Treviso è di una bellezza estrema

Perché è bella Treviso, bellissima. Con i suoi vicoli, i suoi ponti, le sue stradine strette, i suoi balconi, con gli affreschi sotto i portici, i salici piangenti, le strade contorte, i riccioli sui palazzi, i gabbiani che ti passano davanti, venti, trenta, quaranta, in fila indiana, piroettano giravolte nel vento colorandone il cielo, qui c’è la Pescheria “frondosa di castagni”.

È la più tipica del mondo: galleggiante sulle acque… – diceva Comisso -. È una città umana e completa fatta su conoscenza delle necessità e dei desideri degli abitanti”.

Ci vado spesso e ci ho fatto un servizio sul #Giornale …

👉 https://www.google.it/amp/s/amp.ilgiornale.it/news/spettacoli/spartiacque-passato-e-speranza-era-ed-ancora-palazzo-dei-1926790.html

Speranza sapeva tutto

In una intervista rilasciata al Messaggero di ieri, Speranza dà sfoggio di sè, su come questi mesi, cito testuali parole “sia stato il ministro più prudente al Governo”, ed è “suo dovere costituzionale tutelare la salute”. È chiaro che il ministro, con laurea in Scienze Politiche, non abbia ben chiaro appunto il quadro completo di quali siano i diritti e i doveri tutelati a livello costituzionale.
Ahi noi, poveri studenti laureati di Legge che studiavamo il diritto costituzionale, perdendoci gli occhi, i capelli, i chili, su quel manuale di Livio Paladin – andatevi a vedere chi è – sottolineato a suon di colori caffè sbrodolato e cenere di sigarette mai finite abbastanza.
Ma soprattutto Speranza. L’unico a rimanere ai posti di comando. Che a guardarlo, con quegli occhietti fini fini fini, con quella boccuccia stretta stretta stretta, con quel nasino appuntito appuntito appuntito, ti viene di tutto, tranne che la speranza.
Speranza appunto che il suo dovere costituzionale è talmente elevato e onnipotente che a ottobre, poco prima dello scoppio della seconda ondata, se ne uscì con il libro “Ecco perché guariremo” o una roba simile, prontamente ritirato dato che il giorno dopo praticamente le terapie intensive e le varianti cominciavano a imperversare.
Ma soprattutto Speranza che era quello che non dovevamo preoccuparci, che la situazione era sotto controllo e che il 3 marzo 2020, con le zone già al collasso, non si premurò nemmeno di preparare un pianto pandemico, tanto è grande il suo dovere costituzionale.
In tutto grande bordello causato dagli errori di Speranza e company, ci prepariamo a vivere una Pasqua da signori.
Ah per non parlare di quelli che al mare alla Canarie ci potranno andare, e invece se sei di Napoli e hai la casa a Capri, no.
Sì. Strano ma vero, nella vita esistono anche i paradossi, Dio quanto li amo i paradossi, ecco si potrà andare all’aeroporto e imbarcarsi che ne so per le Tenerife, Fuerteventura, Malta, salpare su qualche crociera. E invece se abiti a Belluno e vuoi andare nella casa di montagna in Trentino dove non incroci un cazzo di nessuno, no.
Cornuti e pure mazziati.
Buon inizio settimana.

#rassegnastampa

#sbetti

Come un uomo d’altri tempi

Venezia, giugno 2019

Due anni fa, lavorando al Salone Nautico, una mattina, passando per Piazza San Marco, mi si avvicina un uomo.
Che prende e mi consegna una busta. Lì per lì lo guardai. Non sapevo se accettare o meno. Ma la curiosità era talmente tanta, che anche se indecisa avrei accettato lo stesso.
Mi disse: “tieni è per te. Apri”.
Dentro la busta c’era questa foto. Io me ne stavo intenta a fumare in pausa pranzo o colazione o chissà cosa – in quei giorni confondi i pranzi con le cene – e lui fece questo scatto. Era un fotografo. Mi disse: “hai un viso particolare, sei uno dei più bei soggetti che io abbia mai fotografato”.
Mi disse che si era innamorato dei miei lineamenti. Duri. Spigolosi. Asciutti.
Non lo disse per secondi fini. Perché non mi lasciò un numero. Non mi lasciò nemmeno un nome. Completamente sparito.
Mi sembrava un uomo d’altri tempi, uno che consegna una foto a una donna e non per portarsela a letto.
Non mi lasciò un bigliettino. Non mi lasciò niente.
Io chiesi anche il suo nome. Forse mi disse Paolo. Ma ora non ricordo. Mi disse: “va bene così, credimi”. E sparì. Aveva stampato la foto con l’attrezzatura che si portava dietro.
Oggi Venezia compie 1600 anni e se devo scegliere una foto ricordo, scelgo questa, rimasta chiusa nel cassetto per due anni.
Non ho mai avuto il coraggio di tirarla fuori. Non ero pronta.
Perché è proprio così che io ho amato e amo Venezia, come un uomo d’altri tempi ama una donna. L’ho amata.
La amo tutt’ora. L’ho sviscerata. Ho imparato ad amarla così com’è. Per quello che ti regala. Per quello che ti dà. Rispecchiando la sua indole così ribelle e coraggiosa. Libera.
Anche di finire sott’acqua.
Ancora ricordo i primi tempi a Venezia. Quelli di quando da bambina, sorpassata la fase iniziale di Venezia tutta bella, impari a doverne fare i conti con la realtà veneziana.
Conosci gli inverni. Le estati. Gli inverni con l’acqua alta, col freddo che ti si torce contro, che ti si riversa addosso. L’estate con i turisti. Con i bastoncini dei selfie, con il trotterellare dei trolley e lo sbuffo dei vaporetti.
È così che voglio festeggiare Venezia. Con l’immagine di quello che tornerà.
Perché quello era tremendamente bello.

