Il messaggio sbagliato dell’ultimo appuntamento

La Ragione – 13 giugno 2023.


Il consiglio dato dal pubblico ministero Letizia Mannella sul caso di Giulia Tramontano, la ragazza di Senago (Milano) incinta al settimo mese e ammazzata dal suo compagno, rischia di far arrivare un messaggio sbagliato. Ossia. La pm ha consigliato alla donne di non andare all’ultimo appuntamento. Ma quale sarebbe esattamente l’ultimo appuntamento? Questo consiglio, seppure nella sua saggezza, è pericoloso perché sposta l’asse della colpevolezza sulle donne. La colpa sarebbe di quelle che ci sono andate all’ultimo appuntamento.

Ora il problema, di per sé, non è l’ultimo appuntamento. Il tormento è che i rapporti sono sempre più fragili. Si fondano su personalità problematiche. Ci rapportiamo, a volte, con persone così talmente deboli e concentrate solo su se stesse che le volontà dell’altro diverso da me, passano in secondo piano. Questo accade sia da parte degli uomini che delle donne. Il caso di Giulia Tramontano è di una bruttezza immonda. Di una brutalità efferata. Ma fortunatamente non si chiamano tutti Alessandro Impagnatiello. Ci sono violenze che si ripetono nel tempo, largamente e consapevolmente sottaciute. Come le aggressioni delle donne verso gli uomini. Di queste non si parla minimamente. “Nel 2021 – scrive l’Istat – gli omicidi risultano in lieve calo, ne sono stati commessi 303 (315 nel 2019, 286 nel 2020). In 184 casi le vittime sono uomini e in 119 sono donne. Si arresta il calo degli omicidi di donne e sono in lieve aumento quelli di uomini, che erano invece diminuiti nel 2020 (170)”. Letto così uno pensa quindi che gli omicidi delle donne siano in calo. La differenza però è che quei 184 uomini sono stati uccisi non solo da donne ma anche da altrettanti uomini. E infatti poi l’Istat continua. “Le vittime uccise in una relazione di coppia o in famiglia sono 139 (45,9% del totale), 39 uomini e 100 donne. Il 58,8% delle donne è vittima di un partner o ex partner”. Questo a prova del fatto che ormai la violenza in famiglia dilaga ovunque. Tra le violenze psicologiche denunciate dall’89% degli uomini-padri, al primo posto figurano le azioni o la minaccia di azioni finalizzate alla sottrazione dei figli in seguito alla separazione e non mancano episodi di stalking. Non solo, da parte delle donne è molto diffuso il ricatto economico. Quando la vittima è la donna, se denuncia non trova tutela, protezione. Il problema è quel famoso: “dobbiamo coglierlo con le mani nel sacco”, dove in genere quando lo colgono significa che dentro al sacco ci sei finita tu.Dinanzi a questi meccanismi perversi, non sarà un mancato appuntamento a risolvere i problemi. Se qualcuno vuole farti fuori prima o poi ti raggiunge. Uomo o donna che sia.

Serenella Bettin

A scuola guida su TikTok

La Ragione – 4 luglio 2023

TikTok. Toc toc? Ci siete. Sì, fino a qualche settimana fa in effetti c’erano gli studenti che si acquartieravano davanti le scuole nell’attesa di poter entrare. I telefonini tra le mani e quella flemma inconsapevolezza di avere in mano il mondo. Non lo sanno. Non se ne rendono conto. Non sanno come usarlo quello stupido aggeggio che se lo lasci lì rimane fermo, immobile, si scarica e non dice niente.

I ragazzi lo usano troppo e male quel gingillo divenuto un prolungamento del braccio, sono ingenui, ciechi, alcuni un po’ grulli e la colpa è data anche dal sovranismo e nozionismo digitale che si espande e dilaga nelle nostre scuole. Come un fiume in piena che straripa si prende i meandri delle giovani menti in tempesta, le asseconda, le culla, le arena, le frena, le rende flebili, molli, assopite, con gli occhi fuori dalla testa accecati dallo schermo e non dalla bellezza della vita.

E ora, lo smartphone in alcune scuole diventa uno strumento di didattica, uno strumento per insegnare, per apprendere, anzi ancora prima, per verificare di aver appreso.

Ma è un bene? Il mondo viaggia lesto, i ragazzi sono frenetici, inquieti, corrono come culturisti sopra i tappeti mobili. 

Lo smartphone è efficiente, efficace, se babbo e mammà spendono qualche soldo in più, ha anche una buona memoria – cosa che i ragazzi grazie all’aggeggio hanno perso – ha una buona capacità interattiva, di comunicazione, in tempo reale sei in grado di connetterti con l’amico al di là dell’Atlantico o entrare nel portale del Congresso degli Stati Uniti o nel negozio di cosmesi sotto casa che è tanto carino e ti porta i prodotti fino in camera. Ma da qui a fare lezione su TikTok ce ne passa. In una scuola veneta, il preside dell’istituto comprensivo di Lozzo Atestino, provincia di Padova, ha raccontato l’istruzione 4.0 finanzata dal Pnrr. Ci sarà un’aula di video making per creare pillole delle materie scolastiche su TikTok e una sala incisione.

E che dire dell’allarme lanciato da Annalisa Ferrarini, segretaria provinciale Unasca (Unione nazionale autoscuole) Treviso perché i giovani seguono le lezioni di scuola guida, teoria si intende, su TikTok, anzichè all’autoscuola? Per carità non diciamo di rievocare il misoneismo o il paleolitico, ma siamo sicuri che questa sia la strada giusta? Non è che forse si possa pensare di tornare alla carta e alla penna? Sui social è pieno di mental coach che dicono che devi vivere sentendo il corpo, allenando la mente, con solo l’essenziale. Mettiamolo in pratica. L’uomo ha due gambe. Due braccia. Due occhi. Un cuore. Quello che nessuna intelligenza artificiale potrà mai sostituire.

