Ci sono cose delle quali è impossibile parlare

Ci sono cose delle quali è impossibile parlare. Ci sono cose che se ne parli ti puntano il dito contro. Ti si riversano addosso. Foibe. La mia professoressa al liceo le citava l’ultima settimana. Allora l’altro giorno mi hanno scritto. “Il 12 ottobre mamma è morta, grazie per come l’hai scritta 😘”. Allora queste sono le parole di una figlia. La figlia di Graziella Gianolla. Ottantaquattro anni. Viveva a Trieste. Graziella Gianolla aveva solo nove anni quando venne rapita da una banda titina. Rapita. Slavizzata a forza. Fu costretta ad assistere ai rapporti sessuali tra titini. Di quella terribile notte, di quando il padre le disse “Torno subito” e di quando si vide strappare la madre da sotto gli occhi, Graziella ricordava tutto. Tutto. L’ho incontrata Graziella. L’ho conosciuta. Me l’aveva fatta conoscere il mio collega e amico Fausto Biloslavo. L’ho ascoltata. Ci siamo fidate. L’una dell’altra. Sono andata a casa sua a trovarla. Aveva una casa accogliente. Bella. Calorosa. Ricordo ancora che appena entravi nel salone ci stava una lampada. Con sotto una poltrona. Sopra il tavolino ci stavano delle foto. E poi. Poi quell’odore di tabacco che ti avvolgeva dappertutto. Un odore familiare. Per me vitale. Naturale. Mi ricorda la casa dei miei nonni marchigiani. Di quelle fumere la sera prima di Natale. Dio come erano belli quei tempi. Quando contavi i giorni che ti separavano da Natale a Capodanno. Quando ogni giorno era una festa. Quando si preparava l’albero e tutto intorno erano lucette e palline. Allora dicevo Graziella quel giorno mi ha accolta in casa. Abbiamo bevuto insieme il caffè e poi. Poi ci siamo fumate una sigaretta. In casa. Che bello. Così lei si è aperta e ha iniziato a raccontare. E più le parole fluivano e scorrevano e più le sigarette si accendevano. Ne abbiamo fumate una. Due. Tre. Quattro. Cinque. Non ricordo ora il conto. Ricordo che lei era lì davanti a me.E mi raccontava. Così la prima volta. Ma non bastava. E sono tornata una seconda. Quel giorno ero appena stata alla Foiba di Basovizza. Era forte Graziella. Fortissima. Non ho mai visto una lacrima. Aveva una voce forte. Rauca. Importante. Sicura. Vigorosa. Con la r marcata. I capelli bianchi. Gli occhi verdi. Una forza incredibile. Mi raccontò di quella notte. Di quando presero suo padre. Di quando “stavano bombardando Trieste e dalle finestre si vedeva. Mio papà, Aldo, si sentì chiamare. Prese lo schioppo, corse giù per le scale e mi disse ‘Chiudi la porta perché vengo subito’, ma i partigiani entrarono in casa, aprirono il negozio che avevamo, presero mio padre e si sentì sparare. Da lì più niente. Io mio padre non l’ho più visto”. Poi dopo 10 mesi i partigiani tornarono e presero la madre. La madre venne spinta addosso a un cespuglio. “Non poté nemmeno salutarmi, abbracciarmi, perché la spinsero e la gettarono in un cespuglio. Mi dissero che non avrei più dovuto nominarla perché era una spia”. Anche da lì. La madre più vista. E Graziella venne rapita. Per mano dei partigiani ci rimase dieci mesi. Dieci. In quell’inferno lì tra i fienili, costretta ad assistere anche al sesso libero tra i partigiani. Così mi racconta. Io rimango pietrificata e quella sera, una lettera scivola sul tavolo della sua casa a Trieste, qui davanti a noi, mentre lei consuma la sua sigaretta sgualcita dalla rabbia. Una lettera inedita, data in esclusiva al Giornale, che racconta il terribile assassinio del padre e dello zio, ammazzati e martoriati dai partigiani di Tito. “Bruciati nelle parti intime e costretti a camminare sopra mucchi di spine”.Chi l’ha definito parla di “Un infame, crudele, bestiale efferato ed il più feroce delitto”. Impossibile quella sera mangiare. Ricordo di essere rientrata in stanza con la testa che mi batteva, il corpo che non sentivo più e la sensazione che niente avesse più senso. Le mie amiche scrivevano sulla chat del gruppo e io nemmeno rispondevo. Guardai i messaggi dopo due giorni. Quando sono rientrata in Veneto ricordo anche che non volevo vedere nessuno. Mi dava tutto fastidio. La mia testa era completamente da un’altra parte. Sfusa. Sfatta. Mi riportò in qua un amico che mi disse: “ho visto che fai un servizio sulle Foibe. Grazie per il tuo lavoro”. Allora l’altra sera quando la figlia mi ha scritto, ho subito guardato il telefonino. Ho aperto il messaggio. Ma avevo già letto la notifica che ti compare all’inizio. Avevo già capito. E allora ho pensato a quanto dovesse aver sofferto questa donna nella vita. E a tutto quel dolore che portava dentro. Mi diceva che dimenticare era impossibile ma che era riuscita ad andare avanti semplicemente pregando. “Altrimenti non vivi”, mi aveva detto. Poi. Poi quando ho visto la figlia che mi scriveva “grazie per come l’hai scritta”, ho pensato alla gratitudine di quella figlia. E ho pensato che in fondo allora questo lavoro ha un senso. Perché le testimonianze vivono nelle loro parole. #sbetti

