“Signora qui è la polizia, sua figlia sta male, ha bevuto troppo”

Reportage uscito su La Verità.

Due whiskey per favore”. “Prego?”. “Sì, due whiskey”. Sono le cinque del pomeriggio. Lungomare Gramsci di Porto San Giorgio, in provincia di Fermo. Pieno agosto. Due ragazzini, all’incirca di quindici anni, si avvicinano al bancone dello chalet in spiaggia. Ordinano da bere. Roba forte, insolita per due ragazzi di quell’età. Il barista serve loro due bicchieri. Sghignazzano, sogghignano, il volto si corruga di un sorriso beffardo e sarcastico, poi spifferano qualcosa. Uno afferra il bicchiere, lo ghermisce tra le mani, lo abbranca, non sa come tenerlo. L’altro lo guarda. Agguanta il bicchiere anche lui. Pronti, mezza via, e giù a rotta di collo. A bere come forsennati. Come disperati. Uno, quello che pareva più borioso, più smargiasso, si sbrodola tutto, quel whiskey alle cinque del pomeriggio fa fatica ad andare giù. Poi tradito dall’orgoglio ormai ferito, si acciglia, molla un rutto che emette un suono come un tuono, l’altro lancia una bestemmia e lasciando il bancone immondo e inzuccherato, insieme prendono e se ne vanno. Il barista prende lo sparrone e pulisce i loro rimasugli.

Passa qualche giorno e la sera di Ferragosto in pieno centro le scene si ripetono. Si fanno eclatanti. Vistose. Ragazzini che barcollano sul lungomare con la bottiglia di vodka in mano, ragazzine svestite adagiate su una panchina in evidente stato di alterazione psicofisica. Minorenni che si raggruppano in spiaggia o ai giardinetti dei bambini e consumano alcol come fosse acqua. Fanciulli con ancora i denti da latte che si sorreggono l’un con l’altro. E poi via. Giù a bere, come se non ci fosse un domani, come se quel liquido fosse l’unico motivo del loro ritrovo. Li vedi quando vengo avanti. Tutti vestiti uguali, i jeans abbassati che a momenti si vedono le natiche, le scarpe da jogging ai piedi, i capelli laccati, impiastricciati, impomatati, le risate che si fanno sempre più forti, e poi diventano deliri, isterie, nausee, ubriacature solerti, mal di pancia conturbanti, voltastomachi nauseabondi. Fino a stendersi, fino a sdraiarsi per terra, fino all’amico che ti tiene la testa con la mano mentre vomiti davanti l’abitazione di qualcuno che manco conosci. Fino a quelle luci dell’alba che si elevano sul porto quando ormai si fa giorno. O fino a quelle luci. Le più tremende. Le luci blu. Gemiti di minori ubriachi, sirene che sopraggiungono nel cuore della notte, infermieri bardati di strumenti e valigette: misura la pressione, controlla la lingua, solleva le palpebre, tasta i polsi, carica, porta via in barella. Le porte dell’ambulanza che si chiudono e via in ospedale.

È successo anche l’altro giorno. A pochi chilometri da qui dove mi trovo ora. Ma accade in tutta Italia. Qui ad Ascoli Piceno la settimana scorsa, una ragazzina è stata portata al pronto soccorso dopo aver alzato decisamente il gomito: non si reggeva in piedi, barcollava, ciondolava, sbarellava, stava male, delirava. Le forze di polizia hanno chiamato i soccorsi. “Signora, qui è la polizia, sua figlia sta male, ha bevuto un po’ troppo, la stanno portando in ospedale”. Ma la risposta della madre lascia sgomenti. Ce lo racconta una nostra fonte.“Eh io sono a una festa adesso, il tempo che ci vuole ad arrivare”. Nessun allarmismo. Nessuna indignazione, nessuno scalpore. Nessun trauma o shock di quelli che ti vengono quanto ti chiamano per dirti che un parente ha avuto un incidente e tu sei lì che vorresti parlarci, sentirlo, vorresti entrare dentro a quel telefono e toccarlo con mano per vedere che sta bene. E fino a che non lo raggiungi ti disperi, ti vengono mille pensieri, mille dubbi, mille angosce, tutte in un minuto, in un secondo. Qui è normale, ci dicono. Per alcuni finire in ospedale dopo una sbronza sta diventano la normale consuetudine. Del resto sono sempre più. Basta ascoltare i racconti di qualche festa per concepire lo slabbramento dei rapporti, la tracimazione delle relazioni.