Serenella Bettin

Il Mose americano

È più grande del Mose italiano. La progettazione vale 750 milioni di dollari. La partita finale si aggira intorno ai 45 miliardi di dollari. E sarà pronto in tre anni. È il Mose americano. Quello che gli statunitensi ci copiano. E per farlo – mica scemi – hanno ingaggiato un ingegnere italiano.

Lui si chiama Massimo Ciarla. Romano, dal 1995 vive a Washington. Ingegnere civile idraulico, laureato alla Sapienza di Roma, appartiene alla quella schiera di cervelli che l’Italia sforna, prepara e forma e poi li fa scappare all’estero. Presidente e amministratore delegato della Tiber International Group Inc e direttore della MC5 Consulting Group Inc che si occupa della difesa delle coste e di opere marittime, Ciarla ha partecipato alla realizzazione del Mose italiano e ora partecipa all’individuazione dei vari progetti che tra sette, otto mesi si aggiudicheranno la partita finale.

L’idea è quella di un colosso di dighe mobili che mira a proteggere Houston, quella grande metropoli in Texas che si estende fino alla baia di Galveston. Qui ci abitano milioni di persone.

Dopo aver passato in rassegna le dighe dei Paesi Bassi, la diga sul Tamigi, quella di San Pietroburgo, l’idea del Mose al governo americano è piaciuta assai.

Soprattutto perché il meccanismo delle barriere è a scomparsa. Non si vede.

Un mostro marino, quello veneziano, con 78 paratie in metallo lunghe fino a 29 metri e collocate sul fondale delle tre bocche di porto: Lido, Malamocco e Chioggia. Le paratoie, incernierate in cassoni e alte come palazzi di quattro piani, sono adagiate sul fondo del canale. Non si vedono e sono piene di acqua di mare. Quando è prevista l’alta marea vengono svuotate dell’acqua e riempite di aria compressa che le fa emergere. A mano a mano che l’acqua esce, le barriere salgono. Una volta emerse dividono il mare dalla laguna, proteggendola dalle maree. Passata la marea, si svuotano dell’aria, si riempiono d’acqua e tornano ad adagiarsi sul fondale. Come una balena, che torna a dormire.

Solo che in Italia, tra scandali e altro, ci hanno messo vent’anni per inaugurare l’opera. Negli Stati Uniti contano per il 2028 di essere pronti. Anche perché non c’è tempo da perdere. “Il mare si è alzato di tre metri e mezzo – spiega Ciarla alla Ragione – il problema qui sono gli uragani. L’Uragano Katrina con oltre 1800 morti, nel 2005, ha segnato un punto di svolta per la consapevolezza dei cambiamenti climatici. Lì il mare si alzò di otto metri e mezzo, un palazzo di tre piani. Il 70% della popolazione mondiale vive lungo le coste, è chiaro che bisogna proteggerle. Il progetto qui è simile a quello veneziano. Il concetto è identico: si tratta di chiudere l’entrata dell’acqua nel golfo ed evitare così che possa entrare nella baia di Houston. In America l’hanno capito. Del resto, immagini una pentola d’acqua portata a ebollizione, quando bolle cosa fa? L’acqua esce. Come il mare. Comunque si calcola di finire i lavori per il 2027. Gli americani sono molto più programmatici, una volta messo giù un programma lo rispettano, in Italia c’è sempre qualche problema. Il Mose appunto, doveva essere finito 20 anni fa”. 

Serenella Bettin 


La Ragione, sabato 11 marzo 2023

Mancano lavoratori. Pochi giovani. L’asparago sparirà dai nostri menù

Ho passato una giornata con chi lavora la terra. Probabilmente l’asparago non sarà più tra i nostri piatti. Alcune aziende agricole lo stanno eliminando perché è un ortaggio troppo faticoso. Richiede fatica. Voglia. Costanza.
La raccolta si fa uno a uno, stando accovacciati per terra, metro dopo metro, passo dopo passo, riga dopo riga. Un mestiere faticoso che segue gli andamenti del tempo. E in natura il tempo non lo puoi ammanettate. Non lo puoi ingabbiare. Lo devi lasciar scorrere. Con i suoi sfoghi e le intemperie. Con i suoi doni e le sue rovine…
Un mestiere che vede sempre più stranieri. Nelle aziende dove sono andata ho visto molti marocchini, tunisini, bengalesi. Molti giovani si stanno (ri)avvicinando a questo mondo, le braccia Rubate, diventano braccia Restituite.
L’Istat nel 7* censimento generale dell’Agricoltura calcola che i ragazzi fino a 29 anni a capo di una azienda agricola sono 18.923; 6.399 le donne.
Ma da qui a cantar vittoria ce ne passa. Perché le realtà giovanili rimangono sempre troppo poche. L’Ue sta intervenendo con finanziamenti. Nel Pac 2023- 2027 l’obiettivo è quello di consentire il ricambio generazionale in un settore che ha un forte bisogno di ragazzi e ragazze. Non di mercenari.
Servono voglia, passione.
Serve quella famosa fiamma negli occhi…
il mio reportage su La Ragione