👉 https://www.ilgiornale.it/news/cronache/cos-ammazzarono-mio-padre-e-mio-zio-bruciati-nelle-parti-1644775.html

👉 https://www.ilgiornale.it/news/cronache/storia-graziella-uccisero-i-miei-genitori-e-mi-slavizzarono-1493118.html

C’è un posto nel mondo dove il vino cresce nelle trincee della guerra

C’è un posto nel mondo dove il vino nasce cresce culla fermenta deposita sottoterra. Qui. Nelle vecchie trincee della Guerra. Qui il vino viene custodito in botti, bottiglie, damigiane, piccole, medie, grandi. Qui ci stanno anche le riserve per la Presidenza del Consiglio.
Alla trincea si accede percorrendo un parco. Ci si intrufola dentro a un tunnel sotterraneo e si sbuca dall’altra parte. Come fosse un film. Come le cronache di Narnia.
Una volta sbucati dall’altra parte, ci sta una villa, che è una villa bella, maestosa, elegante, signorile, aggraziata. Ed è la Villa Sandi di Giancarlo Moretti Polegato. Una villa palladiana del 1622, che sta a Crocetta del Montello, immersa tra i filari di vigneti colorati e sfondi di colline che col sole e le stagioni cambiano colore. Sono le colline del Valdobbiadene Prosecco. Una villa, polo del mondo del vino, la cui arte qui si tramanda di generazione in generazione. Sono arrivati alla terza.
Poi, salendo le scalinate come fossi una principessa, passando sul retro come fossi una giornalista curiosa, ecco si accede a delle sale immense, belle, ampie, spaziose, luminose. Qui grandi banchetti venivano preparati, ancora si vedono riflesse nello specchio, se te le immagini, le donne vestite di corpetti e reggipetti e crinolina che danzano e ballano e bevono vino elegantemente con i guanti porpora che profumano di seta. Un sorso e via.
Poi. Poi scendendo. Lasciandosi condurre, si accede alle trincee. Qui ci sta il vino. Buono. In antiche e vecchie botti. Qui ci stanno le cantine. Qui fa fresco. Si abbassa la testa. Si fa attenzione. È un labirinto ma il pavimento non fa piega… si percorrono viuzze, vicoli sotterranei, immaginari, alcuni senza luce, altri senza colore, altri fitti fitti al buio, altri invece con la luce ci puoi giocare… e godere di questo spettacolo magnifico…
La mia intervista a Moretti Polegato oggi sul #Giornale

