La gente sa tutto. Anche della morte degli altri

Come al solito Facebook ha dato modo di teorizzare anche agli stolti.
Ieri mi sono divertita a leggere le sentenze di morte sulla morte di Giuseppe De Donno, l’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova.
Sentenze che probabilmente nemmeno lui sapeva potessero esistere.
A cui non gli è nemmeno stata data possibilità di appello. Sono finite in rete come finiscono i pesci in mare quando non servono più e li ributti.
Ma come al solito il popolino di Facebook ha dato mostranza di quanto la gente sia intelligente, arrivando a scoprire le motivazioni intrinseche delle scelte di un essere umano molto prima di chi ha commesso il gesto.
Così ancora una volta, nella totale mancanza di rispetto della vittima, la gente prima ha pontificato a destra. Poi a sinistra.
A seconda ovviamente di quello che gli faceva comodo.
Chi ha celebrato De Donno come il padre della terapia del plasma, l’ha ricordato come eroe, vittima e martire di chi anziché il plasma preferiva altre cure.
Chi invece riteneva che il plasma non fosse una cura salvifica, allora era quasi compiaciuto come a dire: “vedi che succede se non ti allinei al sistema”. Non sono mancati quelli che l’hanno ridicolizzato. La verità è qui, non me ne vogliano i complottisti da bar e ombrette, che hanno già cominciato a scrivermi, ma qui non c’è nessun sistema. Si è provato. Si sono provate le cure per cercare di salvare più vite possibili. Come ha fatto De Donno. E quanta pena ci hanno fatto quei virologi finiti in televisione e diventati famosi col covid che anziché venire in aiuto hanno innescato le più grandi micce televisive, quasi come i fulmini, creando ancora più confusione e destabilizzazioni.
Ora. Dopo tutte le pontificazioni fatte da chi anche con la morte degli altri si schiera a destra o a sinistra, scopriamo che De Donno soffriva di depressione. Ancora prima del covid.
Una malattia che può venire a chiunque. La depressione è una cosa seria che ti mangia l’anima. Non è quella “roba” che la gente pensa di avere perché si sveglia al mattino con le scatole girate. Quella è un’altra cosa. Che nulla ha a che vedere con la depressione che richiede cure attenzione e tempo.
La mancanza di lavoro. Il non poter svolgere il proprio in libertà. Il sentirsi emarginato, attaccato, perennemente nel mirino, sotto pressione, a lungo andare può portare anche a questo.
Rimane il fatto che De Donno è morto.
Nel suo silenzio, offuscato da chi crede di sapere tutto.
Anche sulla morte degli altri.

#sbetti

Quella chiesetta spostata con le cotiche di maiale

Dal diario di Facebook 29 luglio 2019

La chiesetta spostata con le cotiche di maiale. Quando niente era impossibile.
Questa mattina mi sveglio e vedo che in un gruppo del paese dove sono cresciuta, Santa Maria di Sala, un paese in provincia di #Venezia, condividono questo articolo. Questo qui. Che vi metto qui sotto. Parla del trasloco della Chiesa della Madonna Mora. E me lo dice ogni volta mio padre. Un trasloco. Cioè hanno preso una chiesa, se la sono imbracata e l’hanno spostata. Pazzesco. Formidabile. Esemplare. Epocale. L’unico caso in Italia. Allora io sapevo di questo trasloco. Lo sapevo. Si racconta che abbiano spostato la Chiesetta della Madonna Mora. “Ma come spostata?”. “Sì, l’hanno presa e l’hanno trascinata”. “Trascinata? Ma come? Dai è impossibile”. Ma stamattina leggere quel pezzetto di giornale del 1986, bé mi ha fatto un certo effetto. C’avevo due anni. Ed è pure il giornale con cui ho iniziato questo mestiere.
Una chiesetta costruita dagli abitanti di Caselle nel 1893, spostata il 25 novembre 1986 “con un sistema di putrelle sollevata da sei martinetti e quindi fatta scorrere su delle cotiche di maiale”. Restaurata nel 1987. Cotiche di maiale capite?
Ecco, siamo nel 2019 e non lo so se in Italia ci sia mai stata qualche altra chiesa cattedrale duomo museo edificio struttura casa palazzo abitazione che siano stati spostati con le cotiche di maiale ma so che la chiesetta è ancora qui. Ed è bella, come non mai.
E sul ciglio di questa strada. Qui davanti. Fumando. Ve lo volevo raccontare.

