Il sangue sull’asfalto. Lui ha agito con una ferocia inaudita

Il sangue sull’asfalto farebbe trasalire chiunque.
Quello è l’unico segno tangibile che abbiamo, visibile di lei, in questi giorni. Delle macchie lì. Che trasudano disperazione. Che paiono vive. Schiantate a terra. Rosse come la morte.
Il resto.
Il resto sono mazzi di fiori che spuntano ovunque davanti casa. Candele. Cuori. Lettere. Nastri colorati. Pupazzi. Peluche. Fotografie. Orsacchiotti.
I fiori spuntano come funghi. Li vedi a ogni ora proliferare. Aumentare. Nel giro di mezza giornata invadono tutto il marciapiede. È una processione senza fine. I fiori brulicano come tanti piccoli animaletti colorati. Fucsia. Rossi. Gialli. Arancio. Arancioni.
Li portano i bambini. Le donne. Le mamme. Gli anziani. I vecchi di paese. I giovani. I padri. I genitori. Vengono tutti qui a rendere l’ultimo omaggio a Giulia.
Il resto lo vedi nei ricordi. Nelle foto. Di lei, così bella e spiritosa sempre in movimento che non stava mai ferma. Il resto di lei lo vedi negli occhi della sorella. Del padre. Della famiglia.
Lo vedi nei volti rigati di pianto. In quegli occhi gonfi di lacrime e disperazione. Filippo Turetta era “ben consapevole della gravità delle sue azioni”, scrive il gip di Venezia, dal momento che, dopo aver scaraventato Giulia a terra, causandole una lesione alla testa con perdita di sangue, è fuggito.
Giulia infatti ha lottato. Ha lottato con tutti gli ultimi brandelli di vita che le erano rimasti attaccati addosso per quasi 25 minuti prima di arrendersi al suo carnefice. Ma Giulia non si è arresa. È stata ammazzata.
Scrive sempre il gip di Venezia, Filippo “appare un soggetto totalmente imprevedibile poiché, dopo avere condotto una vita all’insegna di un apparente normalità, ha improvvisamente posto in essere questo gesto folle e sconsiderato”, si legge nell’ordinanza.
E sussiste il pericolo che reiteri condotte violente nei confronti di altre donne”.
Era l’11 novembre scorso. Giulia e Filippo si trovano. Dopo una serata passata a scegliere il vestito per la laurea – lei mai avrebbe potuto immaginare cosa le sarebbe successo – Giulia e Filippo litigano nel parcheggio a 150 metri di distanza da casa di Giulia.
Litigano proprio qui. Qui dove ci sono le macchie di sangue. Alle 23.18 un testimone sente delle grida. Grida di donna. E così per farla tacere lui forse le mette del nastro adesivo in bocca.
Nel parcheggio di via Aldo Moro la ragazza “viene aggredita con ripetuti calci mentre si trovava a terra, tanto da farle gridare “mi fai male” invocando contestualmente aiuto” probabilmente accoltellata, quindi costretta a risalire in auto e a continuare quel viaggio fino alla zona industriale. Sono circa quattro chilometri che si percorrono in auto in sei minuti.
Alle 23.29 la Fiat Punto attraversa la zona industriale di Fossò, due minuti dopo viene catturata da una telecamera di video sorveglianza.
Le immagini del sistema di due ditte vengono sequestrate. Saranno le telecamere dello stabilimento Dior che permetteranno di ricostruire quanto accaduto.
Sono le 23.40.
Una persona fugge lungo la strada della zona industriale e viene inseguita da un’altra “più veloce, che la raggiunge e la scaraventa a terra”.
Dalle immagini si vede “che il soggetto che insegue è vistosamente più alto del soggetto inseguito”. Giulia era alta circa un metro e sessanta. Filippo un metro e ottantotto.
Poi la figura più piccola, Giulia, viene spinta. “Cade violentemente a terra, all’altezza del marciapiede, e dopo pochi istanti non dà segno di muoversi”.
Giulia morirà per “shock emorragico”.
Alle 23.50 l’auto di Filippo transita, con il corpo di Giulia nel bagagliaio, verso Varco Nord Uscita via provinciale Nord. L’auto si dirige verso Noale (Ve), quindi 43 minuti dopo la mezzanotte è già a Zero Branco, in provincia di Treviso.
Lui percorre più di cento chilometri. Poi si disfa del corpo di Giulia e scappa in Germania.
Non veniteci a dire che è solo cronaca.

sbetti

Parcheggio di via Aldo Moro, Vigonovo (Ve)