Ci si spinge sempre più in là, sempre un pezzetto oltre, per provare l’abuso, lo stato di euforia, l’ eccitazione, il furore. Ci si slabbra fino a stare male e si finisce riaccompagnati a casa senza sapere dove si sia stati, cosa sia accaduto. “Sono arrivato a casa l’altro giorno – ci racconta un ragazzo – e mi sono trovato a dormire in giardino, non so nemmeno perché”. Come non lo sai? Ma che è successo? Che hai fatto? “Boh guarda, eravamo tanti, tantissimi, siamo andati a casa dei genitori di un nostro amico e abbiamo preso da bere perché non ce lo vendono, aveva anche bottiglie di Scotch, roba forte, poi non ho più capito niente, uno ha iniziato a riempire i bicchieri, ci siamo fatti uno shottino, poi un altro, un altro ancora, poi abbiamo preso una bottiglia di Absolut, poi la vodka, oh bro – fratello ndr – dovevi vedere, c’era anche una mia amica che si passava il liquido sul dito e se lo infilava in bocca”. Ma e poi che è accaduto? “Non lo so. Mi sono trovato in giardino”. “Io se voglio scopare – ci dice un’altra ragazza – devo per forza bere, sennò non riesco a partire, a cominciare, io ho problemi col mio corpo e quindi bere mi toglie ogni inibizione”.

Anche qui due giovani la notte di Ferragosto sono finiti in coma etilico. E poi risse, malori. Feste in spiaggia con tanto di zaini con dentro gli alcolici. Funziona così. Una ragazza voleva prepararci uno spritz, senza nemmeno la soda, l’acqua, niente di niente, solo alcol, bottiglie di Campari e Aperol a nastro, e fiumi di prosecco da 3 euro da far venire il cerchio alla testa. La polizia era in borghese a controllare il rispetto delle norme sulle somministrazioni degli alcolici, ma i giovani sono più furbi del legislatore e quindi se non si possono vendere drink ai ragazzi, ci si porta l’alcol da casa. Ma siccome in giro nei precedenti weekend è successo il disastro, il sindaco di Porto San Giorgio, Valerio Vesprini, ha emesso un’ordinanza “contingibile e urgente” che imponeva di vendere per asporto “bevande alcoliche e superalcoliche in qualsiasi contenitore”, tra le 20 del 19 agosto e le 6 del 20 agosto scorso. Il punto è che l’ordinanza era per tutti, non solo per i minorenni, cosicché siamo entrati al supermercato e trovandoci il cartello davanti addio birra per gli amici che venivano a mangiare la pizza.

Del resto, mali estremi, estremi rimedi. Ma servirà? Il problema alcol nei giovani è da un po’ che va avanti, è esploso così dopo il covid e ancora non se ne parla abbastanza. L’anno scorso, era il mese di luglio, un ragazzino della provincia di Alessandria è stato portato in ospedale al limite del coma etilico dopo avere bevuto abbondanti quantità di rum durante una serata con gli amici. Prima di lui, era gennaio 2022, un’altra quindicenne, a Roma, è stata ricoverata in gravi condizioni sempre dopo una “abbuffata” di alcolici.E non si tratta di casi isolati: il fenomeno, avvertono gli esperti, è in preoccupante aumento.Nel caso del ragazzino, a chiamare i soccorsi è stata la madre. Le condizioni del ragazzo, avevano fatto sapere alla centrale operativa, “erano quasi al limite del coma etilico con un principio di ipotermia”. Anche ad aprile scorso, sempre qui nelle Marche, una ragazzina minorenne frequentante un istituto superiore era giunta in classe alle otto del mattino già ubriaca. Furono le insegnanti ad allertare i soccorsi. Ed era il 29 luglio scorso quando a La Spezia un ragazzino di 15 anni è finito in coma etilico per aver bevuto vodka acquistata in un minimarket etnico insieme a dei coetanei. Il negozio è stato sanzionato. Il ragazzino, vivo, giaceva lì su una panchina di piazza Verdi, bruciando la sua vita.