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👉👉👉 https://m.ilgiornale.it/news/economia/nellanno-pi-difficile-nuovo-vino-italiano-numeri-mai-visti-1904041.html

Conviene rimboccarsi le maniche e andare avanti

Sono rimasta molto perplessa dalle polemiche sorte sui test fai da te.
Il Veneto da regione più contagiata che era a inizio epidemia ancora resiste ed è in zona gialla. Avevano detto che erano dei pazzi perché facevano i test rapidi, i test sierologici e ora i test fai da te, ma dati alla mano, nonostante qualche buon tempone perda tempo per far uscire il fiato, il Veneto si sta salvando.
Ma sono rimasta perplessa e anche un po’ amareggiata, perché le polemiche vengono da professionisti e politici mestieranti galoppanti, molto più bravi ad attaccare che a rispondere, soprattutto quando vedono che sul banco delle televisioni non ci sono loro.
Anche perché non si capisce perché dobbiamo sempre piegare la testa e calare le braghe anziché provare a risolverle le cose.
Sembra ci sia questa continua voglia di creare panico, terrore, terrorismo, paura, ansia, angoscia. Dovete stare zitti. Non respirate. Non dovete lavorare. Dovete spendere tanto, solo su Amazon. Dovete stare a casa. Non dovete fiatare. Fate il Natale su Skype. Zoom. Teams. State zitti.
Ogni qual volta c’è un problema o una questione da risolvere la maggior parte della gente anziché rimboccarsi le maniche, critica e si lamenta senza fare niente.
Queste sono quelle persone che pretenderebbero di tirare giù nel burrone tutti gli altri. Infondendo una certa dose di energia negativa che di questi tempi sinceramente non ne abbiamo bisogno. Negativo deve essere solo il tampone. Sembra ci sia questa voglia di dimostrare che deve andare tutto di merda. Quasi si gioisce.
Ecco vedete! Sono aumentati i contagi. Siete delle merde perché avete 17 anni e andate a limonare al parco. Perché i grandi mica se lo ricordano di essere stati ragazzini pure loro. No. Da grandi spaccano i coglioni perché si accorgono che sono grandi e hanno perso la loro capacità di sognare.
I grandi dicono ai grandi che sono degli esseri che non meritano rispetto. Inaffidabili. Stronzi. Nemmeno degni. Un giorno in amico mi ha detto che chi non lavora ha la sua solidarietà. Gli ho risposto che la solidarietà se la mettono nel sedere i commercianti. Gli imprenditori. Quando non mangi il sedere è tuo. Quando la sera non tornano i conti e devi pagare i dipendenti il culo è il tuo. E mio Dio sei indietro con l’affitto. E le tasse da pagare. E i fornitori. E il pane. Il latte. La carta igienica. L’igienizzate. Il culo è il tuo. Tuo e di quello degli altri a cui devi dare da mangiare.
Allora io sinceramente mi sento fiera di appartenere a un territorio che le cose, anziché piangersi addosso, prova a risolverle. A districarle. A studiarle. A fare squadra. A sentirsi parte di un ingranaggio. Che prova a darsi da fare, a trovare una soluzione, che non sta lì ad aspettare le elemosine dello stato e che prova con tutti i mezzi a tamponarci tutti, a togliere i malati, a diminuire i ricoveri.
Mi sento fiera perché sono cresciuta con la mentalità imprenditoriale di chi non si piange addosso e pensa che se si è fatta Venezia in mezzo all’acqua allora si può fare tutto.
Sì mi sento fiera. E mi sento molto più fiera di chi invece deve sempre controbattere. Di chi anziché costruire ce la mette tutta per distruggere.
Di chi prova gioia nel sapere che andrà tutto allo sfascio, perché sfigati come sono, la gente si fa forte sulle disgrazie degli altri.
Però vedete. C’è un passaggio che avete dimenticato. Ed è quello che nella vita un bel giorno si cresce. Non funziona più che se tutta la classe ha preso 3, allora sei meno sfigato. Nella vita si resta coglioni lo stesso.