Mestre. Quei corpi carbonizzati tra le lamiere

Guardatela bene questa foto. L’ho scattata ieri sopra il cavalcavia di Mestre. Guardate il parapetto.
Ieri mattina sono uscita di casa per girare i servizi e il cielo sapeva di cenere. Aveva il colore plumbeo, del colore del piombo, opprimente, cupo, fosco, grigio, livido.
Toglieva il fiato da quanto cupo era.
L’odore oggi, qui sopra, era quello della morte.
L’aria è quella ferma rappresa di chi non crede ai propri occhi.
Il cielo è quello grigio cinereo che sa di corpi carbonizzati tra le lamiere.
Qui martedì sera, proprio qui, in questo punto maledetto, un autobus con a bordo dei turisti stranieri, ha sfondato il guard rail e il parapetto, ormai vetusti, e che “sembrano di cartapesta”, precipitando giù dal cavalcavia e schiantandosi al suolo.
Del resto basta guardarli questi parapetti, questi guard rail, così arrugginiti, così rancidi, così sbilenchi.
Non riuscirebbero nemmeno a sorreggere una bici, figuriamoci un bus di 13 tonnellate. Peccato che un guard rail, qualora ci fosse stato in quel punto, dovrebbe essere omologato per sorreggere un autocarro di 67 tonnellate.
Il bilancio è stato pensantissimo. 21 morti. 21. E 15 feriti. Tra le vittime anche un neonato. E un neonato che invece si è salvato. Del resto è così la vita, con una mano ti dà, e con l’altra ti toglie.
Un cavalcavia vetusto questo. Che c’ha oltre 50 anni, le cui barriere di protezione che sembrano ringhiere delle galline nei cortili, dovevano essere sistemate e rifatte anni e anni fa. Ma niente è stato fatto, oggi ho parlato con assessore e mi ha detto che non c’erano i soldi, che quel cavalcavia in effetti è un obbrobrio.
Il 4 settembre scorso in questo cavalcavia sono partiti i lavori e cantavano tutti in coro: “Sicurezza nelle strade, mai più vittime”. Oggi ho letto anche nella cronaca locale che qualcuno ha detto; “Tragedia che annulla le differenze politiche”.
Ma de che? Che vuol dire?
Invece piuttosto, chiedo, perché i lavori non sono stati fatti quando dovevano essere fatti? La tragedia del cavalcavia di Mestre si poteva evitare?
Il ponte Morandi insegna.
Oggi fuori dell’ospedale c’era il viavai di gente. I giornalisti però non potevano entrare perché come al solito ti dicono quello che devi dire e scrivere. Qui è stata allestita una stanza per i parenti delle vittime. Le persone si sorreggevano l’un con l’altra. Controllavano i documenti, parlavano con gli psicologi.
Fuori dall’obitorio ero uno strazio continuo. E qualcuno mi parla di differenze politiche.
Nel triste e forsennato berciare di tutti, un miracolo però è avvenuto.
Quel neonato sopravvissuto alla strage. È rimasto inviluppato tra i rottami dell’autobus accartocciato, rannicchiato forse tra i corpi di padre e madre che evidentemente prima dello schianto, in questi istanti orribili mentre l’autobus cadeva, hanno tentato il tutto e per tutto per salvarlo.
Una reazione istintiva in questo immenso miracolo della vita che fa i conti con l’agonia della morte.
Oggi sulla Verità. E ieri sera a Fuori dal Coro.

sbetti

Ph: Serenella Bettin

La furia della tempesta 🌩️

In alcune regioni del Nord Italia martedì e mercoledì si è abbattuta la tempesta. Ieri ve ne ho parlato su La Verità. Il cielo si è fatto torbido. Il buio ha iniziato a camminare con passo solenne. Le nuvole si sono appesantite, increspate, il vento ha iniziato a soffiare e quel pennone tricolore affisso sul tetto di una casa ha iniziato a sventolare.
Sono all’incirca le otto di sera, il Veneto è nella morsa del caldo afoso, quello torbido, quello che fa mancare l’aria. La temperatura segna i 36°, quella percepita per l’umidità è di 38°. Qui lo sanno cosa vuol dire convivere con l’umidità che ti si incolla addosso, quando prendi i giornali la mattina e si bagnano. Lo sanno cosa vuol dire convivere con l’afa. È sempre stato così. L’afa quando è troppa, porta tempesta e grandine. È il buio e la luce. Lo yin e lo yang.
Mercoledì sera l’afa ha iniziato a diminuire. Lo senti quando diminuisce, si forma una brezza leggera che sembra dolce ma per chi vive qui, preannuncia l’Apocalisse.
Bastano pochi minuti e il vento prende forza, 7 nodi che diventano 8, 9, 10.
L’altra sera la gente ha iniziato a chiudere tutto, le auto che erano per strada hanno cercato riparo, tutto dentro casa con le finestre aperte ha preso a volare, a sbatacchiare, a rovesciarsi. Le zaffate di vento erano così forti che parevano onde ciclopiche. E tutto intorno erano fulmini, lampi, tuoni.
Qui l’8 luglio 2015, lungo la riviera del Brenta, nel veneziano, ci fu un tornado, un F4, con venti a 300 chilometri orari.
La gente lo sa bene cosa vuol dire trovarsi la casa scoperchiata da un minuto all’altro.
Fu l’apocalisse che spaccò in due il cielo.
Dove il tornado passò non lasciò nient’altro che distruzione e disperazione.
E mercoledì sera le tegole sono venute giù come carte da gioco mosse da un soffio, il vento aveva una tale furia che ha sradicato alberi, pali della luce, alcuni parevano staccarsi da terra, stroncarsi, pareva l’inferno. I chicchi di grandine hanno iniziato a cadere come palle dal cielo…

Qui il mio pezzo 👇🗞️✍️

sbetti

“Spogliati, qui siamo tutti scambisti”