sbetti 💛

Del pensionato ammazzato davanti la moglie non ne parla nessuno

Due settimane fa a Lecce un pensionato è stato freddato a colpi di arma da fuoco, davanti gli occhi della moglie, mentre prelevava al bancomat. Si chiamava Giovanni Caramuscio.
Non ha avuto nemmeno il tempo di prelevare. Dalle telecamere di video sorveglianza si vede il pensionato davanti lo sportello con la moglie e dietro sopraggiungere una coppia di malviventi. Il pensionato reagisce. Va loro incontro. Tira un pugno a uno dei due. Questo cade. Perde l’equilibrio. E l’altro spara. Prima un colpo. Poi un altro e un altro ancora.
Il pensionato muore lì. Davanti gli occhi di ghiaccio della sua compagna da una vita.
Per questo omicidio è stato fermato tale Mecaj Paulin, albanese, 31 anni, accusato di omicidio in concorso con un’altra persona. Andrea Capone, 28 anni, di Tricase, residente a Lequile.
L’albanese pare abbia usato una pistola Beretta, calibro 9 corto, con matricola abrasa che è stata ritrovata dai carabinieri nella sua abitazione.
Ora entrambi sono accusati di omicidio aggravato in concorso, porto abusivo di arma alterata e ricettazione.
Come sarà.
Di questa notizia finita in sordina, non ne parla nessuno.
Nessun progressista di sinistra che mi dica che non è normale andare a prelevare al bancomat ed essere ammazzati davanti agli occhi della moglie.
Nessuno progressista di sinistra che mi dica che l’Italia non può essere il Far West.
Nessuno progressista di sinistra che mi dica che non è normale uscire di casa una sera e non tornare più perché si rischia di essere freddati a uno sportello.
Nessun progressista che dall’alto delle sue barricate ideologiche pontifichi o twitti in difesa di un pensionato freddato presumibilmente da un albanese. Nessuno. Non ho sentito qui tanti cori cantare. Cinguettare. Twittare. Facebookare.
Certo. L’impatto è decisamente diverso.
A Voghera stiamo parlando di un avvocato assessore che ha ammazzato una persona e che andava in giro con un’arma.
Ma la vita degli uomini come voi ben mi insegnate non si misura in appartenenze politiche, tifoserie da stadio, colore della pelle.
La morte di un uomo bianco merita lo stesso rispetto della morte di un uomo di colore.
Vi auguro buona colazione.
Ossequi

#sbetti

Il violinista dalle mani d’oro

Montagnaga di Baselga di Piné – luglio 2021

L’altra sera mi sono innamorata. Mi sono venuti i brividi. Sono rimasta muta. Ammutolita. Mi sono innamorata come si innamora una ragazzina quando non riesce a parlare.
Allora quello che vedete in foto è Teofil Milenkovic. Nato a Frosinone l’11 gennaio del 2000.
Lui è uno di quelli che il 1900 non ce l’ha nemmeno nella carta d’identità. Ed è uno dei violinisti che il mondo ci invidia.
A soli 4 anni aveva già vinto il suo primo premio.
Allora sono entrata in questa stanza. Mi avevano detto che ci sarebbe stato un concerto. Ma quello che non mi avevano detto era chi. Chi avesse tenuto questo concerto.
Quando sono entrata ho intravisto subito un musicista starsene nell’angolo cercando la concentrazione.
Quando il momento si stava per avvicinare lo vedevo guardare in alto. In basso. Chiudere gli occhi. Stringere le mascelle. Ondeggiare. Lo vedevo come quando si aspetta di essere interrogati agli esami. E la tua testa comincia a girare. La tua mente a svuotarsi. I tuoi pensieri e le tue nozioni a correre. Acciuffarsi. Accavallarsi. Azzuffarsi. E più tu sei lì che tenti di riprenderteli più questi scappano. Per un attimo ti sembra di non ricordare niente. Nemmeno il tuo nome.
Zero assoluto.
Ma poi. Poi arriva il momento.
Il violino è partito. Ed è accaduto l’incanto. Per cinque minuti di applausi finali.
Teofil ha cominciato a suonare e si sono svuotate le menti. Riempiti gli animi. Rinvigoriti gli spiriti. Teneva in mano quel violino che sembrava avesse un bambino. Le sue dita hanno iniziato a suonare. A picchiettare. A frugare. A punzecchiare. Picchiettare. E più lui muoveva i tasti e spingeva l’archetto del violino più questo emetteva suoni. Da quella cassa uscivano gemiti, pianti, urla, lamenti, sospiri; erano canti, balli, gridi di gioia, pianti d’amore, di sofferenza, di assenza.
Intonava Franco Battiato, Lode all’Inviolato. “Nelle cadute c’è il perché della Sua assenza
Le nuvole non possono annientare il Sole”.
E più andava avanti e indietro, indietro avanti con quell’archetto che teneva come si tiene il biberon a un bambino, più si muoveva guardando quello strumento quasi come fosse un figlio appena nato. E se il figlio chiedeva da bere, lui gli dava da bere. E se il figlio chiedeva acqua lui gli dava acqua. E se voleva vino gli dava vino. E se il figlio aveva bisogno di mangiare lui gli dava da mangiare. E se il figlio chiedeva canti d’amore lui gli dava canti d’amore. Era come se davvero quella cassa e quell’archetto di legno fossero dotati di un’anima e un corpo. Il corpo che lui accarezzava, cullava, faceva suonare. Rinvigorire. Crescere.
“E lo sapeva bene… Paganini
Che il diavolo è mancino, e subdolo
E suona il violino”, cantava sempre Battiato.
Perché poi alla fine è accaduta una cosa che mi ha fatto riflettere.
Teofil suonava accompagnato dal Maestro Andrea Fuoli, direttore d’Orchestra Giovanile Trentina. Il quale dinanzi agli applausi gli ha fatto cenno.
Cenno di andare avanti.
Come dovrebbe fare un Maestro.
Come a dire: “Vai, questo applausi sono tutti per te”.
“Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono”. Anche questo cantava Battiato.
“Ed io avrò cura di te”.