Pezzo uscito su la Ragione il 26 maggio 2023

Massimo controlla che sia tutto a posto. La spia sta a indicare che la doppia trazione è inserita. Salgo con lui sopra il trattore. Cinture allacciate. Doppio sedile. Radio. Se hai freddo c’è anche il riscaldamento. Dietro di noi, sul rimorchio ci sono sei ragazzi. Tutti stranieri. Marocchini. Romeni. Stanno seduti in riga composti. Il loro lavoro consiste nel pulire le piantine di cappuccio. Una per una. Poi ci pensa la macchina a piantarle a terra. Riga dopo riga. Metro dopo metro. Il lavoro procede ai ritmi della natura. Funziona così in agricoltura. Il tempo non lo puoi forzare. Non lo puoi ammanettare. Lo devi lasciare scorrere. Con i suoi sfoghi e le intemperie. Con i suoi doni e le sue rovine. Damiano Bellia, 34 anni, conduce questa azienda di famiglia a Scorzè nel veneziano, insieme al fratello e al padre. Sa bene cosa voglia dire svegliarsi la mattina alle cinque e rincasare la sera quando fuori è buio. Sa bene cosa voglia dire fare fatica. Prendi la raccolta degli asparagi per esempio. Vanno raccolti uno a uno, centimetro dopo centimetro. “Stiamo eliminando questi ortaggi – racconta a La Ragione – perché troppo faticosi”. Le file di asparagi che abbiamo davanti in questa immensa distesa di campi sono le ultime della produzione. L’anno prossimo non ci saranno più. “La gente ha ancora in mente l’agricoltura come veniva fatta una volta, ma non è più così”. L’asparago è una di quelle colture dove non ci puoi mettere la tecnologia, l’innovazione. Rimane un’arte. Che se non hai la sapienza nelle mani ti conviene mettere da parte. Damiano la sapienza ce l’ha ma non trova personale che fatichi a 360 gradi. “Ormai l’agricoltura si fa con i macchinari, ed è questo che spinge molti giovani a (ri)avvicinarsi a questo mondo”. Le Bra di questi tempi, infatti, non sono braccia Rubate, sono braccia Restituite. Su una mano tengono la pergamena di laurea. Sull’altra tengono la zappa. L’Istat nel 7* censimento generale dell’Agricoltura calcola che i ragazzi fino a 29 anni a capo di una azienda agricola sono 18.923; 6.399 le donne. Tra i 30 e i 44 anni le aziende gestite da uomini sono 92.854. E quelle gestite da donne 34.131. I titolari, laureati, under 40 sono 20 mila e di questi: 15 mila hanno un titolo non inerente all’agricoltura e 4.700 hanno una laurea specifica. Sempre più università propongono corsi per agronomi o specializzazioni nel settore. Ma da qui a cantar vittoria ce ne passa. Perché le realtà giovanili rimangono sempre troppo poche. L’Ue sta intervenendo con finanziamenti. Nel Pac 2023- 2027 l’obiettivo è quello di consentire il ricambio generazionale in un settore che ha un forte bisogno di ragazzi e ragazze. Non di mercenari. Servono voglia, passione.

Serve quella famosa fiamma negli occhi. Una delle misure è l’acquisto di terreni per i giovani agricoltori a condizioni favorevoli. “Devi avere tanta voglia”, dice Massimo Terzariol. Lui nei campi ci è nato e cresciuto. È maturato come maturano i pomodori al sole. Entro dentro il loro stabilimento. Ci sono una trentina di giovani, uomini, donne. Qualcuno ha portato le paste. Si festeggia un compleanno. Oggi è festa per tutti.

Serenella Bettin

La guerra degli orsi. La guerra agli orsi

Mi sono messa in contatto con il ministro sloveno. Sentite cosa mi ha detto 👇

Su La Ragione.

La guerra agli orsi. La guerra degli orsi. Gli orsi in guerra tra loro. L’uomo anche. È il difficile equilibrio della natura che si scardina, si scombussola, si destabilizza. Gli orsi sono orsi. Gli umani sono uomini. A tratti umani. A tratti no.La vicenda del runner Andrea Papi aggredito in Trentino dall’orsa Jj4 sta rivalutando il rapporto tra la natura e l’uomo, sta infiammando i salotti televisivi, sta facendo berciare il popolo del web e facendo scrivere fiumi di inchiostro. Il presidente del Trentino Maurizio Fugatti ha firmato l’ordinanza di abbattimento dell’orsa che ha aggredito Papi e si è ritrovato gli animalisti sotto casa. L’orso nella regione è stato importato. Un progetto avviato nel 1999 e pagato con i soldi pubblici. A quanto pare fallimentare. Gli orsi si sono riprodotti, ben oltre le aspettative, e ora sono il doppio. Già. Mica sono marionette gli orsi, che dove li metti stanno. Sono esseri viventi, nascono, crescono. Gironzolano e ballonzolano macinando chilometri. Ma soprattutto si riproducono. In Slovenia si sono riprodotti così talmente tanto che il ministero delle Risorse naturali, il 13 aprile scorso, ha deciso di procedere all’abbattimento di 230 orsi bruni. Noi della Ragione ci siamo messi in contatto con il ministro Uroš Brežan. “L’orso bruno – spiega – svolge un ruolo fondamentale nella conservazione della biodiversità in Slovenia”.Ma allora perché intervenire? “Prima di prendere questa decisione, il ministero ha preso in considerazione tutte le altre opzioni per la prevenzione dei conflitti”. Ma “poiché né la rimozione da un’area specifica e il trasferimento in un altro ambiente naturale, né il contenimento in cattività sono opzioni possibili, per un numero così elevato di orsi selvatici, l’abbattimento è stato scelto come unica alternativa disponibile. Lo scopo principale di questa decisione difficile, ma accuratamente e sapientemente ponderata, è stato quello di prevenire gravi danni e di proteggere la salute e la sicurezza umana”. 