L’ entrata a coppia la prima volta costa 90 euro. Se sei sola paghi molto di più. Per entrare devi fare una tessera. La tessera è quella dell’associazione AssoLocali, un movimento “che tutela e favorisce la crescita dei diritti e delle libertà individuali”. Se entri accetti di vivere l’amore come qualcosa di fluido, di liquido, dai contorni non ben definiti. Decidi di vivere un amore rispettoso delle libertà sessuali di ciascuno. Sono in Veneto. Ed è un martedì sera. Sono all’incirca le 20.30 e provo a entrare in questo locale. L’insegna che luccica nel mezzo di questa zona industriale passa quasi inosservata. Sembra una spa per naturisti, ma dentro si nasconde una realtà diversa. Questo è un locale per scambisti. Scambi di coppia, di mariti, di mogli, di amanti. Uomini con altre donne, donne con altri uomini, uomini con uomini, donne con donne, bisex, accoppiamenti a tre. Appena entri ti danno l’asciugamano, le ciabatte e le chiavi del tuo armadietto. Una porta divide lo spogliatoio dal luogo del proibito, dove dentro accade di tutto. Qualsiasi oggetto viene lasciato fuori. Compreso lo smartphone, pena l’espulsione dal locale. Cerco di fare in fretta, sono nervosa, la persona che mi accompagna è un affezionato di questi luoghi, ma io. Io no. Non si entra vestiti, non è ammesso alcun indumento, se non un semplice e leggero asciugamano. Dentro sono tutti nudi. Mi faccio coraggio, mi spoglio, indosso velocemente l’accappatoio, chiudo tutti i miei abiti nell’armadietto, infradito ai piedi e sono dentro. La prima persona che incontro è un ragazzo. È giovane. Ha il viso dolce. Chiedo come funziona, se c’è qualche spettacolo, cerco di informarmi sul proseguo della serata. Mi risponde in modo garbato, educato, mi dice che la zona dove ci troviamo ora è quella delle stanze da letto, dove la gente si apparta, poi ci sono la sauna, la piscina, la sala fumatori, la zona relax. Mi guardo attorno, dentro fa troppo caldo. Alzo lo sguardo verso il termostato: segna 28 gradi. D’improvviso mi manca l’aria: qui tra il calore, la nudità e l’imbarazzo la pressione si fa sentire. Entro in una stanza dalle pareti gialle che si colorano di arancione a seconda della luce, davanti a me un quadro raffigura una donna che fa l’amore con un uomo. “Far l’amore”, chissà se qui si dice così penso. È una stanza piccola dove dentro “si può entrare fino a un massimo di tre persone”. Alla parete, appese ci sono delle corde. Le usano per legarsi e legare in quella pratica chiamata bondage. Il ragazzo mi spiega che nel bondage non è obbligatorio il rapporto sessuale. In altre stanze poi si usano corde, catene, manette, polsiere, cavigliere. Un altro giovane mi dice che c’è un’altra pratica, lo Shibari, che prevede l’utilizzo di corde ed è quella che sprigiona l’energia passionale attraverso l’ascolto e l’atmosfera rituale. Un mix di meditazione, erotismo e una tecnica da eseguire celebrativamente passo dopo passo. L’obiettivo è stimolare alcuni punti, ogni nodo ha il suo significato e trae origine dall’immobilizzazione dei prigionieri. Mi guardo attorno. Tranne due, tre giovani, la media d’età è abbastanza alta. Mi infilo nei corridoi, nei cunicoli bui e nelle stanze “da letto”. Alle pareti ci sono specchi ovunque. Vedo la gente che inizia a sfilarsi gli asciugamani. Sul muro di una stanza ci sono tre fori, mi spiegano che serve ai guardoni, per vedere quello che fanno, o serve agli uomini in piedi appostati, per far sì che le donne possano avvicinarsi ai loro membri. Procedo e la vista si apre su una piscina. “Vietato consumare in acqua”, c’è scritto su un cartello, ma un uomo mi dice che “tanto lo fanno tutti”. In piscina saranno sette, otto, vedo la gente baciarsi tra di loro, prima lei che bacia lui, poi lui che bacia un’altra, poi lei che bacia quell’altro ancora. Un’orgia di baci a 30 gradi centigradi. Poco più in là, stesa su un divanetto c’è una coppia: stanno consumando davanti a tutti. Entro nella sala dove gli uomini aspettano le moglie degli altri. Mi fingo un’insegnante di lettere. Qui se non consumi o non ti spogli, iniziano a capire che qualcosa non torna. “Io vengo qui spesso”, mi dice un uomo. Avrà all’incirca 50 anni, ma il buio e il vapore non rendono ben nitidi i lineamenti. “Sono qui con la mia compagna, anche lei pratica lo scambismo. Lo facciamo per evadere dalla routine: lei va con qualcun altro e io con qualche altra, però dobbiamo essere nella stessa stanza così l’uno vede quello che fa l’altro e viceversa. Questa cosa ci eccita tantissimo”. “Io con mia moglie ormai non faccio più nulla – mi racconta un altro – c’è un rapporto talmente speciale tra noi, che va oltre, e se vogliamo fare sesso veniamo qui”. In questa stanza ci sono quattro letti e quando si riempie, accade che tutti consumano. Incontro un ragazzo che si vuole appartare, mi chiede di chiudere la porta. Io svolazzo via fingendo di dover andare in bagno. Mi si avvicina un anziano signore, ha quasi ottant’anni, mi spalma l’olio su una mano, mi dice che fa miracoli. Anche il massaggiatore del locale ha il suo bel da fare. In fila ci sono le moglie degli altri che aspettano di essere massaggiate. “Sai quanti uomini mi dicono di preparare la moglie per farla godere più a lungo?”. Qui c’è anche qualcuno che per non venire da solo, si porta l’escort da fuori. Sono l’unica ancora in accappatoio. Ormai gli sguardi sono su di me. Capisco che è il momento di andarsene. Cerco una via d’uscita. Rientro in spogliatoio, mi vesto in fretta, tiro su la roba. C’è una donna che ci vuole provare, la saluto e sgattaiolo via.

Serenella Bettin

Il mio pezzo uscito su Grazia del 30 marzo 2023

La grande sete

Ho camminato sopra il letto di un fiume. E non è una bella sensazione. La grande sete…

Il mio servizio andato in onda su Mediaset Rete4

#sbetti

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/allarme-siccita-scompaiono-le-risorgive_F312335901009C16

Onichini fuori dal carcere. Ma chi gli ridà indietro questo tempo?