#sbetti

Zero lamento. Alza il volume. Si alza pure l’umore

#nevergiveup

Personalmente mi sono un po’ stancata di chi si lamenta e basta. Io sono sempre stata un’entusiasta nella vita. Sì. Ok. Perfetto. Buongiorno. Grazie. Buonasera. Certo! Ci mancherebbe. Alza il volume. Si alza pure l’umore. Ma invece. Invece a volte mi capita di dovermi interfacciare con persone che le senti che vogliono portarti sotto. Che ti prendono di traverso. Che ti afferrano per il braccio, la gamba, il piede, e più tu dici che no, che bisogna andare avanti, che bisogna guardare con ottimismo verso questa vita, almeno essere grati a chi ce l’ha donata, loro no, no, no, loro sono lì come i dannati che ti prendono ti prosciugano le forze, ti annichiliscono, ti rubano l’anima, ti consumano, ti inaridiscono, ti sventrano. Tu sei lì che con un piede tenti di risalire, di scrollarteli di dosso, e invece no. No. No. Loro sono lì che si compiacciono. Che chiuderebbero tutto. Che aspettano. Dio solo sa cosa. In tuta. Senza fare niente. Senza innovarsi. Senza trasgredire. Senza dire alcunché.
E così mi è capitato questi giorni di interfacciarmi con lavoratori dipendenti imprenditori artigiani commercianti. Lì vedi quelli svegli. Quelli sgaggi. Quelli che hanno ancora voglia di fare qualcosa. Che non aspettano. Fanno il doppio. Si inventano. Si reingegnano. Sono quelli che hanno professionalità. Zero improvvisazione. Lavorano a testa bassa a ritmi di 24 ore al giorno. Anche mentre dormono la loro testa pensa. Pensa. Pensa. Pensa. Perché alla fine di ogni guerra dalla fogna e dalla trincea bisogna uscirne.
Solo la forza di ciascuna persona può fare la differenza.
E poi ci sono quelli invece che li vedi. E sono quelli più giovani anche. A volte pure under 30. Zero voglia di fare. Tutto dovuto. Zero sacrificio. So sono ritrovati mantenuti con le vite di mamma e papà e si ritrovano a quarant’anni ancora a casa. Lo leggevo oggi sul Giornale in un bellissimo commento di Giacomo Susca.
Vite sprecate. Passano le loro giornate a sperare in un tempo migliore. Nell’attesa che arrivi qualcuno, magari il governo che si faccia in quattro per loro.
Personalmente sono stanca di raccogliere lamentele di questo tipo. La mia testa chiede altro. La mia vita vuole altro. Io i 30 anni me li devo bere. Scolare. Vivere.
Ci sono stati periodi in cui avevo la testa sotto i piedi. E ho sempre capito che vince chi non si lascia abbattere. Chi combatte. Chi si ribella. Chi non si piega. Chi si ingegna. Chi si inventa. Chi se gli dici di non andare, prende e va. E se ne fotte. E così che bisognerebbe vivere. Con la musica in sottofondo. L’auto che viaggia. Il tettuccio aperto. La sigaretta tra le dita. Facendo. Andando. Cliccando. Lavorando. Producendo. E non esiste lamento. Non esiste tormento. La mia testa non riesce più a sopportare il lamento fine a se stesso. Senza fine. Come a dimostrare e compiacersi che è tutto brutto. Non lo è. No. Non è tutto brutto. Quando ballavo e la sera avevo i piedi consumati dalla fatica mi dicevano che il dolore di oggi sarà la forza del tuo domani. Che se vuoi raggiungere qualcosa e cambiare la tua vita devi prima non abbatterti. Darti da fare. Mai mollare. #nevergiveup.
Oggi ho parlato con un imprenditore. Visionario. Vi racconterò. Mi ha rimesso energia. Voglia di fare. Carica. Aria libera. Sole. Colore. Lui ha preso. Ha immaginato. Disegnato. Inventato. Ricucito. Ha tessuto le tela della nuova era. Quella che verrà.
Ha volato alto sui disastri. Ha saputo guardare avanti. Indietro. In mezzo. Ha ripercorso gioie dolori e tormento.
Mi ha rimesso addosso quella sana consapevolezza che torneremo a far la vita di prima. Che ci sarà un giorno in cui nemmeno ce ne renderemo conto. L’uomo si adatta in fretta. Si evolve. E poi basta con questi tavolini transennati. Con queste facce mosce. Con questo terrore. Con questo lamentarsi. Basta. Basta.
La psicologia dice tutto. La testa in questi casi incide tantissimo. Bisogna scavallare. Andare oltre. Gettare fuori il pensiero negativo. Sputarlo. Vomitarlo. Calpestarlo. Lasciarselo scivolare addosso. E scusate. Scusate. Non è retorica. È uno stile di vita. Serve gente propositiva. Entusiasta.
Che abbia voglia. Che abbia negli occhi quella fiamma che mai si spegne. Nemmeno dinanzi al tunnel.
È la vita. E bisogna combatterla.