La proposta di abbattimento è stata avanzata dal Servizio forestale sloveno e, sembra un paradosso, dall’Istituto per la conservazione della natura. Un ossimoro. Un istituto atto a tutelare la conservazione della specie che propone di abbattere la specie stessa. Eppure, ci spiegano, hanno preso in considerazione il parere di esperti della facoltà di Biotecnica dell’Università di Lubiana. Il professore Klemen Jerina ha spiegato che “con l’abbattimento di quest’anno ci avvicineremo al numero di 800, un obiettivo che garantirebbe una coesistenza gestibile”. Secondo le stime degli esperti, la popolazione degli orsi bruni, nella primavera scorsa, ha raggiunto quasi 1100 esemplari. Ma si sa, gli orsi sono numeri, i morti anche. Vengono riconosciuti grazie ai codici di identificazione. E non hanno manco un nome. L’abbattimento, consentito solo in determinate aree, sarà selettivo, “distribuito per categoria di massa corporea”. “Il ministero, comunque – ci dicono – continuerà ad attuare tutte le misure per la protezione di questa specie, compresa la conservazione del suo habitat”, per favorire “un elevato livello di coesistenza tra orsi bruni e persone”. Sarà mai possibile?

Serenella Bettin

Mi sono fatta sfilare il portafoglio

E guardale. Guardale. Guardale come sono leste. Lestissime. Guardinghe. Feline. Salgo sul pontile davanti la stazione ferroviaria di Venezia, quello da dove partono i vaporetti. Le borseggiatrici, mi hanno detto, stanno tutte qui. Mi fingo una turista. Le vedo con la coda dell’occhio. Saranno sei, sette. Nella tasca destra del cappotto ho messo un portafoglio vuoto. Voglio vedere se provano a sfilarmelo. E infatti. Tempo due nanosecondi: una dà un’occhiata al taccuino che fuoriesce dalla tasca. Felinamente guarda l’altra. L’altra dà un’occhiata al borsello. È un ribalzare di sguardi. Una allunga una mano. E tac.

Mi volto. Il taccuino cade per terra. Le guardo. Chiedo cosa mai stessero facendo. Nel giro di un baleno quattro di loro si coprono il volto, chi il passamontagna, chi il cappuccio, chi il cappello, chi la sciarpa. Si lanciano fuori dal pontile e scompaiono lungo le callette. 

Due di loro riesco a inseguirle. Si fermano, si coprono, non mi parlano. Percorriamo qualche metro, poi poco più distante una pattuglia dei carabinieri.

Accade così a Venezia. Le borseggiatrici attendono i turisti, i pendolari, i lavoratori. Qui funziona così da 30 anni. 

La Onlus Cittadini non Distratti li ha visti nascere le borseggiatrici, i borseggiatori; li ha visti crescere, conosce perfettamente i volti, i luoghi, i segnali. Da quando sono nati i social condividono foto e video che ritraggono questi felini del malaffare. 

Le immagini, molte volte con i volti oscurati, finiscono nella loro pagina Facebook. 

Niente di diverso da quello che fanno negli ultimi anni i Controlli di Vicinato. Squadroni su Facebook e Whatsapp che a qualsiasi ora del giorno e della notte segnalano persone o auto sospette. Il più delle volte sono falsi allarmi. Qui no. Qui il pericolo esiste. 

Sono le stesse forze dell’ordine che non riescono a star dietro a queste persone, “in città sono tantissime e sono tutte straniere”, mi dice una fonte. Il movimento Cittadini Non Distratti ha fatto stampare dei volantini che distribuisce a tutti i turisti che arrivano in laguna. “Ocio al tacuin”, si legge ed è tradotto in tutte le lingue. “Attenzione borseggiatori”, in inglese, francese, tedesco, spagnolo, giapponese, cinese. Una di loro, Monica Poli, per aver sventato un borseggio è stata picchiata. “Da anni chiediamo – dice – che vengano messi dei display sui pontili e sugli autobus”. Ma a proposito, condividere i video è gogna mediatica? “Noi non facciamo la caccia – dice il pittore di piazza Franco Dei Rossi – abbiamo tanta gente che ci avverte. Cerchiamo di far capire che il problema è grosso ed esiste”.

Damiano Gizzi racconta che i ruoli a volte si invertono: sono le borseggiatrici a far loro le foto e a minacciarli. Guardie e ladri. Ladri e guardie. In un gioco che non si arresta. Alcune sono minorenni. Altre sono incinta.

Facciamo un giro. E troviamo una borsa nel covo dove le borseggiatrici lasciano le refurtive ormai spolpate dei valori. Dentro ci sono un’insalata. Un libro. E una soppressa. Qualcuno è rimasto senza pranzo. 

Serenella Bettin

Pezzo uscito su La Ragione, 28 marzo 2023

Chi ha ancora la sapienza nelle mani, in questo svogliato Paese

La Ragione – 9 settembre 2022

Quando aveva sette anni portava da bere ai trullari. I trullari sono i restauratori di trulli. Mosche bianche, personaggi rari, che ogni 200 anni riparano quei caratteristici coni bianchi tipici di Alberobello. Così ha iniziato la sua gavetta. Giuseppe Maffei, oggi 74 anni, è uno degli ultimi tre trullari rimasti. La sua bottega sta in via Duca d’Aosta in centro ad Alberobello, questo groviglio di vicoli tortuosi, scoscesi, ciechi. Un labirinto che sembra un paese fantastico.

Ci sono capitata per caso dentro la sua bottega mentre girovagavo una sera. Dentro balza all’occhio la riproduzione di un trullo scoperto che lascia intravedere come sono fatte queste costruzioni all’interno. Cisterna, focarile, basole, scarde: lui gli elementi del trullo li conosce tutti. Per anni ha insegnato nelle scuole “Architettura dei trulli”, tanto che nel 2010 per la “divulgazione della tecnica del trullo come attività didattica” è stato nominato cavaliere della Repubblica Italiana per il suo costante impegno nei confronti della città e dei suoi abitanti e per la passione che lo lega alla professione artigianale.