Walter Onichini è uscito dal carcere. La famiglia è andato a prenderselo lunedì pomeriggio e l’ha finalmente riportato a casa.
Ancora ricordo il giorno che incontrai la moglie Sara.
Era un giorno di settembre. Erano due anni fa. Sara era lì che mi aspettava sul cortile di casa intenta a fumare una sigaretta. Il fisico asciutto. Il volto magro. Smunto. Lo sguardo fermo. Ferreo. Il marito glielo avevano portato via qualche giorno prima ed era in cella di isolamento. Come i mafiosi. Come i delinquenti. Come gli stupratori. Come quelli che ammazzano di botte la moglie (è accaduto veramente).
Era il 13 settembre 2021.
Il primo giorno di scuola dei figli. Manco la clemenza di aspettare.
Parlammo tutto il pomeriggio quel giorno.
Io seduta a un lato del tavolo. Lei da quell’altro mi stava difronte. Riuscivo a scorgerne tutte le sfumature, tutte le paure, le angosce, i pianti mancati, le parole non dette. Riuscivo a cogliere tutta la disperazione di quella donna che in quel momento mi stava affidando se stessa.
Il figlio quel pomeriggio giocava a calcetto. Aveva lo sguardo triste. Desolato. Come quello di qualcuno a cui manca un pezzo. Come quello di qualcuno abituato a camminare con una guida al fianco e all’improvviso questa guida scompare. Svanisce. Non c’è più. Dall’oggi al domani ti viene tolta. Terribile. In quei momenti ti senti come ti mancasse un braccio. Una gamba. L’esofago. L’aria. Per giorni. Mesi. Forse anni, ti pare di camminare e non puoi fare a meno di voltarti. Ti volti e non vedi nessuno. Ti hanno abbandonato. Quello che c’era prima non c’è più. E devi solo rimboccarti le maniche. “Dai amore vai a fare i compiti”, gli disse Sara. E lui andò. La figlia invece, l’altra, aveva appena compiuto sette anni. Subito lì, così. Subito dopo l’incarcerazione del padre. Sopra lo stendino quel giorno c’erano ancora le camicie del papà. La bimba le guardava e a me veniva il magone. “Se vuoi facciamo un’altra volta”, dissi a Sara. “No, no. Tranquilla – mi disse guardando i bimbi – loro sanno tutto”.
A quel tempo Onichini era ancora in carcere a Venezia. Aveva chiesto il trasferimento per comodità a Padova ma il trasferimento non arrivò subito. La moglie poteva vederlo tre volte al mese. Più tre videochiamate. Manco i pentiti.
Onichini era finito in carcere perché, questo padre di famiglia, di professione macellaio, nella notte del 21 luglio 2013 aveva sparato al ladro che gli era entrato in casa, ferendolo.
Dopo averlo caricato in auto, l’aveva lasciato in un campo a pochi chilometri dall’abitazione.
E così la Cassazione aveva deciso di condannarlo a 4 anni, 10 mesi e 27 giorni di reclusione.
Ma lui di professione non fa il delinquente. Non ama delinquere. Non è come quelli che ti entrano in casa senza permesso incappucciati e armati. Lui quel giorno si è difeso. E gli altri giorni andava a lavorare.
Allora ricordo che ci furono alcuni passaggi della chiacchierata con Sara che mi rimasero particolarmente impressi. E fu quando lei mi raccontò con una calma e una tranquillità invidiabili, cosa accadde quella notte. Il loro timore per il figlio di 21 mesi. E la paura. Il terrore. L’angoscia di non sapere che fare. Quella vita che cambia nel giro di un baleno. “La vita che non è più la stessa, non torni più a vivere come prima. Io faccio fatica. La sera sono a casa con loro e mi pesa. Ho avuto periodi d’inverno, in cui non andavo nemmeno a portare via le immondizie”. Già.
La notizia della sua scarcerazione è una bella notizia sì. Potrà stare a casa in affidamento in prova ma pur sempre a casa.
Ma mi chiedo, visto che viviamo nel Paese che risarcisce i delinquenti che ti entrano in casa, chi mai risarcirà questo padre e questa famiglia per tutto quello che hanno passato? Per i giorni tolti. Per le mancanze. Le ingiustizie. Chi ridarà questi giorni a Walter?
Quel giorno quando mi azzardai a chiedere a Sara cosa avesse raccontato ai figli, lei mi rispose: “Ho sempre raccontato loro la verità. Quando li ho portati davanti al carcere mi hanno ringraziato. Ma per loro è tutto bianco o nero e non capiscono. Mi chiedono: “mamma, ma perché papà deve andare in carcere se ha sparato a una persona cattiva?”.

sbetti

Venezia senza veneziani

Libero – 18 agosto 2022

Te la ricordi Venezia piena solo di veneziani?

Oh sì che me la ricordo. Erano i tempi del covid. Dove Venezia era vuota scarna magra, metteva l’angoscia. Giravi per mezz’ora e non trovavi anima viva. Quando hanno riaperto poi, in giro vedevi i veneziani correre e fare jogging. Jogging capito. Jogging. Vedere a Venezia qualcuno che pratica la corsa è surreale. Ante pandemia era impossibile. Sia in estate che in inverno non c’era un metro quadrato libero. La gente si accalcava sulle calli, si accoccolava davanti le vetrine, con le mani impiastricciate di gelato si ammucchiava ovunque. E Venezia resisteva. Ha sempre resistito. Ha resistito con l’ “Aqua granda”, 4 novembre 1966. Ha resistito con l’acqua alta, 12 novembre 2019. I commercianti spalavano secchiate fuori dai negozi e l’acqua ritornava indietro. “Uno. Due. Tre”. E a ogni secchio era un “ti ta morti cani” e a ogni “ti ta morti cani” era una bestemmia. Ha resistito al covid. Alla chiusura. È rinata. È riesplosa in tutta la sua bellezza. Questo museo a cielo aperto dove ovunque ti giro ci vedi l’anima perfino di una colonna. Ha resistito al trotterellare dei trolley, alle cavalcate dei turisti, a chi correva a destra, a sinistra, in una sgambettata senza fine. Ha resistito ai turisti cafoni. A chi l’aveva presa come pisciatoio, come sessodromo, come vasca da bagno.

Ma oggi. 