#sbetti

#nevergiveup

Il mio lavoro è fatto di continui sbalzi e sobbalzi

Sommacampagna 13 marzo 2021

Il mio lavoro è fatto di continui balzi. Sobbalzi. Sconquassamenti generali. Che ti portano ad avere una vita piena di emozioni. A volte belle. Altre volte brutte. Ci devi fare i conti.
Il mio lavoro è un continuo peregrinare e girovagare che ti porta a vivere una vita a mille. On the road. Che ti porta a sentire l’adrenalina che ti sbatte addosso, che ti sale dentro. Incontrare persone fantastiche. Fermarsi per fare benzina. Bere un caffè al chiaro di luna. Scendere. Partire. Lasciare. Disfare. Fare valigie. Andare. E tornare.
Il mio lavoro è anche un lasciarsi trasportare dai sapori e dai colori della terra. Avere orecchie per ascoltare. Per sbalordirsi. Per meravigliarsi. In questo mondo così malato bisognoso di bellezza.
È un sentirsi a pelle. Fidarsi. Affidarsi. E la sera quando sprofondi e ti lasci cullare dal letto, ringraziare. Chi ti è stato accanto. Chi ti ha dato conforto. Chi ti ha insegnato. Chi ti ha arricchito.
Il mio lavoro è avere mani per stringere.
Dita per scrivere.
Sigarette per fumare in compagnia, da soli, davanti a un panorama che ti spiazza fuori.
Il mio lavoro è fermarsi su un campo e ascoltare la natura. Quello che ha da dirti. Quello che con le sue pieghe e i suoi colori ti racconta. Così fragile. Così forte. Così bella. Così immensa.
Il mio lavoro è partire una mattina per una destinazione. Percorrere strade, mattone su mattone, casa dopo casa, campo dopo campo, mare dopo mare, montagna, dipende. Il mio lavoro è avere il fiuto cucito addosso per andare a cercare le storie. Quelle belle. Quelle dove ti ci immergi. Quelle che quando ci sei dentro ringrazi per esserci arrivato.
Il mio lavoro è stare a sentire. Capire. Partecipare alle gioie agli orgogli e ai dolori degli altri.
Il mio lavoro è lasciarsi sbalordire dai racconti. Sentire già la musica delle parole che ti sale dentro. Che te la senti addosso.
Che non vedi l’ora di immergerti e scrivere a suon di sigarette. Il mio lavoro è parlare con qualcuno del proprio lavoro. Lavori centenari. Innovazione. Tradizione. Le due anime che si fondono insieme e creano reddito.
Il mio lavoro è scavare. Approfondire. Cercare. Capire. Non accontentarsi. Essere sempre affamati. Mai sazi. Il mio lavoro è berselo tutto. D’un fiato. Immergersi dentro. Senza paura. Senza rimpianto. È lasciarsi andare su per le colline di un vigneto. All’interno di un’azienda. In una casa storica. Farsi guidare. Lasciarsi incantare. Il mio lavoro è ritrovarsi seduti a tavola e conoscere persone splendide. Che hanno storie di vita. Di vita vissuta. Storie da raccontare.
Ma soprattutto il mio lavoro è ringraziare. Una donna oggi mi ha detto la cosa più bella che potessi dirmi una persona dopo una splendida giornata: grazie del tempo.