Artigianale appunto. “L’artigianato sta morendo – mi dice – il turismo è cambiato. E con questo turismo di massa quello che facevo prima non funziona più”. Lui, infatti, trullaro dall’età di sette anni, la gavetta l’ha fatta con gli zii portando da bere ai trullari più anziani. Poi passato lo scoglio di portare le bottiglie d’acqua, ha iniziato a portare le pietre, e dalle pietre ha iniziato a riparare i trulli. O meglio le chiancarelle, lastre in pietra calcarea tipiche della Puglia. Sono queste che si deteriorano ogni 200 anni. “Col freddo, col gelo, col sole, si rovinano e quindi hanno bisogno di essere restaurate”. Il lavoro del restauro dura dieci quindi anni. Poi Giuseppe si è messo a costruire trulli in miniatura. Erano gli anni 80. “Con l’arrivo del turismo ci siamo inventati questo prodotto. Ora però anche il turismo è cambiato, quello di massa non aiuta”. Oggi i clienti si accontentano dei souvenir prodotti in Cina – ebbene sì, esistono anche questi – a basso costo, compri due paghi uno, a discapito di quelli fatti a mano impastati con le mani di un artigiano.

E infatti. La sua bottega è un caleidoscopio di trulli. Uno ci entra dentro e ne esce ubriaco. Sono belli. Bellissimi. Coccoli. Raffigurano tutta l’arte e la passione instancabile che ha dentro quest’uomo. Ce ne sono di tutti i tipi. Grandi, piccoli, appesi, a coppie, singoli, decorati come presepi, presepetti. Ora la sua attività l’ha trasferita ai figli di 37 e 32 anni. In giro ci sono anche giovani che stanno costruendo nuovi trulli. Ma sono pochi. Saranno circa tre squadre da tre quattro operai. Sono perle rare che ancora mantengono la sapienza nelle mani di questo svogliato Paese.

Serenella Bettin

Agosto 2022 – Alberobello

I due giovani pastori. Niente riscaldamento, “solo coperte”

La Ragione – 8 luglio 2022

Lui si chiama Elay Cerra. Ha 18 anni e viene dal Comune di Valdastico in provincia di Vicenza. L’ho incontrato un giorno per caso, nel mio caotico peregrinare. Mi ha colpito perché assieme a lui vi era un ragazzo di colore e insieme tenevano a bada un gregge di pecore. Un fenomeno sempre più diffuso nei pascoli e nelle campagne. Siccome gli italiani non vogliono più fare alcuni lavori, i pastori e gli agricoltori ricorrono agli immigrati. Isolamento, ambienti duri e orari incerti non hanno invogliato i giovani a seguire le orme dei padri. Pensate che in Abruzzo, ancor prima dell’epidemia da Covid, il 90% dei pastori era straniero. Così quel giorno mi sono fermata. Sono scesa dall’auto e ho chiesto quale fosse la loro storia.

Elay Cerra è figlio di un poliziotto, ha origini calabresi. Il nonno faceva il pastore e lui s’è innamorato di questo lavoro. Poi ha preso con sé un senegalese – sveglio, scaltro, in gamba – che corre dietro alle pecore e le fa pascolare sulla retta via. Si chiama Mouhamed, ha 22 anni e fa il pastore dal 2019. Dopo un passato in fabbrica a Milano ha deciso di vivere in mezzo ai monti.

Li ho incontrati un giorno d’inverno, quando fuori fa freddo e loro svernano. La fatica. Il sudore. Il sacrificio. Il freddo. Il gelo. Lavori che rimangono una chimera, una ipotesi assurda nel panorama italiano dove ci siamo riempiti di dottori laureati su Google. L’arte di imparare un mestiere e di fare poi fatica per guadagnarsi la pagnotta è diventata una roba da sfigati in un mondo di strafottenti che campano sulle spalle dei precari. Elay, che sogna un giorno di avere un gregge di mille pecore, si chiama così perché la madre quando era incinta di lui stava leggendo un libro che aveva un protagonista con quel nome. Il padre ha anche provato a fargli cambiare idea: «Figlio mio, ma dove vai? Chi te lo fa fare?».

Ogni giorno Elay e Mouhamed si mettono in cammino. D’inverno vivono su una roulotte senza riscaldamento («Ci si scalda con le coperte»). Sveglia alle 6.30, colazione con latte e biscotti. E poi via, subito al lavoro. Devono controllare se qualche pecora abbia partorito, se ci siano nuovi agnellini. Poi le portano al pascolo. Cucinano a turno e a mezzogiorno mangiano pasta, carne, pane: «Dipende da cosa abbiamo in dispensa». Quindi ripartono, vanno al pascolo, stanno dietro alle loro pecore e le fanno correre. Mettono la pecorella, quella che non ha l’istinto materno, assieme all’agnello e così si abitua, prendendone l’odore. La sera cenano e si fiondano a letto. Niente televisione. Solo il sottofondo della natura, che ultimamente fa a pugni col mondo.

Di Serenella Bettin

Link 👉 https://laragione.eu/litalia-de-la-ragione/societa/gli-italiani-non-vogliono-piu-fare-i-lavori-manuali/

Disegno di Gerardo Spera apparso sul quotidiano

Mancano stranieri. Ma gli italiani torneranno a raccogliere pomodori 🍅

La Ragione – Martedì 19 luglio 2022

Inutile che ci giriamo attorno. Ci sono tanti lavori che gli italiani non vogliono più fare. Mica da oggi. Da mo’. Si sono convinti che fare il cameriere a Londra sia più chic che farlo in Italia.
Nel Belpaese poi un cameriere è un poveraccio che tira a campare, per cui se gli va bene, gli danno otto euro l’ora per raccogliere su le bucce delle arance degli altri, inumidite degli sputacchi di gente rozza e trozzalona che si affoga nella bolgia di aperitivi gratuiti.