Oggi Venezia sta scendendo. La sua popolazione la sta abbandonando. Venezia in centro storico è scesa sotto i 50 mila abitanti. Se vai in campo San Bartolomio ci vedi il “contaveneziani”. L’hanno messo lì, lampeggiante, in una farmacia. A ogni veneziano che muore o se ne va, il “contaveneziani” scende. E lo fa con una facilità estrema. Fuori uno. Fuori due.

Due anni fa c’era una coppia, gestore di un negozio alimentari in piedi da 113 anni, che non trovava veneziani a cui cedere l’attività. Se provi a cercare casa idem. A Venezia è impossibile. Ti viene voglia di guardarla, scrutarla, assaporarla e poi prendere e andare via. Non c’è un affitto che sia proponibile. Chi affitta, lo fa solo a turisti o studenti. Il prezzo dell’affitto sale, il periodo è breve e si guadagna di più. “Non è che i veneziani non vogliono più stare a Venezia – confida a Libero il manager di un noto e prestigioso hotel che preferisce mantenere l’anonimato – è che chi vorrebbe venire a vivere in questa città incontra tutta una serie di problematiche. L’affitto improponibile, la qualità dell’ immobile inaccettabile. Qui ci abbiamo perso tutti. Ovvio che per noi è meglio avere i turisti, ma i veneziani per dire dove vanno fuori a cena? Se ne vanno perché in alcuni periodi qui ti senti invaso, ti manca l’aria, c’è l’impossibilità di godere dei propri spazi. Questo è dovuto anche a chi, avendo una casa, ha deciso di metterla in affitto e fa locazioni brevi. Non incontrerà mai residenti”. Basta passarci per le calle veneziane. Può capitare di fermarti su un palazzo dove su dieci campanelli, otto sono bed and breakfast. Persone di nostra conoscenza sono state “sfrattate” perché dove abitavano ci hanno fatto un affitta camere. “Non è che meno veneziani porti un aumento del turismo – ci dice il manager – l’ affluenza è dettata dalla destinazione, dagli eventi che propone. Ovvio che vorremmo tornassero i turisti che spendono. Certo che i clienti che vengono trovano una città svuotata della sua anima”.

Insomma uno choc. “Lo choc dei 50 mila c’è – dice Renato Brunetta, ministro, che di Venezia se ne intende – ma è relativo. Bene che se ne parli perché suona come un campanello d’allarme per poter fare un ragionamento più ampio. Quello che sta subendo il centro storico è identico a quanto accade a Firenze, Milano, Roma, dove i centri si svuotano di funzioni urbane standard a favore del turismo. Con quello di massa si sviluppano servizi che hanno sempre meno bisogno di residenti per vivere. Bisogna agire con progetti, ed è quello che stiamo facendo con Venezia capitale della sostenibilità”.

C’è anche chi lancia un monito all’amministrazione comunale. “Ai 49 mila abitanti – dice Claudio Scarpa, direttore associazione veneziana albergatori – vanno aggiunti i 25 mila del Lido e i 5000 delle isole. Il vero allarme è l’indice di invecchiamento. Per ogni bambino da 1 a 14 anni ci sono tre vecchi sopra i 60 anni. Noi chiediamo all’amministrazione di dare non più le case in base al reddito, a chi appare essere povero, ma solo a chi ha moglie e figli”. Ma il sindaco della città lagunare, Luigi Brugnaro, vorrebbe contare anche i domiciliati. “L’anagrafe tiene conto solo di una parte delle persone che vivono abitualmente in città, ossia i residenti – dice l’assessore ai servizi al cittadino Laura Besio -per superare questa criticità, il sindaco aveva annunciato di “aprire la quota dei domiciliati, affinché si registrino come tali”. E intanto Venezia perde veneziani.

Serenella Bettin

La mancanza d’acqua è dovuta alla sciatteria italiana

Nel triste e operoso Veneto manca l’acqua. Stamattina in alcune zone molte famiglie si sono svegliate senza acqua. Sicchè una persona che conosco, di ritorno dal lavoro, siccome era tutta sudata mi ha raccontato che si è fatta la doccia con le bottiglie dell’acqua minerale. In alcuni comuni poi hanno vietato di innaffiare gli orti. E come ai tempi del covid hanno sguinzagliato i vigili urbani per fare i controlli. Aiuto. Aiuto. Mamma mia che paura. Qualcuno ha parlato di lavoro alla rete idrica. Ma bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno.
Ossia che per anni i Comuni e le amministrazioni comunali se ne sono strachiavati di attuare politiche di contenimento e di risparmio e hanno sperperato uno dei beni più essenziali che abbiamo. L’acqua. Ho visto comuni adoperare questo bene prezioso per dare da bere a fontane totalmente inutili con monumenti alquanto orribili fatti da un artista improvvisato che percepisce contributi per dipingere coglioni.
Ogni anno, dati alla mano, più di un comune su tre disperde nel sottosuolo il 50% di acqua e a volte anche 80. Le perdite della rete idrica al Sud pensate sono del 48%. Al Nord del 28%. Poi dopo un po’ torna a piovere e ce se ne fotte allegramente. Chi deve amministrare sostanzialmente se ne frega della mancanza di acqua avuta e torna a battagliare in consiglio comunale per il colore delle poltrone durante il cinema all’aperto.
Del resto questa è la sciatteria italiana. Dovuta a gente che il giorno delle elezioni si presenta davanti le scuole elementari e poi quando la incontri durante l’anno manco ti saluta.
Il problema non è il cambiamento climatico – il mondo evolve, i cavernicoli dovrebbero essersi estinti da un pezzo – ma in tutti questi anni non c’è stato un comune, dico uno, che abbia cercato di risolvere il problema della siccità – che si presenta ciclicamente – e che sia stato così talmente intelligente e lungimirante da attuare politiche di contenimento e da riparare i guasti alle reti idriche.
Alle società che trasportano l’acqua a giudicare da tutte le volte che sono finite davanti i giudici, non chiava una sega della vostra acqua. Per loro l’acqua, col benestare dei comuni che danno gli appalti e ci fanno accordi, è gratis.
Ci sono zone d’Italia ridotte con le pezze al culo, senza acqua, che sperperano il bene incolore inodore e insapore perché le reti idriche non vengono riparate.
Sono anni che sento che c‘è il problema sprechi e ogni anno le campagne elettorali si basano su politiche che usano come preservativi le bandiere del lavoro ai giovani, della forza lavoro, della sostenibilità, della flessibilità, di tutte quelle altre minchiate a cui poi non fanno seguito. Dato che la sostenibilità non sanno manco cosa sia. Dato che il lavoro non c’è. E se c‘è, siamo arrivati al paradosso per cui non ci sono i lavoratori.
E dato che promettono anche meno tasse ma ogni anno i balzelli aumentano.
Non c’è stato un sindaco. Dico uno che si sia interessato di rimettere mano ai tubi. Di controllare la reti idriche. Di fare in modo che i contadini che hanno la fontana a casa – non curanti che devono sentire il rumore dell’acqua – a qualche ora del giorno e della notte la spengano, così da consentire un risparmio. No.
Dieci anni che faccio la giornalista e mi sono accorta che in questo Paese non c’è posto per il buon senso. Per le cose sensate. Per le cose lungimiranti. In questo Paese c’è posto solo per la gente totalmente incapace che crea danni anziché evitarli. Vedi il Ponte Morandi. Ci siamo accorti che le strade e i ponti hanno bisogno di manutenzione, che non basta tirarli su una volta e poi chi se ne frega. Per il principio per cui anche gli esseri umani non vanno al cesso solo una volta ma ci vanno quando serve, anche i tubi vanno mantenuti perché anche a loro ogni tanto scappa pisciare.
Vi auguro un buon sabato.

