazzi. Avranno avuto sì e no quattordici, quindici anni. Consumavano una bottiglia di birra e fumavano una sigaretta. Ecco cos’ha prodotto per alcuni, tenerli a casa, ho pensato. Il suono della campanella loro l’hanno vissuto da qui. All’ombra di un salice, con una birra in mano. I ragazzi di mia madre alcuni non se ne sono nemmeno accorti che sia finita la scuola. Hanno passato mesi a svegliarsi al mattino e vestirsi per andare in salotto, che non fa molta differenza. Il giorno dopo sono passata dai miei per la colazione. Mia madre era fuori sotto al portico che compilava i registri. Metteva i giudizi. Era lì dalle cinque e mezza del mattino. Ha alzato lo sguardo e mi ha detto: “per fortuna ora ho finito”. Mia madre ha deciso di andare in pensione.

#sbetti

#Coronavirus

#Storie2020

Dal mare. Il mondo è diventato un insieme di cerchi

Jesolo

Sono appena rientrata.
Oggi dovevo fare un servizio al mare. E domani trovate il pezzo sul #Giornale.
Allora ho preso l’auto. Ho messo dentro la borsa la macchina fotografica. Le sigarette. Messo su un cd. Oggi Bruce Springsteen. Come mi va. Come mi pare. Onnivora di musica. Ho abbassato gli occhiali da sole. E sono partita alla volta delle spiagge.
Oggi era la prima domenica del fuori liberi tutti. E la percezione è che lo smarrimento, l’angoscia, l’incredulità, la paura dei mesi scorsi abbiano lasciato il posto alla voglia di ripartire. Alla fiducia. Al coraggio. Alla leggerezza. Alla speranza. All’affidamento.
Ora ci affidiamo l’un con l’altro. Ora ognuno conduce la propria battaglia da solo.
Tutti in lotta contro tutti.
Tutti in lotta contro uno. Il virus.
Non ho visto gente scomposta. Maleducata. Che se ne frega. Il mondo è diventato un insieme di cerchi che si chiudono gli uni distanti dagli altri. Escludendo il resto. Li vedi proprio fisicamente. Dall’alto. Sembrano tante linee segnate con il compasso. Ci si fida solo di noi stessi. Ci si fida solo degli amici veri. Dei parenti. Di quelli che conosci da tempo. Di quelli dove ti senti protetto. Non ci sono più le persone che si raggruppano in uno sciame di rapporti liquidi fini solo a se stessi.
Orgasmi del bisogno. No.
Ora ci sono quelli con cui hai condiviso tutto che ti stanno accanto. Quelli che “ok sì ci penso un attimo, ma diamocelo sto bacio, un abbraccio, una stretta di mano”. La gente si lascia andare. Siamo diventati ligi, seri, rispettosi. Affezionati.
I rapporti che dovevano essere tagliati, quelli fatti di frasi fatte, di incontri estemporanei, di mancanza di vigore, sono stati già recisi con una precisione chirurgica.
I rapporti che invece sono tornati, o quelli anche appena nati, sono quelli veri. Quelli sinceri. Quelli che abbiamo riscoperto e che in quarantena dicevamo: “scusa sono stata una stupida”, “scusate ragazze, prometto che vi dedicherò più tempo”. “Scusate se vi ho trascurato”, “io prometto che ora uscirò anche se sono stanca”. Insomma le relazioni che contano si sono rafforzate. I cerchi nel mondo si contano a seconda delle relazioni forti. Se sei dentro al cerchio allora fai parte di quel gruppo. Sennò rimani una formica in attesa che arrivi la stagione.
Il cielo di questi giorno ha ripreso il suo colore scalzo. Non sta più pastellato come prima. Le moto hanno ripreso a correre. Le auto a viaggiare. A macinare asfalto sotto le ruote. I camion hanno ripreso a suonare i clacson. Li senti la mattina. Quando ti svegli. Ancora prima di aprire gli occhi. Li senti e dici “Dio per fortuna”.
E allora oggi osservavo quel mare azzurro. Sentivo quel vento che scomposto sulla pelle faceva riscoprire la voglia di crederci ancora.
Il sole era in alto. Bello. Grosso. Scaldava il corpo. Gli animi. Le speranze.
Quanti giorni abbiamo osservato quel sole con la voglia di ripartire.
E così stasera mentre tornavo a casa e guardavo quel sole calare lento al tramonto, di un tramonto rosso fuoco, mi sono detta che non so di più cosa possiamo fare.
Che è così che deve andare.
Che ora ognuno conduce la propria battaglia da solo. E che da lassù qualcuno ce la mandi buona.

