Se lo Stato non difende i diritti, ci pensa la Regione

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e gli eredi di #Mattielli rischiano la causa dai due ladri feriti…

“Lo Stato non difende i diritti, ci pensa la Regione. È la soluzione trovata dalla Regione #Veneto e approvata a Palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio regionale, in una notte di febbraio 2016. Due fondi per un totale di 150mila euro destinati a pagare le spese legali per chi si difende dai ladri e poi si ritrova a essere accusato di eccesso di legittima difesa o, nella peggiore delle ipotesi, indagato per omicidio volontario. La somma messa a disposizione è così ripartita…”

continua su #IlGiornale 17 febbraio 2016
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Ad oggi tuttavia la legge di Stabilità regionale 2016 che contiene questa misura è stata impugnata dal #Governo perché ritenuta incostituzionale. A tutt’oggi la Corte Costituzionale deve ancora pronunciarsi.

Tira un pugno in faccia alla vigilessa ma resta libero e mendica

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“Il 6 febbraio 2016 James Osaro, questo il suo nome, aveva aggredito una vigilessa a #Marcon, nel #veneziano. L’aveva strattonata, scaraventata e sbattuta addosso alla vetrata di un locale. Poi, non contento, le aveva anche tirato un pugno. Per questo era stato processato con rito abbreviato in Tribunale a Venezia, condannato ma subito rilasciato. Per giorni ha continuato a chiedere l’elemosina in paese sotto gli occhi sconvolti della gente. Ma l’11 febbraio 2016 il verdetto è arrivato… ” continua su #IlGiornale, 13 febbraio 2016

http://www.ilgiornale.it/news/politica/nigeriano-aggredisce-vigilessa-resta-libero-e-mendica-giorni-1224258.html