#sbetti

Solo rallentando puoi entrare dentro le cose

Solo rallentando puoi entrare dentro le cose.
Due settimane fa sono stata in Friuli e mi è successa una cosa.
Allora ero appena arrivata all’Hotel Ristorante Al Fogolar 1905 per andare a conoscere lo chef che fa il pane con la farina degli alberi.
Di questi tempi torna utile il pane con la farina degli abeti. Con la farina della corteccia interna. La farina di sussistenza. Dei tempi della guerra. Insomma dicevo ero appena arrivata, quando mi accolgono, mi fanno sedere e subito mi servono l’aperitivo della casa. Io posiziono tutte le mie cose, apro il tablet, il quaderno; mi piace quando arrivo in un posto nuovo, prendermi del tempo, rallentare un attimo, studiare, approfondire, conoscere, anche semplicemente perder tempo ma che sia un tempo bello.
Solo rallentando entri nel pieno delle cose, nel vortice, solo rallentando puoi trovare la giusta dimensione, senza sembrare assetata di notizie, che poi finita una sotto un’altra. No. Non funziona così. Le storie le vivi, te ne ricordi, diventano parte di te, in qualche modo ti formano, ti fanno crescere, ti fanno riflettere. E mi sono sempre ripromessa quando arrivo in un posto nuovo, di prendermi del tempo, tempo per studiare, cercare, capire, approfondire, scavare. Un amico medico l’altro giorno mi ha detto: “è lo studio che cambia le cose, la conoscenza, se studi sai come gestirla, sei più preparato, se non studi, se non ti informi no, possono raccontarti quello che vogliono e tu ci caschi”.
Allora dicevo sono lì che tiro fuori le mie cose, quando mi accorgo che dietro di me ci sta un tavolo. Un tavolo con due signori. Una coppia. Lei sulla sessantina, capelli cotonati, biondi, maglia di cashmere, aveva gli occhi piccoli.
Lui, sulla sessantina come lei, occhi vispi attenti, occhiali, portamento di chi lavora in ufficio, c’avea ai lati degli occhi, delle buffe basette ricciolute.
Così, inizio a fare il mio lavoro, i camerieri del ristorante mi fanno vedere un video, mi girano del materiale, così intanto per iniziare, prima di vedere, quando a un certo punto al tavolo dietro di me dove ci stava quella coppia, arrivano altri due. Una coppia di amici. Lui non me lo ricordo benissimo. Stava seduto giusto dietro. Lei invece, amica di quell’altra, col cagnolino, vestita di nero, capelli messi in piega da poco, occhi attenti, sguardo contento.
Dopo un po’ arriva il cuoco che devo intervistare, l’inventore di questo pane sfornato con la farina degli alberi. Arriva, si siede, io avevo da poco finito di mangiare e iniziamo l’intervista. L’intervista dura parecchio. Mi piace ascoltare, sentir parlare, capire, guardare attraverso gli occhi il profondo delle cose, mi piace sentirmi raccontare di antiche tradizioni, di vecchi valori, mai persi, di mestieri che sembravano passati.
Mi piaceva sentir narrare quelle cose, riscoprire il tocco degli alberi, il pane appena sfornato fatto in casa, i dolci, il focolare, il caminetto, il calore che solo quei paesi di montagna ti sanno dare.
Insomma gli chiedo cosa fa. Come. Quando è nata. Perché. Cosa prova. Come lo fa. Mi spieghi bene. Cosa taglia, con cosa fa i contenitori. E parla che ti riparla, quando a un certo punto, io incantata da racconti in quest’isola felice, che mi avevano fatto dimenticare la tristezza di ciò che ci sta attorno adesso, mi volto e vede i quattro signori dietro di me, assorti completamente dai racconti del cuoco”.
“Complimenti – mi dicono – abbiamo sentito tutto, era così interessante. Una bella storia. Ma dove possiamo leggerla?”
Io dico loro sul Giornale, e il signore con gli occhiali che mi dà 29 anni, mi dice: “io ero un lettore del Corriere della Sera, ma ora mi sono stancato e non compro più un quotidiano”.
Allora io gli rispondo che no! Che non si può. Che non si fa! Che fa male, che almeno un quotidiano deve comprarlo.
Lui mi dice: “ma insomma dove posso leggerla? Chi devo cercare domani? Cosa devo comprare?”.
Io gli dico: compri il Giornale, e cerchi Serenella Bettin.
Lui mi dice: “ok. Lo comprerò. Magari mi ci appassiono e inizio anche a leggerlo”.