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Venezia ai tempi del #Coronavirus

L’angoscia a Venezia. Era meglio con l’acqua alta. Scendiamo con il treno delle dieci che ci porta dritti a Venezia Santa Lucia. In treno c’è un assoluto silenzio, non ci sono ragazzini, giovani, innamorati. Ci sono solo i lavoratori, i sedili vuoti, quelli dove non ti puoi sedere sono tracciati di rosso. Non sono passati nemmeno i controllori. Scendiamo in stazione e sotto i piedi ci compaiono delle enormi frecce verdi: “Rispetta la distanza sociale”, c’è scritto. Il distanziamento suonava meno invasivo. In stazione non c’è nessuno. Ci sono i poliziotti. Alcuni negozi hanno aperto, ma sono completamente vuoti. Il bar della stazione è chiuso. Sulle sedie sono stati appiccicati degli adesivi. Sul rosso non ti ci puoi sedere. Venezia così ospedalizzata, non l’avevamo mai vista. I ponti sono vuoti, le calli pure, solo quella delle Poste è piena di gente in coda a “distanza sociale”. Non c’è più il vociare dei turisti, il click degli stranieri, i selfie dei cinesi, il compulsivo trotterellare dei trolley. Non ci sono più i gondolieri che parlano veneziano, i veneziani che imprecano in dialetto; almeno quelli con l’acqua alta si sentivano. Ora c’è un terribile silenzio. In sottofondo il rumore scalzo dei vaporetti, mezzi vuoti. Gli alberghi sono chiusi, metà saracinesche dei negozi sono abbassate, gli omini del Bangladesh non vendono più nemmeno i cappelli. Ci fermiamo in un locale, per prendere un caffè. Il titolare Alessio Dola del bar ristorante Ai Scalzi sta misurando i tavolini con il metro. Lui ha riaperto, ma alcuni locali e locande sono ancora chiusi. Non si può, senza turisti non ha senso. Dola aveva 25 dipendenti, ne ha reintegrati cinque. “Abbiamo passato l’acqua alta ci dice la crisi del 2008, ma una cosa del genere mai. Questo era un bel periodo prima del Coronavirus”. Ora. Ora fa impressione. In Piazza San Marco i cafè classici sono rimasti chiusi. Con la città che si spopola, Venezia muore senza turisti. Sopra un ponte incrociamo due persone. Sono due turisti di Verona. “Con la riapertura siamo venuti a fare un giro a Venezia – dicono Daniela Pisani e Alberto Mori ma così non l’avevamo mai vista”. Le chiese sono aperte. I musei pure. Ma alla «prima messa» nella Basilica di San Marco, non c’erano molte persone. In qualche locale in Strada Nuova, le persone sembrano formiche, qualcuno azzarda a sedersi fuori nei bar. Ne basta una e la gente si fa coraggio. Hanno tutti la mascherina, lo prevede l’ordinanza in Veneto, pena la sanzione dai 400 ai 3000 euro. A fine mese via libera a centri estivi e parchi giochi. Anche gli spostamenti tra le province confinanti con Emilia Romagna, Friuli e Trento sono ammessi, per i congiunti. Ci si sposta con l’autocertificazione, ha spiegato Zaia, per incontrare parenti, fidanzate o fidanzati. Come quei ragazzini che si baciano alla stazione. Lui è andato a trovarla. Chissà se riusciremo a non fermare almeno l’amore.

Il pezzo sul #Giornale 👉👉👉 https://m.ilgiornale.it/news/politica/confini-aperti-andare-emilia-friuli-e-trento-venezia-resta-1863965.html