#sbetti

Abbiamo paura del virus e del vaccino

Questa mattina un tassista di Milano stava incazzato nero per i vaccini.
Sei casi di trombosi su un milione e sei di dosi, sono niente. Mi ha detto che non ce la fa più. E che io – passata la fase della mia lacrimazione lombarda – quando l’ho fermato era fermo da un’ora e mezza.
Prima invece era una corsa dietro l’altra. Poi, preso dal vortice delle parole, che si inerpicavano e si arrotolavano su se stesse e si infagocitavano e risucchiavano dolori malesseri ansimi spasimi, mi ha detto che la moglie deve andarsi a fare una mammografia urgente e ancora non riesce ad andarsela da fare. È strana questa pandemia. Incontri perfetti sconosciuti che ti raccontano le loro cose. Quando sanno poi che sei giornalista diventi quasi una manna dal cielo. E ti si infervorano contro.
Allora i vaccini adesso sono diventati la commedia del momento. L’ha detto Luca Zaia, “sembra un panettone sta roba: si alimenta sempre più”.
Non solo. L’altro giorno durante la conferenza stampa Zaia ha detto che ci sono migliaia di persone, quasi la metà – solo un migliaio a Treviso – che non si presentano al turno di vaccinazione e nemmeno avvisano. Lasciando così migliaia di dosi aperte che resistono per sei ore e che se non somministrate in tempo rischiano di essere mandate al macero. Un po’ come sul Titanic quando presero a distruggere le scialuppe.
Allora mi chiedo come l’uomo possa essere così demente.
L’anno scorso eravamo in preda al panico perché i vaccini erano l’unica salvezza, visti come acqua nel deserto più deserto, visti come la goccia che ti disseta quando non bevi da giorni, e ora che li abbiamo la gente nemmeno si presenta.
Ci sono disdette ovunque in tutta Italia. E alcuni nemmeno avvisano.
Nel paese dei fessi ci si prende pure il lusso di snobbare il vaccino. Invece mi risulta che le prenotazioni da parrucchieri ed estetiste fioccano dato che appena riaprono sia mai che qualcuno abbia qualche liana in testa.
Io sui vaccini non mi sono mai pronunciata. Anzi. Non è di mia competenza. Non mi trova preparata. Non potrei capire perché non sono un medico e quindi posto che non vivo isolata nelle caverne mi affido a chi ha studiato e ne sa più di me. Così come quelli che reperiscono le informazioni su Facebook e si sentono tuttologi dovrebbero informarsi e prendersi la briga di spendere un euro al giorno per comprare un giornale.
Mi affido agli esperti che dicono che i vaccini funzionano. Perché poi penso che se solo andaste a guardarvi le controindicazioni dell’aspirina. O del Buprofene. Allora staremmo freschi. Senza considerare che se quelle controindicazioni sono scritte vuol dire che da qualche parte sono apparse nell’uomo. Di certo non se le sono inventate.
Ma in Italia le cose devono sempre finire in vacca. A metà tra la tragedia e la farsa. A metà tra la commedia e la disfatta.
E chi fa comunicazione dovrebbe studiare.
Perché la gente in giro è terrorizzata. Non ti guarda nemmeno più in faccia. Come se il virus potesse trasmettersi guardandoci negli occhi sparandolo da una pupilla all’altra. Il mio libraio di fiducia ieri mi ha detto che la gente entra in libreria e nemmeno più ti saluta. Non ha nemmeno più voglia di chiacchierare. Testa bassa. Sceglie il libro. Prende. Paga e va via. Ci stiamo riducendo mutanti. E ancora se l’anno scorso avevamo una comunicazione istituzionale da gestire i polli, bozze che uscivano a poche ore dal chiudere le gabbie, ecco ancora, dopo un anno siamo presi con le pezze al sedere. La comunicazione qui è fondamentale. Deve parlare uno. Non cento.
Ema ha detto che preoccupa la sfiducia verso i vaccini. L’Aifa in via precauzionale – ci credo, ci può stare, dopo il casino fatto scoppiare – ha sospeso le dosi. In Germania sono stati riportati 7 casi di trombosi venose cerebrali su 1,6 milioni di vaccini somministrati. In Inghilterra che è l’unica che continua a iniettarlo tra gli 11 milioni di abitanti vaccinati ci sono stati finora 15 casi di trombosi o coaguli di sangue e 22 casi di embolìa polmonare, una percentuale inferiore a quella della popolazione non vaccinata.
Perché infatti di embolia, per chi non lo sapesse, abbiamo 60 mila casi all’anno, il che vuol dire 164 morti al giorno.
Ora in tutto questo casino. Servirebbe subito un cambio di passo.
La paura non può farci smettere di vivere.
Qui ora siamo arrivati all’assurdo paradosso che abbiamo paura del morbo e paura del vaccino.
E questo è totalmente inconcepibile.

#sbetti

Sono solo le 9 e vorrei lanciare il pc

“Sono solo le 9 e vorrei già lanciare il pc”.
Mi scrive una mamma questa mattina. Ore nove del mattino. Una sola cucina. Due figli. Uno parla in videoconferenza. L’altro anche. Uno ascolta la maestra che parla. L’altro anche. “Abbiamo lezione fino alle 16.30.. – mi aggiunge – Non ti dico altro”. Ore 16.30: “Sara (nome di fantasia) ha finito lezione. È sfinita. Io pure”.
Vado in libreria.
In libreria mi rifugio nei momenti di felicità. O nei momenti di tristezza. Qui mi rifugio nei momenti di down. O nei momenti di up. Qualsiasi momento è buono per andare in libreria. Io riempirei il mondo di librerie. Mi ci annegherei. Le travalicherei tutte.
Qui incontro un padre. Il padre mi dice: “la mia paura più grande è che succeda come l’anno scorso. Che da marzo alla fine non sono più andati a scuola. Come fai a stare connesso sei ore davanti a un computer e ascoltare un prof che parla?”. Lui di figli ne ha due. Fanno lezione anche al pomeriggio. Rinunciando a sport e altre attività, che fino all’anno scorso erano linfa vitale.
Ore 16:50.
“Conclusione della giornata di oggi – scrive una mamma – appena finito di spedire i compiti. Il deliro ha avuto inizio alle 9 e si conclude ora. Con una pausa dalle 12.30 alle 14.30 dove ho cucinato e sistemato per ricominciare”.
Lei fa l’insegnante. Ha tre figli. Tutti connessi dallo stesso tavolo. Uno parla. L’altro anche. La prof della terza figlia pure. Lei insegna. Online. In piattaforma. Davanti una lista di nomi. Perché non ci stanno i volti su quello schermo. Sono troppi. In una stanza ci stanno tutti. Ci stanno altre stanze. Fredde. Asettiche. Metalliche. Se ne stanno dentro le conversazioni su whatsapp che diventano camere. Se ne stanno dentro le piattaforme che diventano spazi infiniti finiti tutti nello stesso punto.
“Cronaca di un delirio”, aggiunge. “È veramente assurdo pensare che alle elementari i bambini possano sostenere una cosa simile”.
La connessione sta per terminare. I giga anche. La carica dei computer idem. Ci stanno i pc tenuti in vita dai cavi che oltrepassano piatti tazze bicchieri. Tutti lì riposti per la colazione di domani.
Ancora. Come un’altra volta.
Quella colazione consumata dallo stesso tavolo dove si fa lezione.