Un medico bravo invece, sempre italiano, è una persona altamente specializzata e preparata a cui diamo ben volentieri un calcio nel culo spedendolo all’estero, dove gli danno ben volentieri oltre a un dignitoso stipendio anche vitto e alloggio.
In quanto se sei bravo, la meritocrazia non è cosa nostra.


Il risultato è la migrazione degli italiani all’estero e l’immigrazione selvaggia nelle nostre coste.
I migranti invece, quelli bravi, quelli che vengono in Italia per lavorare non possono farlo.

Ecco perché 👇

Il mio pezzo su
Su La Ragione

Luigi è costretto a spazzare per terra perché non trova un italiano o un indiano che lo faccia al posto suo. Si sveglia ogni mattina alle cinque. Lavora 16 ore al giorno per cercare di mandare avanti i due ristoranti che ha a Jesolo nel litorale veneto. Quest’anno non trova personale. Non trova nessuno che gli possa dare il cambio e che voglia prendere la scopa in mano. Li chiamano gli introvabili. Un discorso trito e ritrito ma che merita di capirne i germi. Nella sola provincia di Venezia già a maggio scorso mancavano 25 mila lavoratori stagionali. Mancano cuochi camerieri chef. Mancano italiani indiani bengalesi tunisini egiziani marocchini. Se prima della pandemia le “osterie veneziane“ ricevevano quintalate di curriculum a settimana, ora non c’è uno straccio di nessuno che si presenti sulla porta e ti dica: “Mi faccia lavorare. Sono senza lavoro. Sto cercando. Ho bisogno”. “Merito” del reddito di cittadinanza distribuito con notevole clemenza, dei giovani che pretendono di più, del fondoschiena sul divano, del lavoro in nero, o del fatto che durante la pandemia uno dei mestieri più mazziati è stato proprio quello che si consuma all’interno dei locali. Quello di quando la gente si diverte e il tuo lavoro è far divertire gli altri. E del fatto che certi lavori poi gli italiani non li vogliono più fare. Commessi, camerieri, pastori, agricoltori? No grazie. Già a maggio scorso la Coldiretti aveva lanciato un appello per “velocizzare il rilascio dei nulla osta necessari per consentire agli extracomunitari di poter arrivare in Italia per lavorare nelle imprese agricole”. Monito seguito a ruota da Confindustria: “Ci diano più extracomunitari, ci servono”. Così Lega e Fratelli d’Italia hanno detto: “Ok, ma prima di far lavorare i migranti, perché non prendete quelli col reddito di cittadinanza?”. Anche perché far lavorare gli stranieri è impresa assai complessa. Un mese fa Guido Crosetto aveva twittato che “per un problema informatico al ministero dell’Interno è bloccato il decreto flussi e (denuncia di Coldiretti) si rischia di non poter raccogliere la frutta!”. Perché se si bloccano le assunzioni, il raccolto va a marcire. Un settore quello dell’agricoltura dove la manodopera estera è fondamentale. Ma ai profughi i primi due mesi non è consentito far niente. Per avere uno straccio di permesso di soggiorno che consenta di faticare i tempi sono infiniti. E intanto le mele diventano nere. “Ci piscia la luna” si dice al mio paese (Marche). “Noi abbiamo persone nelle comunità straniere che vorrebbero lavorare”, mi ha detto un giorno Ernesto Pancin, il direttore degli esercizi pubblici Venezia, “ma non possono perché il visto turistico non lo consente”. La soluzione è che gli italiani col culo al fresco tornino a raccogliere i pomodori. Pardon le mele.

Serenella Bettin

Genitori vestiti peggio dei figli. Nell’era dell’inconcepibile accadono cose assurde

Il mio pezzo su La Ragione

Nell’era dell’inconcepibile, quella dove accadono cose assurde che diventano normali, succede anche che i genitori si svestano più dei figli. Nella ridda quotidiana di improvvise cadute di stile e assenze di decoro, capita di imbattersi in una bolgia di corpi seminudi che desta un certo imbarazzo. Via il codice etico. Via quello comportamentale. Via il rispetto. Via i valori. Ma soprattutto via i vestiti. Pericolose orge di cambiamento che sfociano nel ridicolo. Al punto che i presidi sono costretti a dover emanare circolari per ricordare che a scuola, nel caso in cui qualcuno l’avesse dimenticato, si va vestiti.

A Treviso la dirigente del liceo Canova ha invitato: “gli studenti e le studentesse a indossare un abbigliamento adeguato e consono all’ambiente scolastico”. Qualcuno la chiama la guerra agli shorts. Ma non c’è nessuna guerra. Si tratta di riportare il buon senso nei binari. A Lecce la preside dello scientifico Banzi, Antonella Manca, ha vietato abiti succinti di qualsiasi foggia e scollature, così come top, minigonne, anche i bermuda per i ragazzi. Rammentando a studenti e genitori che: insomma! “la scuola  è un ambiente educativo, un luogo istituzionale che merita rispetto”. Ok è estate ma in aula non si viene vestiti come si va al mare.  Come erano decorosi i tempi in cui ci si alzava in piedi quando entrava il professore e se avevi la canottiera manco ti facevano entrare. Nasciamo nudi. 

Ma non viviamo soli. 

Oggi vedi queste ragazzine svestite come signorine, che indossano top sotto il seno, scollature vertiginose da far ubriacare maschi in via di sviluppo, minigonne inguinali o jeans strappati dove le chiappe appaiono in tutto il suo splendore (quando c’è).  Soprattutto se anche i maschi possono indossare la gonna. A Milano Martino Mora, professore del liceo Bottoni, si era rifiutato di far lezione ai maschi travestiti per la giornata contro la violenza sulla donna. Conclusione la preside gli ha tolto una classe, passando il messaggio che i giovani possono andare a scuola con le chiappe al vento e chi tenta di riportare il decoro è un perfetto antenato granitico rozzo convinto delle sue posizioni indossolubili. 