Ma quale scuola da remoto. Siete da internare

Non avrei mai voluto vivere un’epoca con le lezioni da casa. Le videochiamate. Le videoconferenze. Le piattaforme. Le lezioni online. Se qualcuno pensa sia il futuro e che la didattica a distanza stia dando i suoi frutti, credo sia da internare. Lo credo veramente.
Lo internerei e lo lascerei lì. A connettersi da un tugurio con il resto del mondo.
Gli esami su Skype. I calendari aggiornati. Il monitoraggio dei compiti. La mail degli interrogati. Le chiamate dei docenti.
Mai. La scuola è fisica. La scuola è fisicità. È anima. È follia. È pazzia. È chimica pura. La scuola è un incontro di elementi che si rafforzano. Che si alternano. È energia pura. È un’altalena che accelera, che scende, che va in alto, che immagina, che sogna, che chiude gli occhi, che si interroga. La scuola è esperienza. È sbucciarsi le ginocchia. È sanare le ferite del tuo compagno. La scuola è toccarsi. È guardarsi. È prendersi per mano. È lasciar andare. È lasciarsi. La scuola è ribellione. È cura. È amore. È condivisione di gioia. Noia. Insoddisfazione. Dolore.
A chi pensa di poter sostituire la scuola con una piattaforma, con dei sistemi da remoto, a chi pensa che la scuola possa incasellarsi dentro un sistema virtuale dove le aule diventano chat, dove i programmi diventano pdf, dove i colloqui diventano stanze, dove i confronti diventano chiamate, penso che questo qualcuno sia seriamente da curare.
Da qualcuno di bravo.
Penso fermamente che se c’è ancora qualcuno che crede che questi sistemi siano ottimi, che della fisicità se ne possa fare a meno, allora questo qualcuno non può che essere un danno. Se questo qualcuno insegna è ancora peggio. Andrebbe tolto dall’insegnamento.
La gente il lavoro lo riprende. Questi ragazzi la maturità la vivono una volta sola. La terza liceo anche. Chi gliela ridà la seconda media? Chi? Gli anni universitari non tornano. E se tornano, non saranno mai come quando eri spensierata e allegra e finito un esame ne preparavi un altro e gioivi per averlo dato e la settimana dopo giocavi a fare cazzeggio. Se lavoravi era cazzeggio pure quello. Perché diciamocelo qua. Quanto dura è stata studiare. Mettersi sopra i libri. I caffè, le virgole, gli evidenziatori. Le matite. La notte fonda. Il manuale di diritto civile che non molla. Quanto dura é stata portare a casa una laurea. Il giorno della mia, portavo una tesi sul confine tra diritto di cronaca e riservatezza, cominciai a parlare del processo Mose, sul diritto dovere di noi giornalisti di informare, e incontrai pure uno degli avvocati difensori. Se uno prova non ci riesce.
Quanto dura è stata seguire le lezioni, preparare gli esami, lavorare, seguire i morosi.
Non è colpa nostra se è arrivato il virus. Certo. Almeno fino a che non riusciranno a dimostrare il contrario e farci sentire in colpa.
È colpa nostra esserci dimenticati dei ragazzi. Averli lasciati in balia di se stessi.
Di tutte le colpe di cui ve ne siete lavate le mani, questa, questa almeno siate onesti.
Su questa non potete ancora starvene zitti.