#sbetti

Macchissenefrega dei giovani

Mestre 14 marzo 2021

Oggi tutti i ragazzi saranno ancora, per l’ennesima volta, a casa da scuola. Questa è una manifestazione andata in onda ieri a Mestre. Le magliette rappresentano i ragazzi i bambini, quegli esseri invisibili che da un anno a questa parte sono stati travolti dall’inerzia di un governo che ha pensato ai banchi con le rotelle. L’incapacità del ministro Azzolina ci costa cara. Farà danni. Incolmabili.
Tanto chissenefrega. Chissenefrega se i nostri, vostri ragazzi e bambini perdono due anni di scuola! Due. Con un ministro alle Politiche Giovanili Fabiana Dadone, targata cinque stars, che mette le scarpe sopra la scrivania con la felpa dei Nirvana solo questo ci si poteva aspettare per i giovani.
Come a dire: io vi calpesto. Voi e tutti quanti.
Cosa diranno mai i genitori di questo ministro che difende la festa della donna con le scarpe rosse e non difende tutti quei ragazzi che domani l’unico percorso che faranno – ancora dopo un anno e un anno ancora – sarà andare dalla tazza del cesso alla tazza del latte sopra il tavolo pronti per una lezione dove non si vedono nemmeno i volti.
Figlia mia, come non ti vergogni, a non portare rispetto, con dietro la bandiera d’Italia, con gente che non ha più un lavoro, che vive a casa disperata in 45 metri quadri che domani diventeranno dieci col resto di due perché in quelle caverne ci devono stare tutti.
Ma i tuoi genitori non ti dicono niente? Ingrata.
Un ministro che dovrebbe tutelare l’interesse dei giovani e che poggia le scarpe sopra un tavolo istituzionale. Con gente che una scrivania non ce l’ha nemmeno più.
Ci sono studenti che è da febbraio 2020 che non vedono un’aula universitaria. Ci sono ragazzi ridotti in casa a studiare come larve consumate sopra libri di cui non se ne vede più il senso. “A cosa studio a fare”, mi chiedono alcuni quando li incontro.
Ci sono bambini chiusi in case di 45 metri quadri a condividere odori di cipolla chiodi di garofano briciole sul divano, immersi in qualche libro da leggere colorare e studiare. Manca la concentrazione. Si spegne la voglia.
Ma tanto i giovani ma chissenefrega. I giovani sono quelli che usano nelle campagne elettorali. Sono quelli che ti dicono: “puntiamo ai giovani”. “Spazio ai giovani”. “Il futuro è dei giovani”.
Sono quelli che gli uffici stampa dei politici passano le notti a scartabellare documenti file elenchi e prendersi giù i nomi e poi contattare i giovani su Instagram e proporre loro che il futuro sarà migliore, che si faranno nuove cose, idee, progetti e invece.
Invece come ogni volta a rimetterci sono sempre loro. I giovani. In un anno li hanno resi inermi. Depressi. Incapaci di rincorrere i sogni. Di porsi obiettivi. Di assumersi responsabilità.
Stravaccati sul divano. E ora ne paghiamo le conseguenze.
Con i genitori disperati perché non sanno come fare. Alcuni lavorano. Altri devono lasciarli. A chi! A chi se nemmeno i nonni.
La scuola è socialità. La mente, fin da piccoli, si abitua a reagire al corpo dell’altro. A sentirne il freddo. Il caldo. A toccarsi con mano. La mente non è pensata per progredire in questa indolenza e inerzia e frigida realtà.
Li avete lasciati con le storie su Tik tok. Con gli influencer. Con le storie su Instagram che rimangono per 24 ore e poi chissenefrega. Manca l’empatia. Lo scambio. Il confronto. Il sacrifico. Lacrime e sudore. I giovani sono i preservativi delle campagne elettorali. Durano il tempo che devono durare.
Come si può pensare in un Paese civile di far perdere oltre un anno e mezzo di scuola a questi ragazzi.
Hanno comprato i banchi con le rotelle. In Veneto sono finiti in soffitta perché non andavano bene e causano danni alla schiena.
Hanno preso e vaccinato gli insegnanti. Vi hanno detto che i giovani i bambini i nipoti non devono andare dai nonni. Hanno chiuso le biblioteche. Le aule studio. I luoghi di cultura. La gente si contagia più fuori nelle case se ancora non l’avete capito. Dove devono andare questi giovani? Dove?
Le lotte le abbiamo fatte tutti. Le rivoluzioni. Ma se già a voi vi hanno assuefatto la testa. Se già siete incapaci di pensare con la vostra testa per capire cosa potete e cosa no, cosa devono fare i giovani? Cosa?
Li avete fatti passare per untori. Figli di un Dio minore col senso di colpa addosso che non se ne va. Si alimenta. Diventa rabbia. Frustrazione. Costernazione.
Molto facile dire che i giovani devono lottare. Quando i vecchi che hanno lottato hanno dimenticato come si fa.

