Ci sono cose delle quali è impossibile parlare. Ci sono cose che se ne parli ti puntano il dito contro. Ti si riversano addosso. Foibe. La mia professoressa al liceo le citava l’ultima settimana. Allora l’altro giorno mi hanno scritto. “Il 12 ottobre mamma è morta, grazie per come l’hai scritta ”. Allora queste sono le parole di una figlia. La figlia di Graziella Gianolla. Ottantaquattro anni. Viveva a Trieste. Graziella Gianolla aveva solo nove anni quando venne rapita da una banda titina. Rapita. Slavizzata a forza. Fu costretta ad assistere ai rapporti sessuali tra titini. Di quella terribile notte, di quando il padre le disse “Torno subito” e di quando si vide strappare la madre da sotto gli occhi, Graziella ricordava tutto. Tutto. L’ho incontrata Graziella. L’ho conosciuta. Me l’aveva fatta conoscere il mio collega e amico Fausto Biloslavo. L’ho ascoltata. Ci siamo fidate. L’una dell’altra. Sono andata a casa sua a trovarla. Aveva una casa accogliente. Bella. Calorosa. Ricordo ancora che appena entravi nel salone ci stava una lampada. Con sotto una poltrona. Sopra il tavolino ci stavano delle foto. E poi. Poi quell’odore di tabacco che ti avvolgeva dappertutto. Un odore familiare. Per me vitale. Naturale. Mi ricorda la casa dei miei nonni marchigiani. Di quelle fumere la sera prima di Natale. Dio come erano belli quei tempi. Quando contavi i giorni che ti separavano da Natale a Capodanno. Quando ogni giorno era una festa. Quando si preparava l’albero e tutto intorno erano lucette e palline. Allora dicevo Graziella quel giorno mi ha accolta in casa. Abbiamo bevuto insieme il caffè e poi. Poi ci siamo fumate una sigaretta. In casa. Che bello. Così lei si è aperta e ha iniziato a raccontare. E più le parole fluivano e scorrevano e più le sigarette si accendevano. Ne abbiamo fumate una. Due. Tre. Quattro. Cinque. Non ricordo ora il conto. Ricordo che lei era lì davanti a me.E mi raccontava. Così la prima volta. Ma non bastava. E sono tornata una seconda. Quel giorno ero appena stata alla Foiba di Basovizza. Era forte Graziella. Fortissima. Non ho mai visto una lacrima. Aveva una voce forte. Rauca. Importante. Sicura. Vigorosa. Con la r marcata. I capelli bianchi. Gli occhi verdi. Una forza incredibile. Mi raccontò di quella notte. Di quando presero suo padre. Di quando “stavano bombardando Trieste e dalle finestre si vedeva. Mio papà, Aldo, si sentì chiamare. Prese lo schioppo, corse giù per le scale e mi disse ‘Chiudi la porta perché vengo subito’, ma i partigiani entrarono in casa, aprirono il negozio che avevamo, presero mio padre e si sentì sparare. Da lì più niente. Io mio padre non l’ho più visto”. Poi dopo 10 mesi i partigiani tornarono e presero la madre. La madre venne spinta addosso a un cespuglio. “Non poté nemmeno salutarmi, abbracciarmi, perché la spinsero e la gettarono in un cespuglio. Mi dissero che non avrei più dovuto nominarla perché era una spia”. Anche da lì. La madre più vista. E Graziella venne rapita. Per mano dei partigiani ci rimase dieci mesi. Dieci. In quell’inferno lì tra i fienili, costretta ad assistere anche al sesso libero tra i partigiani. Così mi racconta. Io rimango pietrificata e quella sera, una lettera scivola sul tavolo della sua casa a Trieste, qui davanti a noi, mentre lei consuma la sua sigaretta sgualcita dalla rabbia. Una lettera inedita, data in esclusiva al Giornale, che racconta il terribile assassinio del padre e dello zio, ammazzati e martoriati dai partigiani di Tito. “Bruciati nelle parti intime e costretti a camminare sopra mucchi di spine”.Chi l’ha definito parla di “Un infame, crudele, bestiale efferato ed il più feroce delitto”. Impossibile quella sera mangiare. Ricordo di essere rientrata in stanza con la testa che mi batteva, il corpo che non sentivo più e la sensazione che niente avesse più senso. Le mie amiche scrivevano sulla chat del gruppo e io nemmeno rispondevo. Guardai i messaggi dopo due giorni. Quando sono rientrata in Veneto ricordo anche che non volevo vedere nessuno. Mi dava tutto fastidio. La mia testa era completamente da un’altra parte. Sfusa. Sfatta. Mi riportò in qua un amico che mi disse: “ho visto che fai un servizio sulle Foibe. Grazie per il tuo lavoro”. Allora l’altra sera quando la figlia mi ha scritto, ho subito guardato il telefonino. Ho aperto il messaggio. Ma avevo già letto la notifica che ti compare all’inizio. Avevo già capito. E allora ho pensato a quanto dovesse aver sofferto questa donna nella vita. E a tutto quel dolore che portava dentro. Mi diceva che dimenticare era impossibile ma che era riuscita ad andare avanti semplicemente pregando. “Altrimenti non vivi”, mi aveva detto. Poi. Poi quando ho visto la figlia che mi scriveva “grazie per come l’hai scritta”, ho pensato alla gratitudine di quella figlia. E ho pensato che in fondo allora questo lavoro ha un senso. Perché le testimonianze vivono nelle loro parole. #sbetti
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