#sbetti

#Coronavirus

#Storie2020

Andate in pace

La messa è finita. Andate in pace.
Rendiamo grazie a.
Zitti per carità. Non parlate. Non dite niente. State zitti. Nessun grazie a Dio. Nessun segno della croce. Nessun amen. Nessun pollice sul mento. Nessuna elemosina. Nessun tormento da confessare. Solo all’aria aperta. Nessun canto. Nessun’ ostia. A Vicenza si sono inventati lo spara ostie. Praticamente un marchingegno che ti punta dritta l’ostia anziché fartela ingoiare in bocca dal parroco.
Nessun ostia insomma. Nessuno scambio della pace. La pace sia con Voi.
Con Noi. La pace sia con tutti.
Allora scusate.
Tra le varie regole, dettate dai professoroni espertoni delle 284 task force, che dovremmo seguire a partire da lunedì, mi chiedo chi mai avrà la maniacalità di impararle tutte quante e riuscire a metterle in pratica nell’esatto istante in cui devono essere applicate, anzi meglio un minuto prima perché 50 secondi dopo potrebbe essere già troppo tardi. Perché a volte basta il buon senso forse. Insomma le regole fanno così.
Praticamente una corsa a ostacoli, dove se sbagli sei fottuto, una specie di campo minato, di quei percorsi a raggi infrarossi dove c’è la donna vestita di nero che tenta di non far scattare gli allarmi di qualche museo. Per quanto riguarda il mare addio ai carnai puttanai e ingorghi odorosi e sudosi sotto il sole nell’attesa di un bicchiere di ghiaccio che paghi la bellezza di dieci euro e cinquanta. Niente consumazioni al banco. Al vostro ingresso allo stabilimento balneare ci sarà un Covid manager che vi guiderà verso la triste corsa a ostacoli. Si accerterà che poggiate il culo sullo sdraio e da lì non vi dovrete più muovere fino alle sette di sera. Potete fare le lucertole. Cioè a seconda di come ruota il sole le donne possono girare il sedere.
A Venezia poi, il patriarca Moraglia invece ha dettato regole ferree per la riprese delle messe. I fedeli dovranno stare distanti un metro. E fin qui tutto ok. Ogni fedele dovrà indossare la mascherina. Ok. In chiesa si entra da una parte e si esce dall’altra. Bollini ai banchi per far vedere quelli dove puoi poggiare il culo e quelli invece dove non ti puoi sedere sennò salti per aria. Niente acqua sulle acque santiere. Niente libri dei canti. Niente coro. Si sta tutti zitti muti. Vietato quasi pregare. Niente confessionale. Se proprio hai tradito il marito prendi il parroco e glielo dici all’aperto. Che tanto non cambia un cazzo. Sempre le corna tuo marito porta.
Niente strette di mano. Altro che scambiatevi un segno di pace. Scambiatevi uno sguardo. Nemmeno. Tutti giù. Testa bassa. Non respirate. Solo il parroco può dire messa. I fedeli stanno ad ascoltare. Niente tende. Porte aperte. Disinfettare i microfoni. Ovviamente.
La messa non ha inizio se non ci stanno alle porte i controllori. Due specie di steward che controllano chi entra e chi esce.
Idem per ristoranti e bar. Distanziamento di quattro metri. Pure cinque. Entri con la mascherina. E fin qui ok. Niente menù alla carta. Ci si siede al tavolo. In uno slalom di guanti disinfettanti mascherine sedili sanificati santificati sacchi ai piedi. Plexiglas davanti a tua moglie con cui hai dormito la sera prima in un turbine di ormoni messi in quarantena. Poi ancora si va in bagno. Uno alla volta. Ci si lava le mani. Ci si disinfetta. Addio coppiette che trombano nei bagni. Si torna al proprio posto. Addio aperitivi ai banchi. Finalmente meno maiali in circolazione. Si fa attenzione che al vicino non vada di traverso uno stuzzichino ed esploda in un concerto di tosse e scatarramento, si sta attendi a dove si mette i piedi, le mani, si sta in silenzio, non si ride, non si scherza.
Quando si va via si paga senza contatto, solo con carta, il cappotto se andremo avanti con l’epidemia sarà avvolto in un sacco di nylon che verrà prontamente restituito al proprietario e sarà la stessa cosa se andate a farvi i capelli o le unghie dei piedi.
Niente più cappotti da macchine in seconda fila, zaini, zainetti, borse lanciate e lasciate per terra. Tutto dovrà essere repertato come al Ris e appositamente custodito in un sacchetto di nylon. Poi se state sotto al phon e volete parlare, vietato con i bigodini in testa farsi i cazzi degli altri.
Per una volta sarete costretti a farvi i vostri.
E allora sì andate in pace.
Amen.
#sbetti
#Coronavirus
#Storie2020