Ma i peggiori sono alcuni genitori. Madri che parcheggiano i suv dei mariti davanti le scuole, scendono dalle auto con tacchi vertiginosi e orribili anfibi da carpentiere, minigonne ascellari, top al capezzolo e capelli rosa fucsia verdi. Una l’altro giorno indossava un paio di scarpe spaiato. Una rossa. Una verde. Si usa così adesso. Padri che fanno cerette. Sopracciglia. Indossano camicie sottovuoto e pantaloni sempre più stretti. Giunti a questo punto appare evidente come manchi il decoro. L’amore per se stessi.  Siamo veramente sicuri di volere vivere in un Paese affollato da donne seminude e maschi con il push up nei glutei? Io no. 

Serenella Bettin

Sammy Basso: una lezione di vita

La Ragione – 28 maggio 2022

Per me questo ragazzo è una forza della natura. Sono capitata per caso un giorno di fine maggio a Oderzo (Treviso), e l’ho visto parlare davanti a una platea di studenti. L’ho sentito mettere in fila le parole. I pensieri. Provare a spiegare l’inspiegabile. L’ho visto essere ironico. Umile. Semplice. Avere la capacità di farsi capire con una dialettica fuori dal comune. Del resto se ci parli è un vulcano. La sua forza la si vede negli occhi. La si sente quando scandisce la parole. La vedi nei fatti. Lui. Studioso. Ricercatore. Affetto da progeria, parla della malattia come una grazia, come qualcosa che gli ha permesso di fare quello che altrimenti non avrebbe fatto. “È meglio fare che lamentarsi”, ha detto a questi ragazzi. La sua malattia dà una speranza di vita di 13 anni. E lui ne ha 26. E poi quell’urlo. Che mi è rimasto impresso. Che mi ha lasciato uno squarcio dentro. “Se i potenti capissero cosa significhi lottare per la vita smetterebbero di fare la guerra”.

Il mio pezzo è uscito su La Ragione👇

No. Non tutti i giovani sono rammolliti da TikTok. Ci sono anche quelli che studiano. Si danno da fare. Contribuiscono al progresso materiale e spirituale della società. Se poi sono ragazzi a cui la vita ha riservato ogni tipo di sfida viene da chiedersi perché alcuni giovani d’oggi col placet dei genitori più rincoglioniti dai social dei figli stessi, non riescano a crearsi un futuro.  A mettere insieme i pezzi. In fila i pensieri. A dar forma ai sogni ancora sepolti.  Sammy Basso ha 26 anni. Affetto da progeria, o sindrome di Hutchinson – Gilford, malattia rara che causa l’invecchiamento precoce non alterando la mente, nel 2018 si è laureato in Scienze Naturali all’Università di Padova e a marzo 2021 è diventato dottore magistrale in Biologia Molecolare. Le sue tesi sono utili alla ricerca scientifica. La sua malattia dà un’aspettativa di vita pari a 20 anni. Ai genitori dissero: “Non c’è niente da fare”.  Ma la scienza è andata avanti. La ricerca anche. Lui si fida e contribuisce. Del resto se ci parli assieme è un vulcano. Ha una forza addosso che nemmeno te la immagini. La percepisci nei suoi occhi, la senti nelle sue parole, la vedi nei fatti, la osservi mentre parla a una platea di persone.  Diretto, umile, efficace, ironico al punto giusto, mercoledì mattina è intervenuto al Teatro Cristallo di Oderzo, elegante centro paleoveneto nel trevigiano, davanti agli studenti delle scuole superiori.  Spiegando con semplicità e linearità la sua malattia, anche attraverso l’uso di diapositive, quasi la ringrazia. Perché senza questa non avrebbe potuto fare tante cose. “Senza la malattia non avrei potuto fare tutto questo. Rendermi utile alla scienza”. Chi scrive ricorda cosa disse in merito ai vaccini anticovid. “Fidatevi della scienza. Io a 5 anni sono entrato in contatto con i primi ricercatori. Poi ho cominciato un percorso scientifico con le università, sperimentando alcuni farmaci”. Ai giovani così perplessi, alcuni molti attenti, a cui non sono mancati i quattro stravaccati sulle poltroncine contenti di aver “perso” un giorno di scuola – un giorno si renderanno conto di cosa hanno perso per davvero – ha detto: “Ci vogliono impegno. Studio. Passione. È meglio fare che lamentarsi. Non siamo indispensabili ma possiamo fare molto”.  Lui ha fondato l’Associazione Italiana Progeria Sammy Basso. E ora fa anche lo speaker in radio. “Io rimango sempre con i piedi per terra. Mi circondo di persone che valgono. Con le loro debolezze e i loro pregi. A che punto della vita sono? – si è chiesto a un certo punto – Non lo so. Siamo tutti in scelta e in divenire”.  E poi un appello. Quello più forte che squarcia i confini. “Se i potenti capissero cosa significhi lottare per la vita, smetterebbero di fare la guerra”. 

Serenella Bettin

Svegliatevi!

Su La Ragione del 17 giugno 2022

Si parla tanto di salario minimo, di reddito di cittadinanza, di mancanza di personale. Ovunque ti giri c’è un datore di lavoro che non trova uno straccio di cameriere. Gli under 30 fuggono dal posto fisso e anche da quello statale. Poi parli con diversi ventenni e scopri che vogliono la giusta retribuzione, le ferie, la sostenibilità, la flessibilità, le prospettive, la possibilità di crescita, gli straordinari pagati e pure i weekend liberi. Ma di che parlano, ma di che parliamo?