#sbetti

La casalinga di Voghera

Quando ho cominciato a fare la giornalista mi hanno detto fin da subito che avrei dovuto farmi capire anche dalla casalinga di Voghera. Si dice così nel nostro gergo. Fatalità.
Quale migliore occasione oggi.
Insomma a Voghera martedì scorso è andata in scena una lite. Dove ci è scappato il morto. Secondo quanto riferito da alcuni testimoni, un immigrato irregolare di 39 anni, Youns Boussetai, avrebbe lanciato una bottiglia di birra addosso a Massimo Adriatici, avvocato penalista del Foro di Pavia e assessore della amministrazione a trazione leghista.
Il marocchino, già colpito da due decreti di espulsione, uno a giugno scorso e uno a luglio di quest’anno, avrebbe iniziato a infastidire alcun clienti dinanzi a un bar. L’assessore allora l’avrebbe invitato a smettere, ma il marocchino rispondendo a tali rimproveri gli avrebbe lanciato una bottiglia e lo avrebbe spinto. Lì sarebbe partito il colpo da parte dell’assessore che non si sa bene cosa ci facesse con un’arma in tasca – per carità regolarmente posseduta dicono – ma mi pare che in Italia a nessuno sia consentito girare con armi da fuoco così senza regolare e certificato motivo.
Il marocchino è morto.
Inizialmente il magistrato aveva derubricato il fattaccio come “omicidio volontario”. Poi ricostruendo, ancora solo in parte, la vicenda e raccogliendo alcune deposizioni e ascoltando i testimoni avrebbe cambiato in “eccesso colposo di legittima difesa”.
Sono due cose diverse. Dal punto di vista giuridico. E anche fattuale. Chi ha studi giuridici lo sa.
Allora devo dire che ieri ci ho messo un attimo a farmi strada tra la nebulosa delle notizie che arrivavano e a capire cosa fosse successo.
Addirittura ricordo che in un sito online, uno di quelli orientati verso il politicamente corretto, l’eccesso colposo di legittima difesa era finito nell’ultima riga quasi come non fosse una cosa importante.
Sono andata anche a guardami alcuni post e tweet di personaggi politici, in un mondo dove arrivano prima i tweet che le sentenze dei giudici, e pareva davvero che un uomo fosse sceso in strada armato e all’improvviso si fosse messo a sparare.
Per non parlare di quelli che subito hanno considerato Salvini il colpevole, quasi come fosse lui ad aver premuto il grilletto.
Un tentativo di portare l’informazione a nostra ragione che non fa onore al nostro lavoro.
Molti recriminavano questa cultura dell’odio, questo invito alla violenza, questo ispirare gli italiani a imbracciare le armi, questo “la situazione della maggioranza vogherese a trazione Lega è vergognosa”, aggiungeva Simone Verni, consigliere regionale del M5S Lombardia; che mi sono chiesta se l’odio in realtà recriminato, non derivi proprio da coloro che l’odio vorrebbero combatterlo.
La questione politica qui è nata, alla faccia di chi va in giro a spifferare che siamo tutti uguali, perché uno è bianco e uno è di colore.
Ma mi ricordo di un altro caso fatalità nel paese dove sono nata in cui la politica alla Boldrini era esplosa facendo breccia sul cuore della gente. Anche lì i tweet e i post su Facebook e quella parte di politicanti che vorrebbero far passare tutti gli italiani per razzisti e che giocano con i morti, anche lì erano arrivati prima dei giudici.
Forse quella stessa parte politica dovrebbe chiedersi se non sia proprio essa stessa a favorire quel clima di odio e violenza che tanto va contestando.
Vi auguro buon pranzo.
Ossequi

#sbetti

Premio Papa a Fausto Biloslavo

Caorle – 21 luglio 2020

Lo chiamano #PremioPapa perché così era soprannominato Ernest Miller #Hemingway che a #Caorle prese ispirazione per i suoi scritti.
Con “Il vecchio e il mare” vinse il premio Pulitzer nel 1953 e il Premio Nobel per la Letteratura l’anno dopo. È uno di quei romanzi che ti lasciano l’amaro in bocca, il sangue aperto, il sapore della carne appena cotta sul palato, che sa di lieve, pungente, marcio. Che è così allo stesso tempo dolce, cotta, al punto giusto ma non troppo, stomachevole, avvolgente, protettiva.
Uno di quei romanzi con cui sono cresciuta. Che mi ha lasciato il vuoto, l’abbandono, il sapore della laguna appena va via il sole, quello delle foglie appena tagli l’erba, quello della notte cupa e tenebrosa, il colore dell’amaranto, del verde incolto. Quello dell’essere soli. Ma sempre accolti.
Hemingway rientra in quella cerchia di persone che hanno voluto assistere agli orrori della guerra, che l’hanno raccontata, con i fatti, le parole, le testimonianze, gli aneddoti. Annottando, scrivendo, vivendo, giorno per giorno. Ora dopo ora. Minuto dopo minuto. Hemingway fa parte di quella schiera di giornalisti che la guerra l’hanno veramente vissuta. In prima linea. Senza paura. Senza remore. Senza sconti.
E ieri sera a Caorle un grande inviato Fausto Biloslavo, che le guerre le ha viste tutte. Andando, perigrinando, in lungo e in largo, facendo ritorno a casa, non quando era stanco, ma quando aveva “finito”, quando aveva qualcosa da raccontare, pronto per ripartire.
Lui con Gian Micalessin e Almerigo Grilz, costui scomparso il 19 maggio 1987 sul fronte di guerra del Mozambico, le guerre le ha raccontate.
Per davvero. Guerre, che senza di loro, sarebbero state dimenticate.