Scrivetemi se avete delle storie.

#sbetti

#conlavaligiaaipiedidelletto

Sta accadendo qualcosa di molto grave

Sta accadendo qualcosa di molto grave io ve lo dico. Allora vado al supermercato a fare la spesa. E mi viene in mente che voglio cominciare ad addobbare il mio appartamentino con i gingilli di Natale. Arrivo al supermercato e dentro trovo questo scempio. – Ora a parte il fatto che hanno scritto che così prevede la nuova ordinanza e invece è il Dpcm di Conte che prevede questo! Il Dpcm di Conte! Sì. Mi sono informata anche dalle fonti istituzionali.
Il Dpcm all’articolo 1 paragrafo 9 lettera ff prevede che “nelle giornate festive e prefestive – su tutto il territorio nazionale – sono chiusi gli esercizi commerciali presenti all’interno dei centri commerciali e dei mercati a eccezione di farmacie parafarmacie presidi sanitari, punti vendita alimentari, tabacchi ed edicole” e all’articolo 3 paragrafo 4 prevede la stessa cosa per le zone arancioni e rosse. Andatevelo a leggere.
Ma dico. Entro e trovo articoli di Natale in offerta con appiccicato un cartello giallo, delimitati, transennati, dove ci sta scritto che “non è possibile acquistare i prodotti presenti in quest’area”. Me ne sono fottuta e un addobbo l’ho preso lo stesso. Idem per il reparto libri. Non è possibile acquistare libri. I libri capite! I libri. Come i colori, i quaderni, le penne, i giochi per bambini. I vestiti.
È invece possibile ammassarsi come porci in fila al bancone dei dolci (tutto documentato con foto) o fare la fila al banco rosticceria o entrare dentro a un bar alle 17 e fare l’happy hour o anche sostare in venti davanti al banco a mezzogiorno (anche qui ho svariate foto).
Questo è possibile. Invece se vuoi acquistare un libro o un addobbo natalizio non lo puoi fare.
Un piccolo bambino voleva una renna. Una renna capite. Una cazzo di renna. E la madre gli ha dovuto dire di no. “Non possiamo prenderla amore perché ci sono le malattie”, gli ha detto. E lui si è messo a piangere. E più la madre gli diceva di no. Più lui piangeva. E più la madre gli spiegava. Più lui piangeva. E piangeva. Piangeva. Piangeva a più non posso. A dirotto. Con quei lacrimoni che gli scivolavano lungo il viso. Sarei andata io da lui. A dirgli. Ecco tieni prendi. Questa renna te la compro io. E invece no. Siamo tutti servi. Schiavi. Lavorate. State zitti. Non comprate. Nemmeno gli evidenziatori. Gli acquerelli. I pastelli. Non comprate niente. Servi della gleba. Dovete sottostare ai diktat di Giuseppe Conte che tanto si prodiga per i bambini e pensa a far avere l’autocertificazione a Babbo Natale.
Allora questo. Io non lo so dove ci porterà tutto questo. So che é grave. Gravissimo. Queste non sono misure scientificamente provate per limitare la diffusione del virus. Queste sono misure arbitrarie non scientifiche che limitano i nostri diritti fondamentali. Queste sono misure fatte per innescare nella testa della gente la paura. Il terrore. Il panico. Medici che dicono che le malattie si curano anche con la psiche. Che conta il pensiero. Quello positivo. E ti impediscono di comprare una renna un vestitino un colore un evidenziatore.
Queste sono cose che finiranno nei libri di storia. “Diventò impossibile comprare un libro – scriveranno – Il governo vietò la vendita degli articoli regalo. Dei pigiamini per i bambini”.
Sì. Anche questi. Anche questi ha vietato il governo.