#sbetti

Peschiera del Garda. La guerriglia poteva essere evitata

Libero – martedì 7 giugno 2022

Non ne ha più per nessuno il sindaco di Peschiera del Garda, Maria Orietta Gaiulli. Soprattutto dopo che ha mandato una richiesta di aiuto via pec al ministro dell’Interno, tale Luciana Lamorgese, che manco le ha risposto.Sono giorni che la stampa nazionale tratta gli obbrobri dei nordafricani a Peschiera ma la Lamorgese vogliamo pensare non abbia letto i giornali o guardato le televisioni.“Questa guerriglia poteva essere evitata – sbotta il sindaco con Libero – Bisognava esserci il 2 giugno per capire cosa è successo. Qui c’è un problema serio. Non tiene più il tessuto sociale”. E infatti. Il raduno è stato annunciato su TikTok da ragazzini immigrati che abitano in Italia.L’ hanno chiamato “Giornata Africa” e a Peschiera si sono riversati in massa.“Chi vince oggi?”, chiedevano. “I neri? I bianchi? O i blu?”. I neri sono loro. I bianchi siamo noi. I blu sono i poliziotti. “Avevano iniziato già nel 2020 a fare questi raduni – ci spiega il sindaco – ma all’inizio erano un centinaio. Sempre nordafricani. Vengono dalle città lombarde, scendono alla stazione di Peschiera del Garda che è l’unica centrale e vicina alla spiaggia e fanno quello che vogliono. Nel 2020 si è riusciti a contenerli. Poi sono diventati sempre più”. E infatti. Nel 2020 erano cento. L’anno scorso 400, dove c’è scappato anche il morto, e quest’anno 2500.“Avanti di questo passo arriveremo a 10 mila. Qui c’è un vero e proprio problema e io l’avevo detto”. Il sindaco il 30 maggio scorso aveva mandato una pec alle forze dell’ordine e a tutte le autorità preposte al fine di evitare disordini nel suo comune. Il giorno dopo poi, vedendo i video che giravano nei social, con tanto di scritte: “L’Africa a Peschiera”, “spacchiamo tutto”, “facciamo casino”, aveva mandato un’altra mail al comandante provinciale dei carabinieri, al questore, al prefetto, girando loro il video e dicendo sostanzialmente: “State attenti, guardate cosa sta per arrivare”.E infatti. Le previsioni come un meteo che ci azzecca si sono avverate. Questi si sono ritrovati e hanno iniziato a devastare, prendersi a botte, saltare sulle auto, mollarsi coltellate, molestare le ragazze. È accaduto che sei ragazzine di ritorno da Gardaland siano state pesantemente palpeggiate sul treno che da Peschiera le riportava a Milano. A oggi trenta in totale gli identificati tra molestatori e vandali. “Non le dico cos’hanno fatto – dice il sindaco – a un signore di 81 anni volevano gettare la vespa dentro al lago, hanno inveito contro le famiglie, spaccato tutto; veri e propri vandali, risorse come li chiama la Boldrini. E sarà sempre peggio perché rispetto agli anni precedenti sono aumentati in maniera esponenziale”. Da dire che un raduno era previsto anche per il 4 giugno ma non c’è stato, data la presenza massiccia di forze dell’ordine. Il sindaco di Castelnuovo del Garda Giovanni Dal Cero ha firmato un’ordinanza che vieta la detenzione e il consumo di bevande alcoliche di qualunque gradazione tutti i sabati e le domeniche fino alle 6 del lunedì. Questo fino a lunedì 26 settembre 2022. E in più ha vietato quelle orribili casse portatili che vanno di moda adesso e che sparano musica a palla in mezzo alla gente. “Io non ci sto – conclude il sindaco di Peschiera – chiedo che il servizio di potenziamento rimanga tutto il periodo dell’estate perché così non reggiamo. Peschiera conta 9 agenti, tra cui 5 donne”.La Lamorgese finora ha risposto col silenzio.