#sbetti

Premio Papa Caorle.it

Milano non è solo fashion

Milano 19 luglio 2019

Allora ricordo che quando stavo alle medie ci stava una professoressa di storia dell’arte, anzi di educazione artistica che era molto brava. Bravissima.
Letizia Mognato. Insomma Letizia. Per gli studenti La Mognato. Viveva dell’arte. Era magra. Magrissima. Minuta. Aveva le dita simili ai piccoli bastoncini di legno che ricordavano quelli di Hansel e Gretel. Sapete no? La storia di quella strega cattiva che voleva mangiare i bambini ingrassati ma questi per farle credere che erano ancora magari, da sotto la porticina anziché darle un dito le davano un bastoncino di legno o un ossicino di pollo. E allora le dita di questa prof ricordavano tanto quelli ossicini. Ma erano ossicini veri. Da quei ditini così piccolini la mia prima prof di storia dell’arte era in grado di trasmetterti una forza incredibile. Spiegava, volteggiando quelle dita che sembravano dipingere loro stesse i quadri che spiegava, parevano costruire le pareti dell’architettura che ti mostrava. Pareva di starci dentro quei quadri. Quei palazzi. Quelle sculture. Pareva di sentirlo Giotto che parlava. Leonardo che disegnava. Palladio che squadrava. Monet che volteggiava. Van Gogh che si incazzava. E mi ricordo che per spiegare storia dell’arte questa prof si metteva in ogni parte, fuori dalla finestra, in mezzo alla strada; quella volta a Roma per spiegare la Basilica di San Pietro perfino i cinesi ci sono accodati. In tutta la chiesa si sentiva solo lei. E le guardie zitte che stavano ad ascoltare.
E allora l’altro giorno quando stavo a #Milano sono andata a fare un giro. Una toccata e fuga tra un incontro e l’altro. Tra quelli perfettamente incastonati come i secondi che perfino gli ascensori arrivano giusti. Insomma una di quelle toccate che giusta si infila tra quando non è troppo tardi ma tra quando è troppo presto. E così. Così ho intravisto questi scorci di Milano. Che qui vi mando. La chiesa di Santa Maria presso San Satiro che se ne sta lì incastonata tra i palazzi e le enoteche. Tra le banche e le case. Come i treni che si incastrano con i minuti. Come gli ascensori che si incastrano con gli appuntamenti. E se ne sta lì con quell’abside dipinto che è uno splendore e che se non ci stai attento ti sembra pure vero. Perché in realtà l’abside non esiste. L’arte a tromp l’oeil studiata fino alla nausea ai tempi delle medie, vista dal vivo nella Villa Maser del Palladio, ecco quest’arte mi ha salvato. Me ne sono accorta subito che qui Donato Bramante, uno dei più grandi architetti italiani, fece in modo di creare un’illusione ottica. Con quella stessa arte su cui c’avevo perso gli occhi. Siccome non c’era spazio, la finta abside che doveva misurare nove metri e settanta centimetri, ora di centimetri ne misura novantasette. Insomma quello che era un impedimento divenne un vero e proprio capolavoro. E poi. Poi ho visto pure la chiesa di San Sepolcro. Dove ai lati sulle due cappelle da una parte ci sta l’ultima cena e dall’altra ci sta un trittico sulla morte di Cristo. E quindi insomma Milano non c’ha solo i negozi, le cose fashion, fighe, il caos, i palazzi. Milano c’ha gli scorci. Quelli belli. Basta solo saperli cercare.
Continuando il viaggio.

happysbetti

#sbetti 💙

Siamo tutti buzzurri

Mi lascia alquanto perplessa una notizia del genere. E mi lascia perplessa perché non riesco a capire dove sia la notizia.
Gli Europei di calcio che si sono disputati dall’11 giugno all’11 luglio e che hanno visto la gloriosa e storica vittoria della Nazionale di Roberto Mancini rientrano nelle manifestazioni autorizzate.
Gli Europei sono stati permessi.
Non è che quattro giocatori si sono inventati di scendere in campo e hanno occupato lo stadio. La manifestazione che si è svolta, si è svolta nel pieno e completo rispetto delle norme di sicurezza. Nemmeno Sergio Mattarella aveva la mascherina e tanto basta.
I festeggiamenti che sono stati permessi dopo, sono stati autorizzati.
Mi sembra ovvio che se consenti a una Nazionale di calcio di giocare una partita, la gente poi in caso di vittoria e anche non, si riversa sulle strade e fa festa.
Ma bastano le vacanza a far aumentare il contagio.
Additare e puntare il dito contro chi ha festeggiato dei festeggiamenti ovvi e permessi, ecco, non mi pare molto onesto.
Ma soprattutto mi chiedo.
Possiamo stare dietro a tutti i contagiati del mondo?
Praticamente per passare come appestato basta aver contratto la malattia. Non importa se non hai sintomi e stai bene. Il solo fatto che tu sia positivo al virus ti fa apparire agli occhi degli altri come un delinquente, un buzzurro, un fuori legge, che non sa stare a questo mondo, perché se contrai il virus è ovvio che è colpa tua che non hai messo la mascherina, te ne sei andato in giro, hai gridato sputando nel piatto, ti sei messo le dita nel naso e non ti sei lavato le mani per la 284 volta di ritorno dal cesso.
Ora scusate. Ma a me pare. E non per peccare di presunzione. Che i dati da tenere monitorati debbano essere quelli dei ricoveri e delle terapie intensive non quelli dei contagiati come fossero appestati dai bubboni della peste.
Soprattutto se sono dieci ragazzi che altro non facevano quello che hanno fatto tutti.
Festeggiare una Nazionale dato che almeno nel calcio siamo tutti italiani.
Vi auguro buon pranzo.