LETTERA A CHI PREDICA ACCOGLIENZA E NON SA NEMMENO COSA SIA

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Mi chiedo soltanto dove stiamo andando. Le notizie si accavallano, si inseguono, si mischiano, si rimescolano, si accoppiano, si scollano, si condividono, si incollano. Ma in tutto questo il senso qual è? Me lo sono sempre chiesta. Sempre. Ogni giorno bombardati da mille notizie, da mille fatti, da mille eventi, quando la tua vita diventa inseguire quella degli altri, quando ogni giorno fai da imbuto e lasci defluire le notizie che una sopra l’altra spingono tra di loro, quando i fatti si mettono in coda davanti ai cancelli e spingono, spingono, spingono, fino a che non li buttano giù, bé il perché lo fai diventa essenziale. Indispensabile. Senza capirlo, senza rendertene conto, farlo non avrebbe senso.
Allora accade che o ti fermi un giorno e sparisci. Assapori, fai mente locale, riordini idee o ti accade un fatto che ti cambia così talmente tanto da farti capire, cazzo, perché lo fai. Ecco.
Mai, mai, mai come in questi giorni ho capito perché lo facciamo. Quando sono stata nell’ex base militare di #Conetta la prima volta, esattamente un anno fa, ero più presa dalla voglia dello scoop, dall’immortalare quella situazione che nessuno avesse. Lì dove un anno fa erano ospitati circa 700 migranti. Ora saliti a oltre 1100 e fino a tre mesi fa erano 1500.
Ero più presa dal dire “tutti i giornalisti importanti vanno a Conetta, ci vado anch’io”. Quando poi ci sono tornata la seconda volta per la rissa, la rivolta, il sequestro degli operatori, mi è salita l’indignazione, la rabbia, il rivoltamento dello stomaco che vomita esecrazione. Ma anche lì il potere dello scoop.
Quando ci sono stata per la terza volta ho avuto paura. Migranti in mezzo alla strada, in mezzo alla nebbia e io sola alle tre del pomeriggio in mezzo a una via di cui non vedevi né l’inizio né la fine. Hanno cominciato a venirmi incontro e a urlarmi “ciao bella, ciao bella”, fino a che un’auto, la mia salvezza, ha imboccato la strada dov’ero finita io, ho fatto l’autostop, loro si sono fidati e mi hanno riaccompagnato alla macchina. Allora lì, lo scoop non c’entrava più, in me la paura è stata guarita dalla rabbia e dall’indignazione, dall’imprecazione con cui volevo che qualcuno cambiasse le cose. La paura è stata placata dalla rabbia e dalla condanna nel vedere un paese di 197 anime, travolto e invaso dai migranti alle tre del pomeriggio. Ma soprattutto la rabbia perché tu #donna non eri libera di camminare per le strade della tua città.
Ho lasciato decantare la cosa. Ma la mia rabbia cresceva.
Quando l’altro giorno sono tornata a Conetta, sono entrata in base, dentro, dentro i bagni, dentro le stanze, dentro le “camere”, dentro la cucina, dentro la sala pranzo e allora ho capito perché lo facciamo. Perché ora, non conta la firma. Sì certo, conta, conterà sempre, siamo giornalisti e di certo quella volta non hanno lesinato sull’ego. Ma oggi un collega mi ha chiesto “ma chi siamo noi? Siamo così talmente importanti?”. Bé sì. Siamo dei #messaggeri. Dei servi. Dei servi delle notizie. Facciamo un servizio. Ma il nostro lavoro non è per noi, è per gli altri. Allora importante è il messaggio che diamo, quello che trasmettiamo, quello che sporcandoci ogni giorno in mezzo alla strada, in mezzo alla gente siamo in grado di riportare e far capire. Questo è importante. Conetta mi ha dato la netta consapevolezza che il nostro lavoro, quello che ci fa alzare alle quattro del mattino o quello che all’una di notte ti fa rispondere al telefono, è importante. Che il nostro lavoro ha un senso solo se lo si fa con la convinzione di poter far cambiare le cose.
Ecco a cosa serve il nostro lavoro. A cambiare, a far cambiare. A denunciare. A indignarsi e far indignare. Per me è stato Conetta, per altri sarà stato altro, ma chi entra in quel campo base anche solo per quattro ore ne esce cambiato. Sapere che nel 2020 al di là della strada che collega le province di Padova e Venezia si erge una struttura, dove le auto di chi ci lavora luccicano sotto il sole, dove le tendopoli immerse di puzza e sudore si stagliano nell’enorme distesa di campi, urla allo scandalo. Perché è un ghetto. Un vero e proprio ghetto. Un ghetto che hanno legalizzato e che da due anni promettono di chiudere. Invito tutti i politici, i parlamentari, i preti, i parroci ad andare a fare un giro a Conetta, ma entrarci dentro, sporcarsi le mani, i piedi, il sedere, metterci la faccia e a cercare di capire come sia possibile che in un paese che si dichiara civile ci sia una accozzaglia, un mucchio, un ammasso di persone ammucchiate dentro lo stesso recinto.
Anche quei sindaci che l’altro giorno hanno sostenuto #Minniti li invito ad andare dentro la base militare di Conetta e capire se è sufficiente che Minniti dall’alto del palco dica: “stop ai flussi, svuotiamo le basi”.
Perché intanto la risposta è stata che altri migranti sono arrivati. E ancora ne arriveranno. Allora se chi predica l’accoglienza intende vendere accoglienza per isterilimento di vite, se intende accogliere delle persone e metterle in un recinto, forse dell’accoglienza non ha capito niente.
Ma forse non c’è nemmeno molto da capire, dato che se si può accogliere lo si fa, altrimenti no. Minniti ha promesso soldi ai comuni che non faranno i capricci, perché il business quello che entra nelle tasche, quello l’hanno capito benissimo.
#adessobasta #meritiamolestinzione #conetta #immigrazione #immigrati#sbetti

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Chi reagisce a una rapina o finisce ammazzato o indagato. Ecco le vittime che lo Stato non tutela 


LETTERA AL #MINISTRO, UNO QUALUNQUE. CAMBIA POCO. Lino #Sabbadin è il macellaio che nel 1979 venne ammazzato dai terroristi a colpi di arma da fuoco nel suo negozio a #Caltana, in provincia di #Venezia. 

La sua “colpa” fu semplicemente quella di aver reagito a una #rapina ammazzando uno dei banditi. 