Ho 38 anni e ho iniziato a fare la giornalista nove anni fa, dopo aver provato di tutto: cameriera, barista, promoter, baby sitter e insegnante di danza. Una volta sono andata perfino a vendemmiare e come compenso mi hanno dato un pezzo di pane. E non sono stata l’unica: come me, tanti altri della mia generazione e di quelle precedenti.

Ho studiato Giurisprudenza e quando ho iniziato a lavorare negli studi legali – prima che il giornalismo si accorgesse di me e io di lui – venivo ‘pagata’ mezza giornata, anche se la mattina aprivo lo studio ed ero l’ultima ad andarmene via. Le fotocopie da fare arrivavano sempre alle nove di sera, proprio quando stavi per alzare il culo dalla sedia. Un anno sono andata a innaffiare le piante a Ferragosto perché il mio capo era in ferie; andavo anche a comprare la carta igienica e, come ne “Il diavolo veste Prada”, accompagnavo il mio dominus dall’elettrauto. Non mi sentivo una schiava. In quello studio ho imparato molto. Ma soprattutto mi sono svegliata. Molte volte rimettevo soldi di mio e dei miei genitori per notifiche e spese.

Quando ho iniziato a fare questo lavoro, i pezzi nei quotidiani locali mi venivano pagati 4 euro lordi. Il massimo a cui potevi aspirare era 10. Nemmeno una tinta per capelli. Per un pezzo pagato 10 euro poi, sono stata incriminata per aver eseguito un ordine di un mio (per fortuna ex) capo di un quotidiano locale, rimettendoci due mesi di lavoro. Non mi vergogno del mio passato. Anzi. Rifarei semplicemente tutto e pure peggio. Il sacrificio, l’assenza di ferie, le deviazioni di chiamata sul tuo telefono quando c’era la partita dell’Italia e tutto lo studio era in ferie, mi hanno insegnato ad andare avanti e a non arrendermi mai.

Ora quando mi guardo attorno e parlo con qualche giovane rammollito con ancora i denti da latte, appena uscito dall’università e che si crede chissà chi perché si fa chiamare Dott e si rifiuta di fare fotocopie, mi viene da ridere. Gli mollerei uno sputo. In Veneto, quando ti laurei, i festanti intonano: «Dottore dottore del buso del cul». Credo si debba ripartire da qui. Svegliatevi.

Serenella Bettin

Alpini. Ma alla fine che è successo?

Il mio pezzo su La Ragione – 17 maggio 2022

Gli Alpini. Ma alla fine cos’è successo. È la sera di venerdì 6 maggio quando ricevo un messaggio con scritto che le femministe di “Non una di Meno Rimini” hanno lanciato una protesta in Instagram perché sarebbero state molestate dagli Alpini. “Alpino molesto se mi tocchi ti calpesto”. In questi giorni si tiene la 93 esima Adunata e io che sono qui, non ho ancora avuto il sentore di queste molestie. In piazza, con una poliziotta qualcuno si ferma a offrire un prosecco. Ma “no sai, non posso, sono in servizio, tengo famiglia”. La protesta monta e nel giro di poche ore arrivano centinaia di segnalazioni in Instagram. Com’è brutto il mondo di oggi. Se uno ha bisogno di aiuto anziché rivolgersi alle autorità competenti lo chiede nei social. Un po’ come quando si vedono i rifiuti al parco e anziché chiamare i vigili o il sindaco, le foto finiscono nei vari gruppi dei comuni. La maggior parte delle volte poi i rifiuti rimangono lì perché la polizia locale non ha Instagram. Le attiviste parlano di 500 segnalazioni. Ma durante i giorni dell’Adunata agli uomini in divisa non è giunta nessuna chiamata. Nessuna richiesta di aiuto. Dopo due giorni arriva una denuncia. Una donna di 26 anni dice di essere stata molestata da tre Alpini. Il giorno dopo ancora arriva una segnalazione tramite l’applicazione YouPol della polizia di stato in cui una 40 enne dice che un alpino le ha “leccato il piede o avrebbe tentato di farlo”. La questura contatta la donna ma lei non si presenta a formalizzare la denuncia. E arriviamo a giovedì scorso quando la portavoce delle donne democratiche di Rimini, Sonia Alvisi, dice sostanzialmente: occhio che la denuncia deve essere fatta altrimenti si rischia di non essere credibili. E si getta discredito verso un Corpo che sempre si è distinto per il suo decoro. Infatti. Il Corpo Alpini è in subbuglio. Lì dentro ci sono padri di famiglia, lavoratori, ex militari, soldati, che mai si sono risparmiati per il bene dell’Italia. Dove ci sono le calamità arrivano loro. Ma al Pd nazionale non vanno giù le parole della portavoce del Pd locale e Sonia Alvisi in serata si dimette. Nel frattempo le femministe attivano una raccolta firme su Change.org che giunge a 19.964 firme. Chiedono la sospensione delle adunate per due anni. Il presidente Sebastiano Favero dice che chi ha sbagliato verrà punito. Sabato mattina arriva la notizia che un tentato stupro a Rimini c’è stato, prima però che arrivassero gli Alpini. E è quello da parte di un somalo di 27 anni ospite del centro accoglienza. Il pomeriggio del primo maggio ha tentato di violentare una donna di 60 anni, mentre faceva jogging. Gli uomini della squadra mobile ci hanno messo giorni per trovarlo. Lui era scappato. Dinanzi a questo le femministe di Non una di Meno hanno detto che è come fosse colpa nostra. Perché la nostra società è fondata sul patriarcato e il maschilismo. Cronache in rosa.

Serenella Bettin