#sbetti

UEFA EURO 2020 Gianluca Viallihttps://www.facebook.com/MrRobertoMancini

Così finiscono 20 anni di missione in Afghanistan. Con un amen

Ve la ricordate Silvia Romano? Quella volontaria liberata in Kenya che si era convertita all’ Islam e per cui lo Stato aveva sganciato la lauta e prosperosa somma di 4 milioni di euro per liberarla?
Quella a cui avevano messo i sacchetti di nylon ai piedi quando atterrò all’aeroporto.
Ecco per Silvia Romano abbiamo visto le passerelle di Conte, Di Maio, selfie, pianti, baci, abbracci, strette di mano (anche se non si poteva);
invece per i nostri militari che hanno lasciato l’Afghanistan dopo 20 anni e sono rientrati in Italia non c’era nessuna forza istituzionale ad attenderli.
Nessun Di Maio ad attenderli all’aeroporto, nessuna bandierina, nessun tricolore che sventolasse per loro.
Di Maio che forse in questi giorni è troppo impegnato a farsi selfie con la nazionale o a fare le conferenze anti Isis – Come se servissero a qualcosa – All’aeroporto non era nemmeno presente.
Anzi. Forse nemmeno sapeva che il 4 luglio si celebrava una data storica.
Con il rientro degli ultimi militari del contingente italiano si è conclusa ufficialmente la nostra missione italiana in Afghanistan.
Una missione fatta di morte, sangue, sacrifici, sudore, amori strappati, padri lontani dalle famiglie. Io ci sono andata nella missione in Kosovo e ho visto come vivono questi uomini e queste donne. Sì. Anche donne.
Li ho visti. Li ho visti farsi spazio e crearsi una vita all’interno di una base militare. Fingere che sia normale. Quando normale non è niente. Non è normale quando sai che da un momento all’altro potresti saltar per aria. Non è normale quando da un momento all’altro potrebbe esploderti una mina sotto il culo. Ricordo bene le parole che il tenente Monia Savioli che fa la giornalista, che mi aveva fatto il corso per partire per zone di crisi e che poi mi aveva accolta in Kosovo, mi aveva detto: “In Afghanistan impari ad apprezzare ogni momento. Vivi sul filo del rasoio perché ogni momento potrebbe essere quello “giusto””.
La paura ti perseguita. La devi controllare mi aveva detto Fausto Biloslavo che in Afghanistan ci è stato tantissime volte.
Ecco come vivono i militari lì. Alla faccia di chi dice i soldi. I quattrini. Il Dio denaro.
Ho trovato molti più uomini rispettosi della loro lei e delle famiglie che hanno a casa in Kosovo, che della mandria di sfigati e sfigate che capita a tutti di incrociare nella vita.
Eppure. Nessuna autorità ad accoglierli. Nessuna cerimonia solenne. Niente di niente. Nemmeno Di Maio che posta il selfie su Facebook.
Il generale di Brigata della Folgore, Vergori insieme ai suoi, sono stati trasportati da un C – 130 Hercules e hanno solcato per l’ultima volta la rotta dall’Afghanistan all’Italia nella base aerea militare della 46 esima Aerobrigata di Pisa.
Finiscono così vent’ anni di missione. Vent’anni di morti. Sacrifici. Feriti. Vent’anni di sudore e lacrime con 53 soldati morti e 723 feriti per il dovere di 50 mila uomini.
Ad attenderli un comunicato del ministro Guerini che è del Pd e si prodiga per i diritti di tutti.
“Un momento toccante e straordinario con la chiusura di un capitolo significativo della nostra storia – scrive – Terminano 20 anni di sforzo nazionale che hanno visto la dedizione e lo spirito di sacrificio dei nostri oltre 50.000 uomini e donne in divisa che si sono avvicendati in questi lunghi anni e voglio ricordare con gratitudine i 723 feriti e con profonda commozione le 53 vittime italiane che hanno perso la vita al servizio della Repubblica e per portare stabilizzazione e pace in Afghanistan”.
Amen

#sbetti

Quando fa comodo sono tutti italiani

Dove sono i nostri progressisti? Dove?
Dove sono quelli che alle case hanno appese le bandiere tinte arcobaleno.
Siete italiani solo quando vi fa comodo. Adesso tutti con il tricolore. Sovranisti che non siete altro.
La scena dei giocatori inglesi che si tolgono la medaglia dal collo come a dire: “che roba è questa, questa non è roba nostra, non la voglio, via schifo”, è una scena esecrabile che non si può vedere.
Gli italiani non lo avrebbero mai fatto. La medaglia qualunque sia il gradino del podio è una onorificenza che merita rispetto. In quella circonferenza d’oro, d’argento o di bronzo stanno racchiusi anni di storia, di valori, di tradizioni. C’è chi la medaglia se l’è macchiata col sangue e ci ha rimesso la vita.
Del resto quando si dice che il calcio è politica. Il calcio è anche politica. Arrigo Sacchi diceva che il calcio è la cosa più importante delle cose non importanti.
E aveva ragione.
Ma in tutto questo mi chiedo che fine hanno fatto i politicanti del politicamente corretto, i progressisti, quelli che non perdono tempo a farti vedere quanto l’Italia sia un Paese di merda e che è meglio andare all’estero, perché all’estero ti puoi sposare con qualcuno del tuo stesso sesso, puoi comprare un embrione congelato, puoi fare un sacco di cose, lavorare anche in nero nel ristorante in centro a Londra e dire che sei chef manager top restaurant dei miei stivali, perché farlo in Italia ti veniva male, che ti avrebbero scambiato con le pezze al culo.
Gli altri Paesi ci danno lezioni di Bon ton e di diritti umani e di bontà e di umanità ma il gesto di togliersi la medaglia è quanto di più inelegante è disgustoso e riprovevole che un giocatore di una nazionale possa fare.
Peggio ancora di una testata contro un avversario.
Per non parlare poi di quelli che ci dicono che siamo razzisti perché nella nazionale non abbiamo giocatori di colore.
Che pena fate.
“Nessun nero in squadra – hanno detto i francesi. Razzisti”.
Sì.
Sono quelli che al fronte a Ventimiglia respingono i migranti a suon di baionette.

