Vale la pena vivere

Ana e Francesco hanno 30 anni.
Si sono conosciuti all’Università di Reading, in Inghilterra, qualche anno fa.
Era un giorno di settembre, quando fuori imperversava il cielo blu grigio di Londra e le rondini partivano volando irrequiete e radunandosi sopra i fili del telegrafo.
Ana entrò dentro l’ufficio di Francesco dove lui stava lavorando.
Lui era lì per il dottorato. Lei è arrivata dopo.
Lei ha origini albanesi. I suoi vennero qui durante la guerra. La sua seconda patria è il Veneto. Lui invece romano doc. Lo senti anche. Fa il professore. Parla inglese come bere l’acqua minerale. Molto religioso e credente.
È stata lei un giorno della mia vita in cui avevo la testa dentro la melma, immersa sotto con tutto il corpo, a tendermi una mano e tirarmi fuori.
Si sono conosciuti in ufficio e lì si sono innamorati. Lei si è accorta che lui la faceva ridere. Lui si è accorto che di quel sorriso non poteva più farne a meno.
All’inizio Ana era timida nei confronti di Francesco. Lui ama i libri. Ha una venerazione. Li tiene con zelo. Li ripone. Li coccola. Li cura. Come fossero figli. (Solo per questo è un uomo da sposare – nota dell’autore).
Il giorno in cui lei gli chiese un libro a prestito, lui le disse: “sì però fa attenzione, devi tenerlo così, metterlo colà”. A lei venne l’ansia. Ci rinunciò e il libro se lo andò a comprare.
Nella bella Londra intanto gli esami sono continuati. Gli studi anche. Giorno e notte. Notte e giorno per giovani cervelli in fuga all’estero che l’Italia spedisce fuori.
In un susseguirsi di stagioni che si avvoltolano, di mesi che iniziano e finiscono, di finestrelle che si aprono, di porte che si chiudono, di portoni che si spalancano, in un correre veloce come il tempo e la luce con il giorno e la notte che si alternano al velocizzatore, è arrivato il Covid.
E Ana e Francesco hanno deciso di sposarsi. Dopo una prima data poi spostata, l’altro giorno sono convolati a nozze.
Lei da sempre lavoratrice, laureata in Economia, fa il dottorato in Inghilterra e fin da quando aveva 15 anni è stata abituata a stare intorno al mondo. Ricordo che una volta andò a Boston in cerca di lavoro, era da sola, e una bufera di neve la colpì tutta. Mandò un video a casa a noi amici che faceva venire solo i brividi.
Lui, appassionato di conti e calcoli e algoritmi e operazioni algebriche, è la classica mente che definisci genio. Lei però non era battezzata. E per il matrimonio ha preso anche questo sacramento. Ha fatto tutto il percorso. Immergendosi dentro a più non posso.
Il giorno delle nozze io sono rimasta fuori dalla Chiesa fino a che lei non è arrivata. Me ne stavo a fumare sotto la pasticceria davanti quella chiesa della Gran Madre di Dio a Roma in via Cassia e ho visto lui che andava avanti e indietro. Indietro e avanti.
Lui se ne stava lì con le guance arrossate e la giovinezza della voglia di vivere, fremente e impaziente come un bambino che attende che la gelataia metta la pallina di gelato dentro al cono e lo consegni alla mamma.
Fremeva e attendeva l’arrivo della sua amata. L’ho visto mentre girovagava con il volto travolto dall’impazienza, infiammato dall’ardore, imporporato dall’amore.
Era lì che allungava la vista per vedere se intravedeva l’arrivo dell’auto. Quell’auto bianca. Bianca e incioccata come si incioccano le auto delle spose.
E l’auto è arrivata.
Lei è arrivata con il volto che già luccicava in lontananza.
L’auto era guidata da una donna. Il padre di lei seduto dietro teneva attorno al suo braccio la mano della sua figlia sposa.