Dovete stare zitti

Ieri mattina sono scesa in piazza per prendermi il caffè. Mi sono accesa una sigaretta e mi sono messa lì. Tra una rassegna stampa e una telefonata. Volevo ascoltare il rumore dell’acqua. Il canto del vento. Il rumore del silenzio. Parlano tutti in questi giorni, tutti. E io voglio sentire il silenzio. Il silenzio che fa emergere il rumore di quell’Italia che riparte, di quella sirena della nave che si rimette in mare, di quel fischio del treno che torna a correre, di quel clacson dell’auto di quell’automobilista incazzato.
Per una volta dovete stare zitti. Zitti. Non dovete parlare.
Anche chi non ha un cazzo da dire in questi giorni parla. Parla per sentito dire, parla con le opinioni degli altri, parla alla ricerca di like, di followers, di condivisioni. Di quelle condivisioni che tanto il giorno dopo se ne sono fottuti tutti, perché non fai in tempo a farne una che poi ce ne sta un’altra, un’altra e un’altra ancora. In questo mondo liquido così fluido e ingombrante dove tutto passa ma niente rimane.
Vedi oggi.
Ho fatto un corso online. Una volta avevi i manuali. Le dispense. Sottolineavi, se una cosa volevi riguardatela te la potevi andare a vedere. Rimaneva lì con te. Sempre a disposizione. Sapevi esattamente dove l’avevi letta se in basso in alto in fondo alla pagina. Adesso. Adesso ti addestrano. Adesso ti vogliono come vogliono loro, con una quantità industriale di nozioni in testa dove non ti rimane nulla nemmeno la buccia della matita. Un sapere fuggevole, sfuggente, mancante, con enormi lacune. In questo mondo dove la cultura e l’informazione vengono gettati in pasto ai pesce cani che ne triturano l’anima, non hanno rispetto, non ne riconoscono il valore. I giornalisti sono diventati cialtroni e poi basta il primo beccafico che fa un video e a seconda di dove tiri il vento tutti condividono. Oggi un medico mi ha detto che se domani lui dicesse che un limone nel culo elimina il Covid, probabilmente domani qualcuno camminerebbe con un limone nel culo.
Tutti che fanno baccano, tutti che parlano e non dicono niente, tutti che fanno confusione, casino, cinguettano, cicalano, twittano. E allora voglio sentire il silenzio. Non quello a cui ci hanno costretto per due mesi. Quello era ansia, angoscia, disperazione, sottomissione. Voglio sentire il silenzio della gente cosciente, della cultura, della bellezza, dell’arte, del buon senso, voglio sentire la raffinatezza dell’amicizia, dei sorrisi con gli occhi, dei baci, degli abbracci, voglio sentire lo sciabordare del lavoro. Voglio ascoltare il rumore del mare. Il canto del vento. Voglio sentire il rumore delle ruote delle auto sull’asfalto, voglio sentire il rombo delle moto, voglio sentire l’elevarsi dei deltaplani, il decollare degli aerei. Quanto abbiamo voluto il silenzio prima di questo maledetto Coronavirus e ora che ce l’abbiamo avuto vogliamo il rumore. La prima volta che qui in Veneto di fatto era finito il lockdown, due settimane fa, la mattina mi sono svegliata, ho aperto la finestra e ho sentito subito il rumore di un motore, un camion credo. L’ho anche scritto nel pezzo. Non mi pareva vero.
Il rumore era diventato un piacere. Il silenzio era diventato un’ossessione. Martellante. Sempre quella. Spaccava la testa. Tintinnava i timpani. Sbrecciava l’anima. Io adesso voglio sentire il rumore. E voglio sentire il silenzio di chi parla e non dovrebbe parlare.
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Coronavirus: stiamo pagando quello che ci hanno tenuto nascosto

Dal diario di Facebook, 22 marzo 1.33

E se avessimo sbagliato tutto? Questo non è un virus. Questo è uno spietato assassino che sceglie le sue vittime. Le sceglie con cura. Le isola. Le fa ammalare. Le fa morire. Per sceglierle però si serve della gente sana, dei portatori, degli asintomatici, metteteci pure i runner come li chiamate voi che scrivete qual è con l’apostrofo e non usate un congiuntivo a pagarlo oro. Così in un batter d’occhio ci tiene sotto scacco tutti. Quelli sani perché potrebbero infettarsi e infettare. E quelli malati perché se non sono infettati li infetta.
Questo virus sta portando via molte persone. Molte persone deboli. Anziane. Malate. Sta falciando un’intera fetta di popolazione e soprattutto sta colpendo sempre la stessa zona. Solo in Lombardia oggi 546 morti. Su un totale di 793.
Stiamo pagando dei ritardi. Del Governo cinese. E i nostri. Stiamo pagando a caro prezzo quello che non ci hanno voluto dire. E forse i focolai andavano arginati prima. Le regioni come ha sempre invocato il governatore della Lombardia andavano chiuse prima.
A Vo’Euganeo, su 83 positivi ne sono morti 2. Uno di 77 e uno di 67. Tutti e due con patologie. Quindi in teoria se il virus non incontra malati da estirpare, muore. Se non incontra cellule malate non si riproduce. Se non incontra superfici con i buchi, si schianta, torna a casa.
L’altro ieri l’Iss ha dichiarato che su 353 cartelle esaminate, solo 3 sono morti solo per Coronavirus. Solo per Coronavirus. Gli altri avevano tutti malattie pregresse.
I tre invece stavano bene. Hanno contratto il virus e sono morti.
Come i 300 all’anno che muoiono per influenza. E non 8 mila come molti continuano a dire. Mi sono studiata tutti i dati. Sono 300 che muoiono solo – solo – solo per influenza. Gli 8 mila o i 12 mila si raggiungono con le varie complicazioni.
Oggi esce un mio pezzo su questo.
Ma io ho la sensazione che questa cosa ci sia sfuggita di mano. E ora sembra che ovunque ci sia il caos.
Questo assassino bastardo si sta portando via una parte di storia che andava protetta e salvaguardata, ma se gli ospedali non ce la fanno diventa difficile.
Diventa enormemente difficile lavorare in condizioni di carenza. Quando si credeva che la sanità pubblica non dovesse essere finanziata, e ora è l’unica che deve scendere in campo.
Allora io credo che non ci sia alcun complotto sotto, sarei folle, e provo profonda rabbia e profondo disprezzo per chi crede questo, perché non posso nemmeno lontanamente pensare che si scherzi con la vita e la morte. Ma vorrei solo provare a riuscire a vedere il bastone del salto in lungo che anziché piegarsi su se stesso torni dritto. Forse stiamo perdendo il senso. Le proporzioni. L’isolamento non riesce a farci isolare le situazioni e diventa tutto un caos infernale.
Perché stasera prima della diretta di Conte, guardavo quei mezzi militari correre sull’asfalto con dentro le bare.
E non ce la faccio. Non posso pensare che ci siano camion dei militari che portano via i morti. Non lo posso pensare.
Ci deve essere una soluzione a tutto questo.
Ma bisogna trovarla e in fretta.
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Fase 2: cosa ci è “consentito” fare. Non si è capito