#sbetti

Ricoprire un ruolo solo perché hai la patatina

Mi provoca un certo imbarazzo sapere di ricoprire un ruolo solo perché ho la patatina e non il pisellino.
Insomma ieri mattina una mia cara amica mi manda questa foto e mi scrive: “Perché il posto di un uomo intelligente dovrebbe essere lasciato a una donna che si prende il suo, solo in virtù di una quota?”.
Io le rispondo: “Perché le donne sono inferiori”.
Ora non so voi. Ma a me non piacerebbe tanto ricoprire un ruolo o avere una carica solo perché quella volta sono nata femminuccia anziché maschietto.
Perché la trovo una mancanza di rispetto assoluta nei confronti dell’essere donna che inferiore non è ma semplicemente diversa.
E mi compiaccio che ancora ci sia gente che crede che sia giusto affidare un incarico alle donne in virtù di quote rosa.
Poi proprio la Vezzali. Che si è fatta il mazzo. Il culo quadro. Che ha sputato sangue, che ha snocciolato ore di addestramento fisico, mentale, che ha accumulato tensione, pressione e che ora cavalca il motto della parità di genere.
Cioè la donna non è un essere inferiore, un animale in via di estinzione, che ha bisogno di essere accompagnato e raccomandato sempre e comunque.
Nascondersi dietro al muro della parità di genere per avere un posto nel mondo, solo perché quella volta sulla carrozzina c’era la ciocca rosa anziché azzurra, non la trovo una cosa molto onorevole e tanto meno gratificante.
Provocherebbe in me un continuo peregrinare chiedendomi se il posto che ricopro me lo sono guadagnato o se me l’hanno dato perché ero simpatica e ho fatto quattro falsi sorrisi.
Ci sono donne che capiscono quando è il caso di ridere e stare al gioco.
Detto questo io non riuscirei mai a indossare i tacchi, mettere il rossetto, entrare in un posto di lavoro, e sapere che quell’incarico mi è stato assegnato solo perché mi chiamo Serenella e non Serenello.
Ci sono donne che hanno scritto la storia delle istituzioni, enti, che hanno contraddistinto e portato in alto il Paese dal punto di vista culturale scientifico sociale senza quote rosa o altre corsie preferenziali da gambe tipo Telepass.
E sono donne che la mattina si svegliano e si danno da fare. Sono donne che combattono contro il tempo e lottano per quello in cui credono.
E il posto o l’incarico che ricoprono non deriva da un cromosoma XX anziché XY.
Il presidente del Senato, Elisabetta Casellati è una donna e non in virtù di tante quote rosa.
L’ex vice presidente dei deputati di Fi, Mara Carfagna, ora ministro, è una donna.
Marta Cartabia, giudice della Corte costituzionale, ministro della Giustizia, una carriera brillante, vita specchiata, è una donna.
La campionessa mondiale di Karate che avevo intervistato, Sara Cardin, è una donna.
Samantha Cristoforetti, prima donna italiana negli equipaggi dell’Agenzia Spaziale Europea è una donna appunto.
Il rettore dell’Universita di Padova da poco eletto, Daniela Mapelli, è una donna.
Laura Ramaciotti, rettore dell’Università di Ferrara, anch’essa da poco eletta, è una donna.
La prima donna presidente di un circolo velico ultracentenario di Napoli, Luisa De Gregorio, è una donna.
La prima presidente donna di una federazione del Coni, Antonella Granata, è una donna.
Colei ha segnato la storia del giornalismo italiano, Oriana Fallaci, era una donna. E all’epoca non c’erano tante quote rosa.
Tina Anselmi, prima donna ad aver ricoperto la carica di ministro della Repubblica Italiana, era una donna.
Nilde Iotti, prima donna eletta presidente della Camera nel 1979 era una donna.
Maria Montessori, prima donna a laurearsi in Medicina in Italia, era una donna.
E potrei andare avanti fino a mattina.
Ora. Scusate. Ma queste sono tutte donne che nella vita si sono fatte il mazzo tanto.
Aspettare di avere un posto nel mondo in virtù della patatina, lo trovo alquanto svilente oltre che mortificante.