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È tutto un grande enorme bordello

È tutto un grande enorme bordello. Io in questi giorni osservo. Ascolto. Guardo. Parlo con i medici. Raccolgo le testimonianze. Non mi incazzo. Non ne vale la pena. Non ne vale più la pena. Perché mi sto accorgendo di come sia tutto un grande enorme bordello. Alla faccia della sanità che va bene.
Allora volevo dire una cosa.
Stamattina osservavo i medici di base in un ambulatorio. Si stanno facendo il mazzo. La gente poi è diventata così talmente tanto maleducata che nemmeno si accorge di superare i limiti. Stamattina due in coda dal medico, due donne, si sono messe a bisticciare perché una era arrivata cinque minuti dopo l’orario delle ricette. Questa era pensionata povera, aveva bisogno di una ricetta, e una donna sulla quarantina, un’ oca giuliva fondamentalmente, le ha detto parole dicendole che lei non è in pensione, che lei deve andare a lavorare e che una arriva cinque minuti dopo l’orario delle ricette, lei arriva al lavoro in ritardo. Cosa ti cambia. Cosa cazzo minchia ti cambia in questo mondo se arrivi al lavoro cinque minuti dopo, quando c’è chi lotta sulle corsie degli ospedali ogni giorno. Cosa ti cambia.
I medici di base non sanno che fare. Al paese dei miei hanno messo un cartello, con scritto che non si accettano pazienti prima delle dieci non perché il medico si stia grattando ma perché prima delle dieci è il tempo delle telefonate e della sanificazione. Per distogliere i pazienti a piazzarsi davanti la porta, sul cartello ci sta perfino scritto che si può anche fare a meno di battere insistentemente sulla porta perché quello non è il tempo delle visite. Qui accade anche questo. La gente si piazza davanti la porta dell’ambulatorio e inizia a battere battere battere a più non posso. Come fossimo al bar. Come fossimo nel Far West. Voi ve lo immaginate lo scenario in un paesino di campagna con l’anziano che batte sulla porta di legno con i pugni perché vuole essere visitato. Manzoni non ci era andato lontano. Manzoni ci aveva azzeccato. Manzoni su tante cose ci aveva indovinato. Io I Promessi Sposi ve li farei rileggere a più non posso.
Allora dicevo i medici di base non sanno che fare. Si trovano a gestire le telefonate. A visitare in pausa caffè. A dover gestire potenziali pazienti covid da pazienti covid per davvero. Chiunque arriva in ambulatorio può essere un infetto. Si trovano anche a dover fare i tamponi. A doverli eseguire nell’auto magari lì davanti al comune con la gente che ti guarda.
E tutto perché in otto cazzo di mesi il sistema sanitario non é stato in grado di prevedere che ci fosse un numero unico. Un numero per provincia. Un call center. Un centro che facesse test rapidi per tutti. Perché un medico di base che esegue i tamponi, quanto tempo impiega per vestirsi? Quanto per svestirsi? E dopo essersi svestito, cosa fa? Visita i pazienti normali? Capite che sono anche fin troppo bravi. Che così non va. Che così non va bene.
Con la gente maleducata poi che prenderei a testate e a gomitate. Uno di questi giorni lo faccio. L’educazione prima di tutto.