#sbetti

Il mondo ha bisogno di donne intelligenti

Questa sera mentre facevo zapping in televisione e mi preparavo alla maratona notte horror – avete – rotto i coglioni – hashtag #andràtuttobene #beneuncazzo – ecco mentre facevo questo mi sono cadute le palpebre su Maria De Filippi che conduceva C’é Posta per Te. Allora mi sono soffermata un attimo, perché mi aveva colpito il viso di una donna che in lacrime se ne stava lì davanti milioni di italiani – dato che di sabato sera per i più è l’unico passatempo – e si faceva umiliare da un uomo che se ne stava al di là della busta davanti milioni di italiani. Allora ho ascoltato un attimo e lui a un certo punto ha detto che lei ha fatto tanti errori.
Ma perché le donne sono così masochiste da farsi umiliare al punto tale da essere ridotte a scusarsi, pentirsi, genuflettersi, flagellarsi.
Io scusa, ma non mi scuso.
Perché ne ho viste di donne così. Ne ho viste tante. Ne vedo. Sto raccogliendo storie di donne violentate, massacrate, ridotte in fin di vita, sequestrate in casa, ferite, angosciate, violentate fin da piccole.
I sensi di colpa che aumentano. Il bisogno di dipendenza verso l’altro che prende il sopravvento. Diventa una larva. Un legamento, incapace di recidersi, di staccarsi. L’incapacità di stare sole. Il sentirsi dire di tutto e di tutto e di più. La mancanza di un lavoro. L’essere sempre gentili cordiali servizievoli. Io non sono servizievole per niente. Soddisfare le voglie che si consumano in un letto dove ormai non ci sono più nemmeno le stelle, le farfalle; solo foglie secche. E poi quelle mani nude dure crude, alcune troppo magre, alcune troppo grasse. Mani molli, flaccide, ti scivolano via come dei guanti, tanto la presa è molle.
Che senso ha.
Che senso ha a volte mi chiedo quando vedo donne che vivono una vita infelice. Che non vogliono. Aggrappate a un uomo che detta lui le leggi del loro mondo. E non sono femminista. Anzi. Per certi aspetti sono molto maschilista. Gli uomini hanno un’altra stoffa. Perché poi ne conosco di donne, che soprattutto adesso durante il lockdown hanno perso il lavoro, non sanno come fare, si sentono brutte trascurate non amate. Non vogliono vivere in casa con l’orco. O con un uomo che non amano.
In quel caso bisogna avere il coraggio di prendere e andarsene.
Perché poi un giorno. Un giorno, a novembre scorso mi scrive una donna che non conosco. Ma il messaggio l’ho letto l’altro giorno. L’ho recuperato dentro la cesta dove finiscono i messaggi delle persone che non conosci. E che oberati di messaggi come siamo, mai aprimiamo. Il messaggio faceva così: “Ciao Serenella, è da un pò di tempo che ti seguo (…) Noi ovviamente non ci conosciamo ma ti devo rendere partecipe di uno scorcio della mia vita, perché è grazie alle tue parole, dette belle dirette forti e taglienti, che adesso ho fatto tabula rasa e sono ripartita da zero. Alcuni mesi fa in un tuo post ti sei accanita contro quelle donne illuse di vivere una vita perfetta con i loro (falsi) mariti perfetti. E io ho pensato: ma come si permette di fare di tutta l’erba un fascio, come si permette di giudicare noi donne con le nostre vite perfette!E poi però me lo sono riletto quel post e giorno dopo giorno quelle parole mi ronzavano in testa e mi dicevo che forse, invece di zittire i miei pensieri, avrei dovuto ascoltare il mio rimuginare per capire e fugare ogni dubbio….E io ero la tonta, l’illusa, la perdente. L’ho capito quando ho preso coscienza di cosa fossi diventata (…) Ma per me stessa cosa ero? Chi ero? Nessuna risposta. Questo silenzio, questa mancata risposta mi ha raggelata. Tutta una vita dedita ad uno scopo che non era il mio”.
Allora l’altro giorno le ho risposto. E le ho chiesto come sta andando.
Mi ha detto che ora ha una nuova vita e che si sente una Regina.
Allora ho pensato che a volte sì mi capita di accanirmi contro queste donne incapaci di stare in piedi da sole. Che devono aggrapparsi a un uomo per riuscire a sopravvivere o a delineare il percorso della propria vita.
Alda Marini diceva “Quanti uomini ho sentito dire che desiderano una donna intelligente nella loro vita! Io li incoraggerei a pensarci bene. Le donne intelligenti prendono decisioni da sole, hanno desideri propri e mettono limiti. Tu non sarai mai il centro della sua vita perché questa gira intorno a se stessa”.
Il mondo ha sempre più bisogno di donne intelligenti.