#sbetti

Vale la pena vivere

Ana e Francesco hanno 30 anni.
Si sono conosciuti all’Università di Reading, in Inghilterra, qualche anno fa.
Era un giorno di settembre, quando fuori imperversava il cielo blu grigio di Londra e le rondini partivano volando irrequiete e radunandosi sopra i fili del telegrafo.
Ana entrò dentro l’ufficio di Francesco dove lui stava lavorando.
Lui era lì per il dottorato. Lei è arrivata dopo.
Lei ha origini albanesi. I suoi vennero qui durante la guerra. La sua seconda patria è il Veneto. Lui invece romano doc. Lo senti anche. Fa il professore. Parla inglese come bere l’acqua minerale. Molto religioso e credente.
È stata lei un giorno della mia vita in cui avevo la testa dentro la melma, immersa sotto con tutto il corpo, a tendermi una mano e tirarmi fuori.
Si sono conosciuti in ufficio e lì si sono innamorati. Lei si è accorta che lui la faceva ridere. Lui si è accorto che di quel sorriso non poteva più farne a meno.
All’inizio Ana era timida nei confronti di Francesco. Lui ama i libri. Ha una venerazione. Li tiene con zelo. Li ripone. Li coccola. Li cura. Come fossero figli. (Solo per questo è un uomo da sposare – nota dell’autore).
Il giorno in cui lei gli chiese un libro a prestito, lui le disse: “sì però fa attenzione, devi tenerlo così, metterlo colà”. A lei venne l’ansia. Ci rinunciò e il libro se lo andò a comprare.
Nella bella Londra intanto gli esami sono continuati. Gli studi anche. Giorno e notte. Notte e giorno per giovani cervelli in fuga all’estero che l’Italia spedisce fuori.
In un susseguirsi di stagioni che si avvoltolano, di mesi che iniziano e finiscono, di finestrelle che si aprono, di porte che si chiudono, di portoni che si spalancano, in un correre veloce come il tempo e la luce con il giorno e la notte che si alternano al velocizzatore, è arrivato il Covid.
E Ana e Francesco hanno deciso di sposarsi. Dopo una prima data poi spostata, l’altro giorno sono convolati a nozze.
Lei da sempre lavoratrice, laureata in Economia, fa il dottorato in Inghilterra e fin da quando aveva 15 anni è stata abituata a stare intorno al mondo. Ricordo che una volta andò a Boston in cerca di lavoro, era da sola, e una bufera di neve la colpì tutta. Mandò un video a casa a noi amici che faceva venire solo i brividi.
Lui, appassionato di conti e calcoli e algoritmi e operazioni algebriche, è la classica mente che definisci genio. Lei però non era battezzata. E per il matrimonio ha preso anche questo sacramento. Ha fatto tutto il percorso. Immergendosi dentro a più non posso.
Il giorno delle nozze io sono rimasta fuori dalla Chiesa fino a che lei non è arrivata. Me ne stavo a fumare sotto la pasticceria davanti quella chiesa della Gran Madre di Dio a Roma in via Cassia e ho visto lui che andava avanti e indietro. Indietro e avanti.
Lui se ne stava lì con le guance arrossate e la giovinezza della voglia di vivere, fremente e impaziente come un bambino che attende che la gelataia metta la pallina di gelato dentro al cono e lo consegni alla mamma.
Fremeva e attendeva l’arrivo della sua amata. L’ho visto mentre girovagava con il volto travolto dall’impazienza, infiammato dall’ardore, imporporato dall’amore.
Era lì che allungava la vista per vedere se intravedeva l’arrivo dell’auto. Quell’auto bianca. Bianca e incioccata come si incioccano le auto delle spose.
E l’auto è arrivata.
Lei è arrivata con il volto che già luccicava in lontananza.
L’auto era guidata da una donna. Il padre di lei seduto dietro teneva attorno al suo braccio la mano della sua figlia sposa.
Poi. Poi sono scesi dalla macchina. E sono saliti lungo le gradinate. Il padre mi ha detto che a volte gli tremavano le gambe per l’emozione. E che gli venivano dei mancamenti.
La sposa e il padre procedevano lentamente. Dolcemente. I bambini che erano nell’atrio a far da damigelli hanno preso posto. La gente che popolava i banchi ha cominciato a voltarsi. E prima uno. E poi un altro. E un altro ancora. Tutti rivolti di spalle agli angeli con il volto girato verso la sposa. Lei aveva il volto che esplodeva d’amore con in sottofondo quella canzone che viene dal Libano. Dove la sposa viene chiamata a essere giardino dello sposo. Ma non un giardino dove lo sposo pianta quello che vuole. Un giardino dove cresce l’amore. Dove si piantano i semi. Fioriscono i germogli. Nascono i frutti. Un giardino aperto agli altri. Perché il matrimonio in un mondo dove nessuno più si sposa, come ha detto il parroco, non è un sistema chiuso. È luce e sale per qualche altro. È amore. È passione. È terreno fertile.
La messa è andata avanti.
I canti sfavillanti, le sinfonie che sanno d’organza venute da lontano, da Paesi che un giorno troveranno la pace. La madre che ti abbraccia. Gli sposi coperti da un telo tenuto su dai genitori secondo il rituale di una liturgia ebraica.
“Accolgo te come mia sposa”, ha detto Francesco. “Accolgo te come mio sposo”, ha detto Ana.
“Siete sposi”, ha detto il parroco.
Applausi ha invocato il pubblico.
Quando gli sposi sono usciti ad attenderli fuori c’era il fiume di gente. Gli auguri i baci gli abbracci le foto. Le strette di mano. I sorrisi. Le felicitazioni. Due pullman che attendevano gli invitati e via di corsa verso i festeggiamenti. Una donna mi si è avvicinata e mi ha detto: “beata te che hai le scarpe basse”, “io sono furba” le ho risposto.
Arrivati a Frascati, un comune di poco più di ventimila abitanti, famoso per le Ville Tuscolane, gli invitati con le jeep sono andati su in cima alla Villa dei Consoli. L’atmosfera era bella. Regnante. Governava serena.
Qui hanno iniziato ad arrivare i vassoi. La roba da mangiare. I cicchetti di pesce. Quelli di baccalà. Quelli di verdure pastellate. Ha iniziato ad arrivare quel prosecco che mi ha dato alla testa tanto da dividere col mio amico un oki. La musica degli U2, il piano bar, i divanetti rilassanti. Fino a che.
Fino a che durante la cena tra il primo e il secondo la sposa ha tirato fuori un tovagliolo. E ha iniziato a sventolarlo, svolazzarlo, farlo roteare nell’aria disegnando semi d’amore.
La sua famiglia le è andata dietro. E come in un film quando esplodono il ballo e la Salute tutti si sono messi a ballare. A roteare. A innalzare. A gongolare. A far svolazzare quel fazzoletto di organza e d’argento dove prima ci stavano avvolte le posate. Un canto dai Balcani, venuto dal vento.
In quei momenti. In quei momenti la sala è esplosa. Il trionfo della cultura. L’importanza delle tradizioni. Lo sposalizio. L’incrocio di culture. Il rispetto verso gli altri. È la vita che scorre nelle vene. È il sorriso stampato sui parenti in un’esplosione di felicità che ti fa riscoprire le origini. È un sentirsi ancora parte di un gruppo. Di una comunità. Un rendere grazie. A chi siamo. A come eravamo. È un mescolarsi. Un amalgamarsi.
È stato un “Porta la tua vita, Che vediamo che succede a mescolarle un po’”.
Perché poi alla fine.
Alla fine gli invitati e gli sposi hanno guardato un video.
Lì dentro. Lì dentro c’erano i loro ricordi. I loro sogni, avventure, progetti, ambizioni, affetti.
Quelli per cui “vale la pena vivere”.