Voi avete problemi seri. Gli psicologi servono a voi. Non a noi.
Perché quindi non ho capito esattamente cosa ci è “consentito” fare, ma poco importa. Sono già abbastanza schifata. Insomma chi possiamo andare a trovare? Tutti e nessuno. Secondo il Dpcm i coniugi. I partner. I conviventi. Non si capisce bene se possiamo andare a trovarli dal bagno alla cucina dato che convivono con noi. Le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo. Anche qui “in claris non fit interpretatio” va a farsi na cippa. I parenti fino al sesto grado. Quindi i figli dei figli dei figliastri dei figli dei figliastri, ma si attendono chiarimenti dal governo; i fidanzati, purché siano “legati da uno stabile legame affettivo”, anche qui non si capisce bene, perché mettiate che io abbia incontrato l’uomo della mia vita negli ultimi tre mesi, quel legame è classificabile giuridicamente parlando in una ottica di buon senso “stabile legame affettivo?”. Chi lo decide? Il poliziotto? Il carabiniere? Che documento devo portare? I selfie fatti al ristorante prima che chiudessero? O le videochiamate su whatsapp perché sono quattro mesi che non lo vedo? Non ho capito. Attendo chiarimenti dal governo. Poi posso andare a mangiare dalla nonna? Sì, a patto che le stai distante, giustamente, ma le riunioni di famiglia sono assolutamente vietate. E come fanno a controllare le riunioni di famiglia? Cioè se devo prendere delle decisioni con i miei e ci troviamo nel salotto dei miei genitori di 60 metri quadri, praticamente un appartamento normale e siamo in quattro, ossia ognuno ha 15 metri quadri a testa dove far uscire l’aria e parlare la bocca, può bastare? Non ho capito. Il governo chiarisca. E’ possibile organizzare un party? No assolutamente no. I video party invece per far vedere quanto belli siamo su Facebook, ecco bè quelli sì. Poi vietate le visite agli amici. Ho amici che mi conoscono meglio di me stessa. Dove mi sento protetta anche se dormo a fianco nel deserto per quattordici ore di seguito, che non me la metterebbero mai nel culo, ma non li posso vedere. Per vederlo dovrei dire all’amico: “tagliati le gomme dell’auto”, così ti vengo a prendere e sali dietro perché c’è un motivo di necessità e urgenza. Invece posso fare sport. No di squadra ovviamente. Posso andare in tram e in bus, ma meglio evitare. Graditi i 200 euro dei comuni per comprarmi una bici. Posso ritirare il cibo e mangiarlo appena dentro al cancello di casa, oggi installo una tenda in giardino per creare un angolo ristogarden. Non posso fare shopping. Tranne quello online, ma anche lì state attenti. E non posso dormire nella mia casa al mare. Cioè praticamente se dopo essere andata nella mia casa, ed essermi smazzata tutto il giorno per sistemare gli intonaci e mettere su le impalcature per la manutenzione, e sono stanca morta, il governo mi dice che cazzo, porca puttana, non posso dormire nella casa!!! Mi devo mettere in auto e se mi viene sonno, gettarmi la bottiglia dell’acqua addosso e se proprio non funziona.
C’è sempre il parcheggio dell’autogrill. Comodo. Efficace. Pulito.
Ci puoi pure fare pipì.

