Mi chiedo soltanto dove stiamo andando. Le notizie si accavallano, si inseguono, si mischiano, si rimescolano, si accoppiano, si scollano, si condividono, si incollano. Ma in tutto questo il senso qual è? Me lo sono sempre chiesta. Sempre. Ogni giorno bombardati da mille notizie, da mille fatti, da mille eventi, quando la tua vita diventa inseguire quella degli altri, quando ogni giorno fai da imbuto e lasci defluire le notizie che una sopra l’altra spingono tra di loro, quando i fatti si mettono in coda davanti ai cancelli e spingono, spingono, spingono, fino a che non li buttano giù, bé il perché lo fai diventa essenziale. Indispensabile. Senza capirlo, senza rendertene conto, farlo non avrebbe senso.
Allora accade che o ti fermi un giorno e sparisci. Assapori, fai mente locale, riordini idee o ti accade un fatto che ti cambia così talmente tanto da farti capire, cazzo, perché lo fai. Ecco.
Mai, mai, mai come in questi giorni ho capito perché lo facciamo. Quando sono stata nell’ex base militare di #Conetta la prima volta, esattamente un anno fa, ero più presa dalla voglia dello scoop, dall’immortalare quella situazione che nessuno avesse. Lì dove un anno fa erano ospitati circa 700 migranti. Ora saliti a oltre 1100 e fino a tre mesi fa erano 1500.
Ero più presa dal dire “tutti i giornalisti importanti vanno a Conetta, ci vado anch’io”. Quando poi ci sono tornata la seconda volta per la rissa, la rivolta, il sequestro degli operatori, mi è salita l’indignazione, la rabbia, il rivoltamento dello stomaco che vomita esecrazione. Ma anche lì il potere dello scoop.
Quando ci sono stata per la terza volta ho avuto paura. Migranti in mezzo alla strada, in mezzo alla nebbia e io sola alle tre del pomeriggio in mezzo a una via di cui non vedevi né l’inizio né la fine. Hanno cominciato a venirmi incontro e a urlarmi “ciao bella, ciao bella”, fino a che un’auto, la mia salvezza, ha imboccato la strada dov’ero finita io, ho fatto l’autostop, loro si sono fidati e mi hanno riaccompagnato alla macchina. Allora lì, lo scoop non c’entrava più, in me la paura è stata guarita dalla rabbia e dall’indignazione, dall’imprecazione con cui volevo che qualcuno cambiasse le cose. La paura è stata placata dalla rabbia e dalla condanna nel vedere un paese di 197 anime, travolto e invaso dai migranti alle tre del pomeriggio. Ma soprattutto la rabbia perché tu #donna non eri libera di camminare per le strade della tua città.
Ho lasciato decantare la cosa. Ma la mia rabbia cresceva.
Quando l’altro giorno sono tornata a Conetta, sono entrata in base, dentro, dentro i bagni, dentro le stanze, dentro le “camere”, dentro la cucina, dentro la sala pranzo e allora ho capito perché lo facciamo. Perché ora, non conta la firma. Sì certo, conta, conterà sempre, siamo giornalisti e di certo quella volta non hanno lesinato sull’ego. Ma oggi un collega mi ha chiesto “ma chi siamo noi? Siamo così talmente importanti?”. Bé sì. Siamo dei #messaggeri. Dei servi. Dei servi delle notizie. Facciamo un servizio. Ma il nostro lavoro non è per noi, è per gli altri. Allora importante è il messaggio che diamo, quello che trasmettiamo, quello che sporcandoci ogni giorno in mezzo alla strada, in mezzo alla gente siamo in grado di riportare e far capire. Questo è importante. Conetta mi ha dato la netta consapevolezza che il nostro lavoro, quello che ci fa alzare alle quattro del mattino o quello che all’una di notte ti fa rispondere al telefono, è importante. Che il nostro lavoro ha un senso solo se lo si fa con la convinzione di poter far cambiare le cose.
Ecco a cosa serve il nostro lavoro. A cambiare, a far cambiare. A denunciare. A indignarsi e far indignare. Per me è stato Conetta, per altri sarà stato altro, ma chi entra in quel campo base anche solo per quattro ore ne esce cambiato. Sapere che nel 2020 al di là della strada che collega le province di Padova e Venezia si erge una struttura, dove le auto di chi ci lavora luccicano sotto il sole, dove le tendopoli immerse di puzza e sudore si stagliano nell’enorme distesa di campi, urla allo scandalo. Perché è un ghetto. Un vero e proprio ghetto. Un ghetto che hanno legalizzato e che da due anni promettono di chiudere. Invito tutti i politici, i parlamentari, i preti, i parroci ad andare a fare un giro a Conetta, ma entrarci dentro, sporcarsi le mani, i piedi, il sedere, metterci la faccia e a cercare di capire come sia possibile che in un paese che si dichiara civile ci sia una accozzaglia, un mucchio, un ammasso di persone ammucchiate dentro lo stesso recinto.
Anche quei sindaci che l’altro giorno hanno sostenuto #Minniti li invito ad andare dentro la base militare di Conetta e capire se è sufficiente che Minniti dall’alto del palco dica: “stop ai flussi, svuotiamo le basi”.
Perché intanto la risposta è stata che altri migranti sono arrivati. E ancora ne arriveranno. Allora se chi predica l’accoglienza intende vendere accoglienza per isterilimento di vite, se intende accogliere delle persone e metterle in un recinto, forse dell’accoglienza non ha capito niente.
Ma forse non c’è nemmeno molto da capire, dato che se si può accogliere lo si fa, altrimenti no. Minniti ha promesso soldi ai comuni che non faranno i capricci, perché il business quello che entra nelle tasche, quello l’hanno capito benissimo.
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