#sbetti

Campioni del mondo

Roma luglio 2021

Il giorno che l’Italia vinse i Mondiali nel 2006, il giorno dopo avevo dopo l’esame di Diritto Penale. Padova. Facoltà di Giurisprudenza.
Era il 9 luglio. L’esame era il 10. Il dieci luglio.
La sera in cui ci fu la partita io e il mio ragazzo dell’epoca ci trovammo con alcuni amici a casa di un amico a fare festa.
Le lance con le fiaccole anti zanzare illuminavano il viale. E le candele alla calendula disegnavano il cammino verso la tavolata.
Ricordo che una candela, non appena segnò l’Italia, si rovesciò addosso a una persona che ci aveva messo il piede dentro. Se non fosse stato così lesto a dimenarsi ne sarebbe rimasto ustionato.
Quella sera ad attenderci c’era una grande grigliata.
L’Italia batté la Francia con 5 a 3 ai calci di rigore, dopo l’1-1 dei tempi regolamentari e supplementari. I calci di rigore vennero messi a segno da Pirlo, Materazzi, De Rossi e Del Piero. La Francia invece dopo Wiltord, Abidal e Sagnol, cannò con Trezeguet che colpì la traversa.
Fu Grosso a tirare il goal decisivo che consegnò all’Italia il quarto titolo mondiale della sua storia. Per la quarta volta, dopo Italia 1934, Francia 1938 e Spagna 1982 (non ero ancora nata) l’Italia poteva ancora macchiarsi di quel “campione del mondo”, “campione del mondo”, “campione del mondo”, e ancora “campione del mondo”.
Un mio amico che non riuscì a guardare i calci di rigore perché soffriva troppo, come la sottoscritta che però ha voluto guardarli tutti senza mai nemmeno chiudere gli occhi, se ne stava in piedi sopra un’aiuola e fumare una sigaretta e bere una birra.
Fu una partita sofferta. Sofferente. In fremito. Anche perché il giorno dopo avevo l’esame di Penale e il risultato della partita avrebbe determinato – l’ho sempre saputo – l’esito della mia prova. Volevo crederci. A tutti i costi.
Ricordo che la tavolata era stracolma di amici. Mangiavamo felici.
Con le molliche di pane lasciate sulla tavola perché distrattamente ingoiavamo senza sapere cosa mettevamo tra i denti. Gli occhi fissi davanti allo schermo. Gli insulti. Il tifo. Il deliri. E il casino allucinante di un Paese in fremito.
Quando Grosso mise a punto il segno capimmo di aver vinto. Che la nostra nazionale aveva vinto, e iniziammo a lavarci con il prosecco.
Aprimmo le bottiglie di vino e lo spruzzammo ovunque. Il mio telefono che era rimasto sopra al tavolo si inondò di vino, tanto che un mese dopo quando venni a Roma in ferie, andavo in giro col telefono che sapeva ancora di prosecco e dentro aveva delle bolle d’acqua mai asciugate.
Ma quella sera. Quella sera facemmo una grande festa. Prendemmo la macchina. Issammo la bandiera sopra il tettuccio e andammo strombazzando a Castelfranco Veneto. In giro esplodevano le strade. Formicolavano i tifosi. Brulicavano i fanatici. Si addensavano gli sfegatati.
Tutto intorno la città esplodeva.
Le strade rigurgitavano eccitati.
Le auto sfilavano e sfavillavano a passo d’uomo con issate le bandiere e la gente sedeva sopra le cappotte. In giro non era altro che un’esplosione di festa. E di esultanza.
Passai la notte fuori. E il giorno dopo mi presentai all’esame.
Ero così talmente contenta e felice che l’Italia avesse vinto – io sono una tifosa fuori maniera – che riuscì ad affrontare l’esame credendoci e basta. Avevo studiato sì, ma non come avrei voluto. In più non avevo dormito. E avevo ancora il telefono che sapeva di prosecco.
Il giorno dopo presi l’auto. Palazzo del Bo. Padova. Facoltà di Giurisprudenza. Mi presentai all’esame. Ricordo ancora che il professore come prima domanda mi chiese le attenuanti generiche.
Figlio mio le attenuanti.
Sfilai un 24. Il professore lo segnò nel libretto. Mi guardò il volto. Le borse della spesa mi comparivano sotto gli occhi. Infilai in tasca il libretto. Presi le mie cose. Uscii dall’aula.
Mi accesi una sigaretta e ricominciai a fare festa.
Le cose accadono. Solo se ci credi.
Forza Azzuri.

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