E di questi tempi, questa storia è più attuale che mai. 

É il 16 febbraio 1979, sono le 16.45. Lino Sabbadin è intento nella sua macelleria a servire un cliente. Un’ auto, una Volkswagen Passat verde, d’improvviso, si ferma davanti al negozio. 

Il figlio Adriano, quell’auto, l’aveva vista più volte passare, ma di macchine – ci dice – ne passavano tante. 

Dalla vettura scendono due tipi a volto scoperto. 

Entrano nella #macelleria e si fingono ispettori dell’igiene. 

Posano una valigetta ventiquattrore sopra il bancone e nel mentre Lino si aspetta di vedere comparire qualche carta o documento, con scatto estraggono le armi. 

Scostano un cliente, perché è Lino #Sabbadin che vogliono colpire. 

E allora prima un colpo, poi un altro, poi un altro ancora. Sette o otto colpi e Sabbadin cade a terra. 

Il corpo è martoriato da una raffica di pallottole. Tutto intorno, sangue. Nient’altro che sangue. Strazio e urla. 

La moglie, Amalia Spolaore, che in quel momento si trova in negozio tenta invano di soccorrere il marito. 

Il figlio Adriano che all’epoca aveva 17 anni ricorda tutto. Gli spari, le urla strazianti della madre e l’auto verde che sfreccia via. Tutto è ancora scalfito nella sua mente come quei proiettili sul corpo del padre. “Ricordo tutto – racconta – ricordo il grembiule bianco di mia madre completamente sporco di sangue. Quelle immagini sono vive dentro di me e ogni giorno è come se fosse quel giorno. Dopo 38 anni è sempre un’angoscia rivivere quei momenti e ancora oggi abbiamo paura. Nulla è cambiato da due anni a questa parte, dal giorno della visita del Ministro #Alfano. Nessun risultato abbiamo visto. Quello che ora chiediamo ancora una volta è #giustizia. Anche se ormai, io – sospira Sabbadin – non ci credo più. Vogliamo che Battisti sconti la sua pena in un carcere italiano. Che non si proclami innocente perché innocente non è”. 

Per quel #delitto gli assassini furono individuati in Cesare #Battisti e Diego #Giacomin. Battisti, la cui estradizione non è mai stata concessa, ora è in Brasile. Ha una vita, una figlia e si è risposato. 

I suoi reati sarebbero caduti in prescrizione nel 2013. Per lui che venne condannato all’ergastolo. Faceva parte del gruppo eversivo dei Proletari armati del #Comunismo e in suo nome e nel nome di questi ha ucciso. Così come quello stesso giorno, nel mentre a #Caltana #Venezia veniva assassinato Sabbadin, a #Milano veniva trucidato il gioielliere #Torreggiani. Anche qui la sua “colpa” fu quella di aver reagito a una rapina. Il figlio Alberto #Torreggiani che è ancora in vita e vive a Milano, durante la sparatoria rimase ferito. Da allora è paraplegico. L’impunità che si è guadagnato Cesare Battisti, nonostante l’ergastolo per essere stato riconosciuto colpevole di aver ammazzato quattro persone, non è degna di uno Stato di #Diritto. Non è degna di uno Stato di #Legalità. Non è degna di uno Stato di #Giustizia. 

I legali di Battisti addirittura a novembre scorso hanno presentato ricorso al #Tribunale supremo in #Brasile perché secondo loro e secondo il loro assistito, ci sarebbero pressioni dall’Italia per avere l’estradizione. Pressioni? Ben vengano. Ma la verità è che l’Italia ha fatto molto poco. Molto, molto poco. Fregandosene, perché tanto lui è lì. E noi siamo qui. 

Ma così. Così non si fa la #Storia. 

#buonanottesbetti

Lettera a Piergiorgio Baita 


Sono fiera. Sì sono fiera. Ieri sera sedevo alla destra di Piergiorgio #Baita. Presentavo il suo libro: “Corruzione. Un testimone racconta il sistema del malaffare”. Scritto con Serena Uccello giornalista de Il #Sole24Ore, accanto a me. Baita stasera non avrei mai smesso di ascoltarlo. Non mi sarei mai fermata. Ero letteralmente incantata.