Serenella Bettin

Libero martedì 7 giugno

Perdersi a Venezia, parte seconda

Dal diario di Facebook – 4 giugno 2021

Insomma è successo. È ricapitato. Corro tutta trafelata verso l’Arsenale, in una mano la borsa e il tablet; in spalla la macchinetta fotografica che sega e segna a metà la pelle e nell’altra mano la sigaretta. Svolto all’angolo. E Dio solo sa quale angolo abbia svoltato che ti vedo entrare dentro una chiesa Alessandro Marzo Magno. L’ho riconosciuto subito stavolta. La camicia inconfondibile. Il passo anche. Il protrarsi in avanti in segno di interesse. Così sono rimbalzata dentro la chiesa. Gli ho bussato su una spalla e gli sono sbucata accanto. “Ancora tu, vedi che stavolta ti ho riconosciuto”. Non era così sorpreso di vedermi. Come se se l’aspettasse. Ci sono quelle cose che senti quando stanno per accadere. Scambiamo due parole e mi fa. “Ti faccio vedere una cosa in un posto qui vicino se hai un minuto”.

Il posto è in una corte. Si chiamano così qui i cortili. Ha il più vecchio capitello di Venezia. Con gli animali scolpiti che sembrano vivi. Con quelle bocche che ti guardano per gridare ai cattivi. Nel mondo dei draghi e dei rapaci ci sono membra per terra, scheletri, ossa. La corte è sul grigio. Grigio dopoguerra. “Ti porto a vedere anche la Corte più bella di Venezia”. Ok! La corte si chiama Corte de la Terrazza. Ed è chiusa. Il Palazzo è quello dei Magno. Fuori ci sta un cancello. Le sbarre. Chiuso a chiave. Ancora non si immagina della bellezza che ci sta dietro. Lui suona il campanello. Qualcuno risponde e dice: “Sono Alessandro Marzo Magno, devo venire a vedere la Corte”. La Corte oltrepassato un porticato dove fuori sbuca un gatto, sta su in cima a una scalinata. Ripida. Come quelle di una volta. Un palazzo del 1500. Sotto ci sta un pozzo e un pavimento che ancora conserva gli intarsi del tempo. Poi. Poi arrivati in cima, una bellezza stracolma. I fiori colorati di rosa rosso e viola e d’azzurro fuoriescono dai vasi. Le piante attaccate alle pareti sbucano feconde. Ci stanno anche i fiori gialli. E ci sta pure una statua che a me sembra bella. Perché ci sta la tipa che porta l’acqua. Poi è tutto un susseguirsi di archi, davanzali, piante verdi, merletti. I mattoni incastonati gli uni con gli altri formano un puzzle perfetto. Impossibile riprodurlo. Una volta erano più evoluti penso. Volgo lo sguardo al cielo. Qui ci abitano. Un posto insolito per Venezia. È ora di andare. Gli dico grazie. Mi accendo una sigaretta e mi rimetto in marcia…

#sbetti

Qui si condividono le storie. E non durano 24 ore

Pasquetta 2021

Ci sono posti nella vita che vedi una volta e te ne innamori. A volte basta poco. Pochissimo.
Un messaggio che ti sveglia la mattina. Quei messaggi che ancora dentro al letto, lanci le gambe e ti catapulta di fuori.
Una persona conosciuta così, un po’ per caso. Un po’ strada facendo. Un po’ così com’è il nostro lavoro. Che ci porta a vivere a trecento. Che ci fa tessere contatti relazioni legami rapporti. Che poi nascono. Crescono. Muoiono. Diventano qualcos’altro. Si trasformano. Si materializzano. Si cristallizzano. Tessendo le tele del nostro vivere.
Un dire sì ci sono, anche se sei a 100 chilometri di distanza. Un po’ così. Com’è il nostro lavoro del prendere e partire all’ultimo. Ci sei. Ok. Prepara la borsa. Andiamo.
Un po’ così com’è il nostro lavoro che ci porta a conoscere persone, a incrociarne gli sguardi, a vederne i volti. Ad ascoltarne le parole. A metterle in fila. A dar loro un significato che sia il più genuino. Autentico.
Volti, alcuni contenti, altri stanchi. Gioiosi. A volte affranti.
Un po’ così com’è il nostro lavoro quando ti chiedi chi incontrerai, cosa farai, come tornerai, chi conoscerai.
Ci sono posti nella vita che basta una volta e ti entrano dentro. Quelli dove ti senti a casa. Quelli dove le persone vengono prima delle professioni. Ci sono posti nella vita dove basta poco per innamorarsene e sentirli propri. Basta un tocco di mano, un iPhone che si accende, un messaggio, una chiamata persa che non è mai persa abbastanza. Basta un sapore. Un colore. Un odore. Basta un qualcosa di intrinsecamente familiare. Ma soprattutto basta la voglia di condividere in questo mondo dove condividiamo di tutto ma solo in rete. Dove si fanno le storie che durano 24 ore.
Qui invece. Qui da questi immensi colli delle terre del Custoza dove se solo un poco ti ci sporgi ci vedi il mare, le montagne, gli Appennini, Verona, Mantova, ci senti il profumo e il tocco del Lago di Garda, ci senti l’estate che avanza, il colpo di coda dell’inverno, l’aria che imperversa, che fa le giravolte, il vento che ti accarezza; ecco qui.
Qui si condividono le storie. E non durano 24 ore.