#sbetti

Questo stare a casa ha violentato l’uomo

Questa storia che stiamo sempre tutti quanti a casa, nelle stesse case. Tutti sotto lo stesso tetto, a vivere un tempo incerto, nell’attesa di un tempo migliore ha snaturato l’uomo: l’ha violentato. L’ha sommerso di angoscia. Così impotente e indifeso. Ognuno nella propria stanza, si sente snaturato, svogliato, divanizzato, angosciato, deformato, falsato. Figli di un Dio minore. Ognuno si sente violentato. Privato di un qualcosa che stenta a riconoscere. L’apatia si è impossessata della vita delle persone. Per chi ha la fortuna di uscire e di continuare a svolgere il proprio lavoro, traballa, vacilla, fa fatica, ma non molla; ma per chi è totalmente a casa, la casa si sta impossessando delle membra delle persone. Delle articolazioni. Delle gambe. Delle braccia. Delle ossa. Le sta prendendo. Le sta possedendo. Le sta tenendo a sè. Più forte. Più forte. Più forte ancora. Le trattiene dentro quella casa, incapaci di uscire al di fuori. Di fare un passo ulteriore.
Per alcune persone è diventato fatica fare tutto. Nervosi. Svogliati. Rassegnati. Anche andare a far la spesa. C’è il tipo del supermercato che te la porta. Per alcuni vestirsi è diventata un’angoscia. Se vai a far la spesa sono aumentati quelli che sotto il cappotto c’hanno la tuta. Donne con in testa i capelli come corde. Senza trucco. Solo brufoli.
La nostra vita si sta facendo spazio dove uno spazio non c’è. Non può. Non ci sta. Tenta di riprenderselo. Di mangiarselo. Di berselo. Ma lo spazio è sempre quello. A poco a poco gli spazi diminuiscono ma aumentano. Le case diventano sedi virtuali per convegni, conferenze, seminari, appuntamenti. Si fa tutto quasi esclusivamente online. Perfino far l’amore.
È diventato virtuale pure quello. Ora ci si conosce su Tinder. Zero scosse.
Stare dentro le case è diventata un’angoscia. Non ci si diverte. Non si ride. Non si scherza.
L’essere umano si sente violentato. Privato e snaturato di tutto. Così pieno delle proprie cose ma così spossessato dei suoi desideri. Istinti. Voglie.
Siamo diventati tutti allo stesso tempo a gestire un ruolo solo. I padri sono diventati soltanto padri. Le madri soltanto madri. I figli si sentono soltanto figli, figliastri, senza vie di fuga che li faccia sentire maggiori.
È la vita che basta a se stessa che uccide quella dentro e quella fuori.
Il figlio non è più allo stesso tempo figlio studente moroso, amico, alle prese con le prime cotte, le prime paure, i primi baci, le prime sigarette, ma è diventato figlio e basta. Chiuso in quella stramaledetta stanza. Dentro quella stanza ci stanno altre stanze. Stanno sulle piattaforme. Su Teams. Su Zoom. Su whatsapp. Entrare dentro una chat è come assistere a un ricevimento. Manca soltanto il vestito.
I genitori che provano ad avvicinarsi alla stanza vengono visti come lupi cattivi. La troppa vicinanza aumenta la rabbia. La troppa vicinanza divide. Aliena. Snatura. Svalvola.
Le coppie che prima si reggevano sul tradimento. Naturale. Comprensibile in questo mondo sempre più frenetico e meno attento, ora non posso fare nemmeno più sesso foresto. Vietato. Non si può. La moglie si sente soltanto moglie. Il marito soltanto marito. Zero passione. Niente amanti. Solo voglie consumate sopra il letto di un freddo autunno. Tanto per dire: anche oggi l’ho fatto.
Con la pandemia sono aumentati i divorzi. Calati i desideri. Aumentati gli scatti. Quelli d’ira. Quelli di chi prima stava in giro e ora a casa a fare i conti con il dentifricio schiacciato in alto e le briciole sul divano. Le famiglie non sono fatte per stare tutte sotto lo stesso tetto. Nemmeno marito e moglie.
In questo perenne rito angosciante e angoscioso di alzati mangia stira lava lavora siedi mangia vai a letto e dormi, si consuma tutta l’essenza dell’essere umano. L’abitudine dilania l’uomo. L’assenza di prospettive dipinge le vite con il colori di un quadro in bianco e nero. Di noi così intenti a ridipingere le zone. Sempre e solo quello. Tutto uguale.
Zero pensiero. Si sono sopiti la voglia e il desiderio di uscire per un aperitivo. Quello che prima rappresentava l’aperitivo era più che altro una via di fuga. Il momento di svago. Un’ora di confort. Confronto. Che rigenerava l’uomo. La mancanza di desideri praticabili in poco tempo annienta le emozioni. Le sensazioni.
Questa cosa del vivere così perennemente tutti assieme non è salutare.
In questo essere così perennemente a casa lava mangia stira lavora esci dai la spese dormi alzati mangia ci siamo resi conto che l’essere umano non è perfetto. È l’essere più imperfetto che esista. Ha bisogno o di uscire. Di mangiare fuori. Di confrontarsi. Di parlarsi. Di vedersi. Di fare l’amore. Di andare a teatro. Di vedere i monumenti. Di alzare lo sguardo al cielo. Di stare su un tram. In bus. In autobus. In aereo. Le idee devono riprendere a circolare. A prendersi. Agganciarsi. Con il solo potere degli occhi. Degli slanci. Degli entusiasmi. E non basta uno schermo. Non basta più un cazzo di schermo.