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Coronavirus: comincio a vedere cose che non mi piacciono

Dal diario di Facebook, 21 marzo 16.33

Comincio a vedere cose che non mi piacciono. Questi che vedete qui sono due ragazzini. E uno è un uomo in divisa. Ora i ragazzini stavano sdraiati al parco. Gli uomini in divisa sono arrivati e hanno fatto svuotare loro le tasche. Forse credevano avessero qualcosa. Che poteva anche essere. Ma il punto è che i ragazzini lì non ci potevano stare.
Ora scusate.
Ma mai come in questo periodo ringrazio la mia professoressa di storia del liceo, tale Francesca Benadusi, per avermi fatto studiare fino alla nausea le letture di storia. Cioè lei non si limitava soltanto a spiegare la storia e farti imparare le date e chi attaccava cosa e come e perché e quanti morti. No.
Lei andava oltre.
Ogni sabato ti imponeva di studiare una lettura di storia per il lunedì, così io alla domenica anziché limonare col mio moroso dell’epoca, me la passavo a studiare e fare l’analisi di letture di storia. Ora queste letture erano testimonianze. Storie. Racconti. Aneddoti di vite vissute in prima linea. Al fronte. Di ritorno dalla guerra. Stalin. Le purghe. Il controllo del pensiero. Lo Stato di Polizia. I sequestri. Le perquisizioni.
Ecco. E allora a me questo clima non piace per niente. Con oltre un milione di controllati. E oltre 61 mila denunciati.
Perché tutti dobbiamo rispettare le regole. Il solo modo per uccidere il virus, prima che ammazzi noi, è rimanere a casa. Tutti.
Ma i destinatari diretti di tali provvedimenti così restrittivi, perché ci sono anche quelli indiretti, che sono quelli che tengono alla propria salute e a quella degli altri, e non avevano di certo bisogno di un provvedimento del pr (premier) Conte per salvaguardare e salvaguardarsi; ecco i destinatari di tali provvedimenti così restrittivi sono quelli che ci hanno portato alla più grande e grave limitazione delle libertà costituzionali garantite dalla nostra Costituzione che, per gli ignoranti, è datata 1947. In vigore dal 1 gennaio 1948.
Sono quelli a cui dici di non uscire per andare al centro commerciale. E vanno al ristorante. Sono quelli a cui chiudi i bar. E vanno al parco. Sono quelli a cui chiudi i parchi e vanno al mare. Sono quelli che si ammassano. Che vanno in giro in gruppo. Che si riuniscono tra mamme e portano i figli al parco. Sono i ragazzi generazione testa bassa che la rivoluzione non ce l’hanno nemmeno tra le coperte di casa.
Sono quelli che si amalgamano gli uni con gli altri. Quelli che si uniformano. Quelli che fanno le cose insieme tutti quanti.
Sono quelli che si ammassano sopra i banchi degli aperitivi e poi vanno a casa rotolando. Sono quelli che vanno a prendere da mangiare quattro volte al giorno.
Solo che tutto questo. Che suona come ribellione. Della serie me ne frego di quello che dice il Governo. In realtà è la più grave forma di soggiogamento. E sudditanza. In fila come tanti caproni.
Perché questo comporta che fai la guerra con la vita degli altri. Perché questo comporta che non puoi uscire nemmeno per andare a prendere i quaderni, i libri, gli evidenziatori, un giornale, le sigarette. Tutte cose che abbiamo ottenuto col tempo, arricchite dal benessere che ci ha portato a non mangiare solo pasta e fagioli ma a poter godere anche di altri beni.
E questo comporta l’aumento del martellare dentro le nostre teste di emergenza. Coronavirus. Stare. A. Casa. Distanti. Un metro. Lavatevi. Non respirate. Non pregate. Non fumate.
Come si traduce tutto questo?
Con le librerie chiuse. Con la musica che non suona se non nei davanzali per far vedere che fate qualcosa. Con le chiese che non ci puoi pregare. Con le edicole che faticano a vendere. Con il non darti un giornale perché non è ritenuto un bene vitale. Con il non poter uscire per passeggiare. Con il non poter comprare qualcosa che vada oltre la sopravvivenza.
E questo perché anziché farci furbi. Ci siamo ammassati come pecorelle. Come un grande gregge unti di poter sconfiggere il mondo.
Ecco. Tutto questo.
Tutto questo rispecchia molto le mie letture di storia del liceo. Di quando anziché baciare il mio moroso dell’epoca, passavo le domeniche a leggere e studiare. Meno male.
Idem adesso. Dove anziché limonare dobbiamo stare distanti.
Ma la cosa che più mi preoccupa è che, quello che vedo ora, non è molto lontano da quelle letture di storia che mi impedivano di limonare.
E quindi credo che se i ragazzini studiassero di più la storia, magari anche gli adulti che fino all’altro giorno si sono sentiti onnipotenti, forse capirebbero.
Capirebbero che quando arrivi a rispettare una regola solo perché qualcuno te la impone è già tardi.
In questo mondo dove tutti hanno diritti e nessuno ha doveri.
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Questa sera sono rientrata nel mio appartamento