#sbetti

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La libreria “Sulla Luna” che incanta tutti

Francesca Rizzi – Venezia

Lei è Francesca Rizzi e questo è il suo sogno. Ci sono entrata due domeniche fa. Ed è una cosa fantastica. Tanto che l’ha ripresa anche il presidente del Veneto Luca Zaia. Un piccolo scrigno immerso nel cuore di Venezia. Avete presente quando senti dentro che quella è la tua strada e la percorri senza porti tante domande? Imparando giorno dopo giorno, studiando, approfondendo, crescendo. È quello che è accaduto a lei.
Cinquantadue anni, nel 1993 viveva alla Giudecca e andava a leggere libri al “Paradiso Perduto” che è un’osteria del quartiere di Cannaregio aperta proprio da studenti universitari.
Innamorata di libri e appassionata di vino, studentessa di Filosofia alla Statale di Milano, di padre veneziano, nonna armena, dopo aver peregrinato in giro per il mondo in Erasmus, approda a Ventotene, l’isola più a sud del Lazio, una delle più belle e incontaminate dell’arcipelago ponziano, piccola perla nel mar Tirreno, di cui aveva sentito parlare per la prima volta proprio al “Paradiso Perduto”, e qui ci rimane.
Trova l’amore. Rodolfo. Che guarda caso ha origini veneziane. E insieme hanno 4 figli.
Rimane affascinata dall’isola, dal mare, dal vento, da quell’aria e freschezza di libertà.
Qui apre una scuola di Vela che quest’anno compie 25 anni.
Non solo. A Refrontolo in provincia di Treviso apre un’azienda vinicola. La nonna, scappata al genocidio turco, aveva acquistato un piccolo appezzamento di terreno. Sette ettari tra bosco e vigneto. Un terreno che lei ha deciso di non lasciare incolto. E qui ora producono il Prosecco Lunatico. Lunatico come la Luna. Lunatico come l’umore. Lunatico perché non sfrutta il terreno quando non si potrebbe.
Ma il suo sogno rimane questo. La sua piccola libreria. Aperta nel 2017. Una libreria che sia un luogo di raccolta, di scoperta, di curiosità, di bellezza. E soprattutto di Poesia. Dentro infatti ci trovate libri illustrati, che come dice lei sono “incredibilmente poetici”.
Per il ristoro si affidano a piccoli produttori artigianali di Venezia e Treviso. I suoi figli poi vanno a scuola nella città lagunare.
“Non lo so come abbiamo fatto – dice – se ci penso credo ci sia stata anche un po’ di incoscienza. Ma tanto coraggio. Sai quando non ti fai domande, ma sei mosso da un forte desiderio? Ecco è andata così. Poi, il fatto che da lì sia partito tutto. Ci ho pensato tante volte”.
Infatti. La sua libreria “Sulla Luna”, in fondamenta delle Misericordia, si trova proprio lì, accanto al Paradiso Perduto. Lì.
Da dove era partito tutto.

sbetti

#sullaluna

Parco della Lessinia. Qui le colline sono gomitoli di lana

Lessinia – 2 aprile 2022

Ieri sono salita fin quassù. Nel parco Regionale della Lessinia. Dove le colline sembrano gomitoli di lana con immensi filari di terra marrone e verde. Ci sono salita perché volevo respirare aria pura. Fresca. Vento di libertà. Ci sono salita perché finalmente vedo l’alba. Vedo la luce come mi ha detto oggi un caro collega.
Quando fai questo lavoro devi riprendere fiato. Guardare le cose prima dall’alto. Poi piano piano immergerti dentro. Capirne i filari. Ci sono meccanismi da comprendere. Filamenti. Interconnessioni. Devi sciogliere i nodi. Avvicinarti, partire e poi raccontare.
Sentivo il freddo che mi si avvinghiava addosso. Che mi si aggrappava. Che mi si stringeva sulla pelle. Sentivo l’aria. Il vento. Da quassù sembra che il mondo sia più bello. Colori strepitosi. Accesi anche se piove. Fantastici. Blu, bianchi, gialli, verdi, marroni. Il paesaggio cambia nel giro di un batter di ciglia. Mi ci ha portato un tipo che quassù tiene una mostra. Su un garage con le finestre incollate per ripararsi dal vento, a terra ci stanno i margheritoni arancioni. Che quando li ho visti ho detto: “Perché da me non ci sono?”.
Da me, dove poi?
“Varde’ do ve gho porta’ da el Mar ai monti”, mi ha detto appena ci ha visto. “Guardate dove vi ho portato. Dal mare ai monti”.
Qui. In mezzo alla sperduta più sperduta montagna mentre filari di olivi e vigneti stanno infilzati alla terra e ti sfilano accanto come missili, ci sta un uomo che cura le sue creazioni come fossero figli.
Il panciotto. Senza giubbotto. La pelle consumata dal fumo e dal vento. Conserva quell’aria da montanaro che non ha paura di niente ed è preparato al peggio. Mentre io mi riparavo con cappotto di lana e sciarpona, lui indossava un maglioncino e pareva stare a suo agio. Qui siamo a 1000 metri sul livello del Mare. Il Parco della Lessinia è un paradiso verde incastonato tra le Piccole Dolomiti, la città di Verona e il Monte Baldo.
Il paesaggio è quello tipico delle Prealpi, ampie dorsali, conche e vallette, tratteggiate e addobbate da prati e pascoli; aggrappati alle braccia delle montagne poi ci stanno boschi di carpino, faggio, abete rosso. Il vecchietto con l’ape porta a spasso la legna. La consegna avviene casa per casa. Via per via. Già ci stanno le consegne per l’anno prossimo. Tanta gente con la guerra in atto si sta attrezzando per scaldarsi con pellette e legname. Ma tanto si fa fatica a recuperare pure questo. Poi si torna giù. La benzina qui sta bassa. Faccio il pieno. Mi viene fame. E mi fermo a Soave. Soave è un altro gioiello incastonato tra le colline. Vedo quel pennone del nostro tricolore issato che svetta sulla Rocca. Ondeggia. Sventola. Non molla.
Sono quasi le tre del pomeriggio. Devo rimettermi in moto. A Borgoricco c’è una persona a me cara che inaugura la 35 esima Mostra del Libro di Borgoricco.
È Toni Capuozzo che presenta il suo “Balcania”.
Esce il sole.
“Ormai vedi l’alba”.

#sbetti