Una persona di una intelligenza straordinaria. Enorme. Sopraffine. Spaziante. Una persona di una competenza disarmante. Un uomo che per il mondo dell’imprenditoria avrebbe ancora molto da dare, da dire. Molte cose che se fossero valutate potrebbero dare un contributo in più. E invece, purtroppo, come sempre accade a un popolo rimbigottito del proprio bigottismo, lui non potrebbe permettersi di raccontare cosa sia questa stramaledetta #corruzione.

Questa sera ho stretto la mano a uno dei primi testimoni dell’inchiesta #Mose che il giorno della retata storica ha portato all’arresto di ben 35 persone. Tra questi anche l’ex sindaco di Venezia, Giorgio #Orsoni e l’ex presidente del #Veneto, Giancarlo #Galan che secondo gli inquirenti avrebbe incassato mazzette per un milione l’anno. Uno scandalo che ha fatto letteralmente affondare il mondo politico della città lagunare e di cui Baita si trovò a essere il primo testimone dell’accusa.

È stato il primo a essere arrestato il 28 febbraio 2013. Lui, ingegnere, veneziano, 68 anni, ex presidente della Mantovani, ha lavorato per il Consorzio Venezia Nuova. Un consorzio formato da 52 imprese. Una sovrastruttura fatta di soggetti e corpi intermedi difficile da estirpare.

Baita per la sua accusa ha patteggiato una pena di 22 mesi per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di fatture false. Il suo è il punto di vista di chi la corruzione l’ha vissuta in prima persona, conoscendone e scavandone i meandri più oscuri, capendo alla perfezione riti, passaggi, usi, costumi, consuetudini, scambi, favori, mazzette, tangenti. Ha maturato l’idea che “la corruzione è un reato ma è anche un modello mentale, una stortura culturale”. Insomma è qualcosa di connaturato in noi. Di congenito. Per non cadere nel sistema della corruzione occorre che sia economicamente conveniente, altrimenti l’essere umano ci casca. Sempre.


Un sistema talmente strutturato e sovrastrutturato che come diceva Borsellino, in relazione al fenomeno mafioso, arriva quasi a sostituirsi allo Stato. La corruzione che per la stragrande maggioranza degli italiani è quel comportamento dietro scambio di denaro racchiuso in una norma del codice penale, in realtà è molto di più. È una sagoma scura che si trascina nei comportamenti umani, che agguanta le mani degli uomini con la ventiquattrore portandoli lungo le strade dell’illecito; una sagoma che piano piano avanza sovrastando l’Italia e il mondo intero. È qualcosa che coinvolge tutti. Tutti. Dal primo all’ultimo.

Ogni volta che qualcuno ci passa davanti a qualche concorso perché lo zio è amico con l’amico dell’amico dello zio, ci sta togliendo un diritto, e sta generando un nuovo favore. Sta togliendo un posto di lavoro a qualche altro magari più meritevole e sta togliendo il cibo a qualche famiglia che magari con quel lavoro ne traeva sostentamento. Da qui il sistema si inceppa. Cresce malsano. Storto. Storpio. Peggio cieco.

Perché qualcuno vede e tace. E chi non vede, è perché ormai è talmente naturale che tutto è diventato normale. Allora forse la testimonianza di qualcuno che nel malaffare c’era dentro fin oltre il collo, può servire a capire tante cose. “Ogni qual volta alle cronache finisce un processo per corruzione – ha detto Baita – questo dovrebbe essere l’occasione per cambiare”. Baita ha riconosciuto la sua responsabilità, ha fatto nomi, cognomi, soprannomi, ha tirato giù anche i santi, mancava soltanto il Papa. Credo abbia i titoli per dire cosa sia la corruzione. Perché altrimenti sarebbe come dire a una puttana che bazzica sulla strada che non può raccontare il mondo della prostituzione perché il popolo è bigotto e certe cose non vuole sentirle dire.

Vanno dette. Tutte. Fino all’ultima goccia.

#buonagiornatasbetti