#sbetti

State #zitti e buoni senza rompere i coglioni

Un anno pandemia

Eh insomma la pandemia in Italia. Eravamo partiti a febbraio dell’anno scorso con “abbraccia un cinese”, preoccupatevi dei fulmini.
Qui, in Italia? Il virus? No, ma quando mai.
Ma che minchia sta a di’ oh! Qua lu virus mai.
Poi il virus è arrivato. E tiravano a sorte. Zona rossa sì. Zona rossa no. Zona rossa non so. Poi siamo arrivati a marzo e abbiamo fatto il primo lockdown. Prima le mascherine non servivano. Anzi, il presidente della Lombardia, Fontana venne pure preso per il culo da Pd e 5 Stelle perché indossava la mascherina. Zingaretti e compagnia di sinistra intanto andavano in piazza a far ripartire la movida. Bianchetti e cicchetti.
Fino a che non si sono accorti che aumentavano i contagi. E così chiudiamo tutto. Tutti casa. Piazze vuote. Strade deserte. Salviamo la Pasqua.
Ma la Pasqua non si è salvata. Poi abbiate pazienza, arriviamo al 25 aprile. E poi al primo maggio. Ma nemmeno quello si è salvato. Poi aumentano i contagi. Nel frattempo la colpa era dei runner poveri che probabilmente scorreggiando mentre correvano al parco, nei loro 280 metri quadrati riservati, 498 passi, hanno infettato la gente. Poi arriva maggio. Apriamo ma in sicurezza. Mi raccomando. La mascherina. Un metro. No un metro e mezzo. No ma se sei alto un metro e un quarto bastano cinquanta centimetri. Se poi invece devi portare a pisciare il gatto o scendere il cane allora la mascherina te la devi tenere anche attorno all’isolato perché sai mai che di notte incontri qualcuno e incappi nel virus.
A giugno luglio agosto, mentre il governo Conte Arcuri e compagnia cantante pensavano al colore delle primule per i palazzetti a forma di fiorellino bello, ecco a giugno luglio agosto abbiamo assistito all’apertura delle gabbie. Uscite tutti. Via. Bonus vacanze. Irresponsabili. Delinquenti.
Anche quelli che maledivano il governo e che imprecavano su Facebook hanno usufruito del bonus per andare in montagna, al mare, in collina, o chissà dove. Quelli poi che non avevano problemi di soldi, hanno fatto comunque richiesta per avere il bonus, perché sai mai che qualcosa ci scappasse pure per loro.
A settembre poi siamo tornati tutti a casa, dopo un anno passato con le immagini profilo che ruotavano a suon di un batter di ciglia, con le immense cagate di hashtag #iorestoacasa. Per non parlare giusto, quasi dimenticavo, dei canti dai balconi, il pane fatto in casa, l’assalto ai supermercati, e quegli stupidi teloni dove ci hanno dipinto “andrà tutto bene”, e poi sputano in faccia alla gente.
A settembre quindi dicevo quando i ragazzi dovevano tornare a scuola, dopo aver passato l’estate a pensare ai banchi con le rotelle, le primule architettoniche e le leccate di Conte, ecco si sono resi conto che non avevano un piano. Autobus pieni. Treni anche. Scuole, ma che ve le dico a fare. Quindi alcuni governatori hanno fatto da soli. Il governo centrale impreparato non sapeva che pesci pigliare. Nel frattempo in tutto questo assistevamo a viPrologi che hanno fatto della pandemia in tv la loro commedia. Il ministro Speranza, che la speranza la fa perdere solo a guardarlo, era anche sul punto di buttare fuori un libro. Ma è stato prontamente ritirato il giorno stesso quando fummo avvolti dalla seconda ondata. In un susseguirsi di apri chiudi. Chiudi. Apri. Apri. Chiudi. Chiudi. Apri. Zona arancione sì. Zona arancione no. Zona arancione non so. Rosso. Verde. Bianco. In zona rossa puoi fare questo. In zona arancione puoi fare quello.
L’Italia venne divisa in zone. E ancora non si è capito in che cazzo di colore siamo. Nè quando sia finita e cominciata questa seconda ondata. La terza. La quarta. La quinta. La sesta. La settima. L’ottava. Poi le varianti. La brasiliana. La francese. L’africana. La bolognese. A novembre hanno detto stiamo a casa per salvare il Natale. Ma il Natale non l’abbiamo salvato. Anzi; per favorire l’aumento dei contagi, la settimana prima di Natale hanno elargito numerosi cash back per fare le spese, acquisti, compere, di modo che, anche quelli che per la privacy non si erano scaricati Immuni, hanno prontamente aderito all’iniziativa, dichiarando pure il numero della loro carta di credito e dove in genere vanno a fare acquisti. Irresponsabili pure voi, che siete andati in giro. L’Epifania che tutte le feste porta via ma il virus no, ha visto una riapertura di due giorni. Poi hanno chiuso ancora. Apri. Chiudi. Chiudi. Apri. Apri. Chiudi. Chiudi. Apri. Il carnevale nemmeno quello è stato salvato. E gli impianti da sci a cui era stato detto che avrebbero riaperto, il giorno prima, tipo quattro ore prima della riapertura, ecco hanno detto che non avrebbero riaperto. Stagione finita.
In tutto questo in mezzo c’abbiamo pure avuto una crisi di governo. Con Renzi che in un colpo solo ha spaccato tutti. E ha mandato a casa pure Conte. I vaccini poi, quelli che hanno detto, solo il vaccino ci salverà, la scienza che è stata così celere nel produrli, non ha tenuto conto che doveva fare i conti con la politica. Perché una volta trovati i vaccini. Non si sa perché, le vaccinazioni procedono a singhiozzo.
Intanto le imprese sono sul lastrico. I suicidi ci sono stati. La gente è ridotta un tappo a pressione. Tra poco scoppia la rivoluzione. Ci sono famiglie intere che non sanno come mangiare. Gente che non può lavorare. Gente che ha perso il lavoro. Ragazzi ridotti in camere modalità caverne, tipo larve, senza vie di fuga. Genitori disperati. Mamme che non sanno dove lasciare i figli. Padri anche. Famiglie che se troppo vicine o troppo lontane vengono sgualcite. Medici che da eroi sono passati a farabutti. Non ci sono più i canti dai balconi. E nemmeno i lenzuoli.
Ma state tutti a casa #zittiebuoni, possibilmente senza rompere i coglioni. 

#sbetti