I medici in corsia poi. In Veneto ne mancano 1300. Di infermieri ne mancano oltre 2 mila. È tutto un grande enorme bordello. Cosa avete pensato in questi mesi, quando sapevate che la seconda ondata sarebbe arrivata? Cosa? Cosa avete pensato quando anziché mandare medici e assumerne altri avete lasciato i buchi? Cosa avete pensato a quando dovevate dividere gli ospedali e creare degli ingressi separati? Cosa? Parlo con medici che non sanno dove mettere i pazienti. Perché se arriva uno gli devono fare tampone. E i tamponi li processano fino alle 16. Mica te lo dicono questo. E se uno arriva alle 17. Ti processano il giorno dopo. E intanto dove lo mettono? Con i positivi? Con i negativi? E se è positivo e infetta i negativi? E se è negativo e viene infettato dai positivi? Che succede? Cosa? Dove lo si mette?
Fuori degli ospedali in Veneto, riapriranno le tende da campo. Anzi forse in qualcuno ci sono pure già.
I medici dicono che non ci sono più posti. Ma il direttore sanitario di Treviso ha dichiarato che sono ricoveri sociali, cioè persone che non dovrebbero essere ricoverate ma le mettono lì perché a casa non possono stare isolate.
È tutto un grande enorme bordello.
Le terapie intensive dicono siano al limite. Gli ospedali sono al collasso. I pazienti come pacchi vengono trasferiti da un ospedale all’altro. I medici chiedono il lockdown nazionale.
La gente va al pronto soccorso anche per un raffreddore. Hanno creato il panico. Hanno infettato il cervello di tutti.
Le prestazioni mediche, quelle che dovevano essere elargite, o le altre ordinarie operazioni chirurgiche, sono state sospese. A una mia amica hanno chiamato a casa ieri per dire che la visita era stata annullata. Vige e vince l’emergenza. Una persona viene curata ora solo se ha un infarto o se fa un incidente. Il che non è assolutamente normale in un Paese che come diritto fondamentale professa la Salute. La Salute capite.
Ora in tutto questo bordello. In tutto caos, mi chiedo a che minchia hanno pensato tutti quanti, quando in otto mesi non sono stati in grado di aumentare posti letto, di prevedere ospedali separati, di prevedere un servizio che rispondesse 24 ore su 24, tamponi rapidi, test per tutti, tracciamento degli infetti.
A una mia amica positiva al virus hanno detto che siccome i contatti che aveva avuto erano di un’altra provincia, un’altra Ulss, allora meglio far finta di niente, meglio non scrivere niente. Meglio dire: “ok scriviamo che non hai avuto contatti”.
Questo è il modello Italia. Questo è l’Italia che fa esempio. Speranza ha scritto un libro: “ecco come guariremo”. Speranza non capisce una sega. Perché queste sono le condizioni in cui i medici sono costretti a lavorare. I medici sì. I medici. Quelli che a marzo chiamavate eroi e ora distruggete loro le auto. Pezzenti che non siete altro. Quelli che avevate promesso loro l’aumento degli stipendi e ci sono medici giovani che rischiano la vita per un contratto a gettone che passato il periodo covid ci si puliscono il culo.
Ma lo Stato c’è ti diranno. Il governo c’è.
Siamo consapevoli. L’Italia è pronta.
Allora sì, questo è il sistema Italia da prendere come esempio. Per andare a fareinculo è perfetto.