Poi. Poi sono scesi dalla macchina. E sono saliti lungo le gradinate. Il padre mi ha detto che a volte gli tremavano le gambe per l’emozione. E che gli venivano dei mancamenti.
La sposa e il padre procedevano lentamente. Dolcemente. I bambini che erano nell’atrio a far da damigelli hanno preso posto. La gente che popolava i banchi ha cominciato a voltarsi. E prima uno. E poi un altro. E un altro ancora. Tutti rivolti di spalle agli angeli con il volto girato verso la sposa. Lei aveva il volto che esplodeva d’amore con in sottofondo quella canzone che viene dal Libano. Dove la sposa viene chiamata a essere giardino dello sposo. Ma non un giardino dove lo sposo pianta quello che vuole. Un giardino dove cresce l’amore. Dove si piantano i semi. Fioriscono i germogli. Nascono i frutti. Un giardino aperto agli altri. Perché il matrimonio in un mondo dove nessuno più si sposa, come ha detto il parroco, non è un sistema chiuso. È luce e sale per qualche altro. È amore. È passione. È terreno fertile.
La messa è andata avanti.
I canti sfavillanti, le sinfonie che sanno d’organza venute da lontano, da Paesi che un giorno troveranno la pace. La madre che ti abbraccia. Gli sposi coperti da un telo tenuto su dai genitori secondo il rituale di una liturgia ebraica.
“Accolgo te come mia sposa”, ha detto Francesco. “Accolgo te come mio sposo”, ha detto Ana.
“Siete sposi”, ha detto il parroco.
Applausi ha invocato il pubblico.
Quando gli sposi sono usciti ad attenderli fuori c’era il fiume di gente. Gli auguri i baci gli abbracci le foto. Le strette di mano. I sorrisi. Le felicitazioni. Due pullman che attendevano gli invitati e via di corsa verso i festeggiamenti. Una donna mi si è avvicinata e mi ha detto: “beata te che hai le scarpe basse”, “io sono furba” le ho risposto.
Arrivati a Frascati, un comune di poco più di ventimila abitanti, famoso per le Ville Tuscolane, gli invitati con le jeep sono andati su in cima alla Villa dei Consoli. L’atmosfera era bella. Regnante. Governava serena.
Qui hanno iniziato ad arrivare i vassoi. La roba da mangiare. I cicchetti di pesce. Quelli di baccalà. Quelli di verdure pastellate. Ha iniziato ad arrivare quel prosecco che mi ha dato alla testa tanto da dividere col mio amico un oki. La musica degli U2, il piano bar, i divanetti rilassanti. Fino a che.
Fino a che durante la cena tra il primo e il secondo la sposa ha tirato fuori un tovagliolo. E ha iniziato a sventolarlo, svolazzarlo, farlo roteare nell’aria disegnando semi d’amore.
La sua famiglia le è andata dietro. E come in un film quando esplodono il ballo e la Salute tutti si sono messi a ballare. A roteare. A innalzare. A gongolare. A far svolazzare quel fazzoletto di organza e d’argento dove prima ci stavano avvolte le posate. Un canto dai Balcani, venuto dal vento.
In quei momenti. In quei momenti la sala è esplosa. Il trionfo della cultura. L’importanza delle tradizioni. Lo sposalizio. L’incrocio di culture. Il rispetto verso gli altri. È la vita che scorre nelle vene. È il sorriso stampato sui parenti in un’esplosione di felicità che ti fa riscoprire le origini. È un sentirsi ancora parte di un gruppo. Di una comunità. Un rendere grazie. A chi siamo. A come eravamo. È un mescolarsi. Un amalgamarsi.
È stato un “Porta la tua vita, Che vediamo che succede a mescolarle un po’”.
Perché poi alla fine.
Alla fine gli invitati e gli sposi hanno guardato un video.
Lì dentro. Lì dentro c’erano i loro ricordi. I loro sogni, avventure, progetti, ambizioni, affetti.
Quelli per cui “vale la pena vivere”.

#sbetti

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