Dal diario di Facebook, 21 marzo 1.33

Questa sera sono rientrata nel mio appartamento. Ho acceso le luci. Soffuse. Ho acceso la tv. Sul 4. Ultimamente la Rai non mi va più. Forse ho dimenticato di pagare il canone. Mi sono lavata le mani. Ho aperto l’acqua per farmi la doccia. E mi sono accesa una sigaretta. Nel frattempo ho aperto il frigo. Poco. Ho aperto il congelatore. Tanto. E ho tirato fuori il sacchetto degli spinaci congelati. L’ho aperto. Ho tirato fuori due cubetti di spinaci attaccati. Loro possono. Loro possono attaccarsi.
Quando sono lì che cerco di staccare gli spianaci innamorati che alla tv riparte la solita musichetta. Quella che ci ricorda che siamo in guerra. Che dobbiamo prestare attenzione. Che dobbiamo stare attenti. Allora mi volto. Socchiudo la porta del congelatore e leggo: “esci di casa solo per estreme necessità”, “non stare a meno di un metro dall’altro”, “lavati spesso le mani”. Così desolata. Ho chiuso lo sportello e ho pensato. Certo che chi l’avrebbe mai detto che una sera di marzo, nella mia vita, mi sarei ritrovata a vivere una situazione del genere.
A sentirmi dire di stare a un metro di distanza da una qualunque persona.
Un metro. È lo Stato che te lo impone.
Chi l’avrebbe mai detto che avrei guardato desolata il sacchetto degli spinaci riponendolo dentro al congelatore come se fossero le provviste. Per una guerra. Chi l’avrebbe mai detto con un mondo che fino a un mese fa era là fuori. Un mese. Un mese da quel 21 febbraio. Da quando cominciò tutto. Ero in auto. Stavo correndo. Quando su whatsapp mi arrivò lo screen dell’edizione straordinaria del tg di Antenna Tre. Primi due casi positivi di Coronavirus in Veneto, recitava.
Così cominciai. Così iniziai a scrivere. Andai in zona rossa. Ebbi paura. La paura ti salva. Ma mai nessuno avrebbe mai pensato di raggiungere quello che abbiamo raggiunto adesso. Più morti delle Torri Gemelle. Più morti di qualche guerra. Mezzi militari che accompagnano le bare. Salme che non ci stanno in chiesa. Vivi che muoiono da soli. Morti che non li puoi vedere. Anziani ricoverati nei corridoi. Medici oberati. Stremati. Sputano sangue con in mano le vite.
Strade deserte. Piazze vuote. Saracinesche abbassate. Paesi blindati. Aeroporti chiusi. Librerie anche. Scuole. Chiese. Negozi di dischi. Perfino le edicole stentiamo a trovare aperte. Economia in ginocchio. Aziende deserte. Commesse annullate. Licenziamenti. Casse integrazioni.
Ecco e allora se qualcuno un mese fa mi avesse detto che avremo visto tutto questo, avrei stentato a crederci. Sì insomma quando il virus era in Cina nessuno aveva immaginato a come ci si sentiva.
La Cina sta in quarantena ti dicevano mostrando alla tv qualche immagine.
Ma lontanamente. Mai nemmeno lontanamente parlando, una persona avrebbe pensato a tutto questo.
Ci ha preso di lato. Ci ha steso a terra. Per un attimo pensavamo di potercela fare subito ripartendo. Ma il virus è lento.
È lungo. Salta soltanto veloce.
E ama le persone.
Poi. Poi mi è venuto in mente che avevo l’acqua accesa.
Ho abbassato la televisione. Mi sono spogliata. Mi sono infilata in doccia. E quando sono uscita ho sentito un rumore strano.
Ho abbassato la tv. Era un elicottero.
Controllano ho pensato. Controllano.
#sbetti