#sbetti

Il #PanCor: il pane fatto con la farina degli abeti

Questo è il pane fatto al Fogolar 1905 di Udine. Quello realizzato con la farina degli abeti della tempesta #Vaia. Quando l’altro giorno sono entrata in questo posto mi sembrava un incanto. Stefano Basello, quello che vedete in foto con la gerla, che da 13 anni fa qui il cuoco mi ha accolto come pochi avrebbero saputo fare. Arrivavo da una mattina indaffarata. Mille cose. Il traffico fagocitante e trasbordante ed esorbitante di questi giorni. Le ultime mail da controllare. Una borsa da disfare e una da rifare. Mi ha accolto come fossi entrata nel mondo delle fiabe. Con il camice da chef appuntato. Abbottonato. Schiena dritta. Perfetta. Sguardo ruvido e attento. Era l’una. L’una del pomeriggio. “Vuole mangiare qualcosa?”, mi ha chiesto. “Oddio no, non so, non si preoccupi, non importa”, gli ho detto io. Mi pareva così strano arrivare in un posto e sentirmi dire se avessi voluto qualcosa da mangiare. Non sentirsi subito dire: “da dove cominciamo? Di cosa ha bisogno?”. Così mi sono fatta accompagnare. Cullare. Mi ha guidato verso la sala. E appena mi sono girata c’ho visto il fuocherello accesso. “Wow”, gli ho detto. Lui mi ha sorriso.
Poi. Poi mi sono accomodata. Mi hanno fatto accomodare. Mi hanno indicato la toilette. Mi hanno messo a mio agio. Mi sono seduta e mi hanno portato l’antipasto. L’antipasto in questo posto da sogno consisteva in: pane fatto con la farina degli abeti caduti dopo la tempesta Vaia.
Sì. Sono loro che ogni mattina si svegliano alle cinque e vanno su per i boschi. Sappada, Zoncolan, Timau, gerle in spalle e via. Raccolgono licheni, erbe, cortecce. Tutto quello che possono caricano su una gerla e portano al ristorante. Con gli scarti ci fanno i contenitori. E infatti qui. Qui tutto viene servito su fette di abete. Rotelle d’acero. C’è il pane servito sui sassi riscaldati del Tagliamento. Il burro di malga sulla pietra carnica, l’antipasto dentro a una corteccia con tronchetti d’abete che fanno da base a una pasta fritta. Il pane poi è un lavoro di precisione. Di attento studio. Tutto viene pensato al dettaglio. Nulla viene lasciato al caso. Dall’acqua recuperata al confine con l’Austria, al forno fatto arrivare direttamente dal Belgio fino alle farine selezionate e controllate poi dall’Università di Padova. Così mentre facevo questo servizio, non ho pensato al covid. Non ho pensato al coronavirus. Stefano Basello mi raccontava dei suoi ricordi dei nonni, dei genitori, delle sue storie, di queste arti che lui vuole tramandare di generazione in generazione e mi sono lasciata condurre verso luoghi e tempi lontani.
E c’ho visto mani che scavano. Che cercano. Che scalpellano. Mani che osservano. Agguantano. Provano. C’ho visto uomini e donne e bambini che crescono. Crescono con il profumo di bosco, con quello che sa di bello, con i valori, i mestieri, il territorio, il proprio lavoro. Crescono con quello che conta. Che conta davvero.
Perché qui dove siamo seduti ora, qui 115 anni fa c’era un’osteria cambio cavalli. La gente arrivava, si cambiava, cambiava il cavallo e ripartiva alla volta dell’Austria. Ora ci sono un ristorante. Un hotel, un gourmet, un bistrò, una sala convegni, una SpA.
La prova che le cose se non le lasci morire, crescono, lievitano, come questo pane, fatto col cuore.
Oggi sul #Giornale

#sbetti

E questo il video del documentario presentato al Visionario di #Udine. La regia di Swan Bergman.
https://youtu.be/VNNJsE8_FVg

PEZZO 👉👉👉 https://m.ilgiornale.it/news/politica/alberi-travolti-bufera-e-pane-antico-che-sa-bosco-1900233.html