Serenella Bettin

Dagli all’italiano

Dagli all’italiano. La tragica vicenda accaduta domenica pomeriggio a Sirolo in provincia di Ancona lascia ben intendere che in Italia la narrazione talebana si basa essenzialmente sulla dimostrazione che l’italiano è un rozzo razzista e omofobo. Mi spiego meglio.
Domenica pomeriggio nel paesello marchigiano di poco più di quattromila abitanti, un ragazzo di 23 anni, albanese, Klajdi Bitri, questo il suo nome, è stato trafitto da una fiocina a tre arpioni in mezzo alla strada per mano di Fatah Mellou, algerino.
La dinamica ricostruita finora parrebbe essere questa: c’era un’auto che andava piano e dietro c’era la vettura guidata dall’algerino. La donna che gli stava davanti ci metteva troppo a decidere dove andare e quindi tentennava. Scrutava.
L’algerino ha preso, è sceso dall’auto e ha iniziato a inveire contro il marito della donna al volante, picchiandolo. Un gruppo di amici, tra cui l’albanese ferito a morte è giunto in soccorso.
Quando l’algerino ha visto l’albanese intervenire in difesa dell’uomo picchiato e della moglie, ha preso il fucile da pesca e ha freddato Klajdi Bitri al primo colpo.
Ora, questo fatto mi ha ricordato quello dell’anno scorso, quello del nigeriano, Alika Ogorchukwu, ucciso a colpi di stampella da un italiano. E fatalità proprio qui a pochi chilometri da Sirolo.
Subito arrivarono i media da ogni dove.
Per mesi andarono avanti con la menata del razzismo – e io Civitanova Marche la conosco e tutto si può dire ma non che sia razzista – e per mesi inzupparono la testa delle gente dando loro da bere che l’Italia in realtà è un Paese composto da quattro brutti disgraziati che ammazzano la gente per le strade a stampellate. Quasi ci fecero credere che era colpa nostra la morte di Alika, che era stato ammazzato a morte perché non l’avevamo protetto, perché non avevamo fatto abbastanza, perché non avevamo prestato aiuto a quel mendicante che ogni giorno faceva l’elemosina. Subito si levarono le corna dei politicanti del politicamente corretto a dire che era colpa di Meloni e Salvini. Di chi seminava l’odio. Giornaloni da tutto il mondo per raccontare la parte che faceva comodo loro e cioè che l’Italia è brutta e cattiva.
Subito tutti starnazzarono in coro, mio Dio il razzismo. Dio mio il razzismo. Il razzismo oh mio Dio. Chi si fece bello attaccando la destra. Chi ci marciò sopra perché meglio un morto per dimostrare la propria causa che un vivo per dire: “sì ho sbagliato”. Chi si fermò a posare un mazzo di fiori sopra il luogo dove era stato ammazzato. Per settimane udimmo cori, raccolte firme, comitati urlanti, manifestazioni, volantinaggi, veline che sposarono la causa senza manco sapere la realtà del posto.
Ora qui, nel caso dell’albanese ammazzato dall’algerino non vedo tanti strepitii delle anime belle, nessun commento dei talebani del politicamente corretto, nessun camminamento di gente, nessun sepolcro, nessun altare allestito in mezzo alla strada, nessuno che starnazza mio Dio il razzismo, il razzismo Dio mio. Oddio il razzismo. Ah già no. Dimenticavo, qui l’omicida non è italiano. È algerino. Quindi si può far finta di niente.
Poi ditemi, chi sono i razzisti?

#sbetti

Lampedusa: rubano i motori dai barchini e li rivendono agli scafisti

La Verità – 1 agosto 2023.

Rubano i motori dei barchini dei migranti e poi li rivendono a caro prezzo agli scafisti. Per un motore possono arrivare a chiedere anche 15 mila euro. 

È questo uno degli esiti inquietanti dell’ultima inchiesta della procura di Agrigento.

Il tutto avviene nel canale di Sicilia, la rotta delle migrazioni più pericolosa a livello mondiale e ora anche teatro di pirateria marittima. 

Sono nordafricani, si fingono pescatori, si trasformano in pirati e minacciano i migranti in mare. Con i loro pescherecci inseguono i barconi dei naufragi che viaggiano verso le coste siciliane, poi se questi desistono, i pirati si mettono di traverso, sbarrano loro il percorso, li costringono a fermarsi e li minacciano con dei coltelli.

Prima rubano i motori delle “carrette”, poi lasciato a piedi il natante, depredano e fanno razzia di tutto, dai soldi, ai cellulari, lasciando i disperati senza possibilità alcuna di chiamare i soccorsi.

Quattro di loro, tunisini, tutti dai 43 ai 50 anni, sono già stati fermati dalla squadra mobile di Agrigento, dalla sezione operativa navale della guardia di finanza e dai militari della guardia costiera di Lampedusa. 

E si tratta del comandante e dell’equipaggio del motopesca “Assyl Salah”. Gli investigatori sono giunti a loro grazie alle testimonianze di alcuni superstiti del naufragio del 23 luglio scorso, in acque sar maltesi, ossia le zone search and rescue, quelle di salvataggio. Quel giorno ci furono 5 dispersi tra cui un bimbo. Trentasette vennero sbarcati a Lampedusa e 16 di loro, a causa di ustioni sparse in tutto il corpo e ipotermia, vennero portati nel poliambulatorio per essere medicati. Raccontarono che erano in 43, forse in 45, e che tra di loro c’erano anche 3 bambini. Dissero di essere partiti da Sfax in Tunisia, come tanti disperati che ogni giorno si imbarcano cercando di raggiungere le nostre coste, e di essere partiti il 22 luglio alle 22 circa. Lì il barchino sul quale erano trasportati venne avvicinato da un peschereccio tunisino che tentò di rubare il motore. Di lì a poco ci fu il naufragio. Agli investigatori però queste testimonianze non giunsero come nuove, c’erano stati episodi simili e da lì gli inquirenti iniziarono a unire i puntini. Si erano già accorti che diversi barchini, prevalentemente di fabbricazione artigianale, arrivavano a Lampedusa senza motore. Già a fine aprile scorso una bambina di appena 4 anni cadde in mare e annegò perché durante la navigazione l’imbarcazione dove viaggiava venne abbordata da un peschereccio tunisino che anche questa volta tentò di depredare tutto.

Il 26 marzo scorso sempre un barchino di sette metri, con 42 persone a bordo, venne trovato alla deriva senza motore, che, stando alle testimonianze fornite dai migranti, era stato rubato proprio da un peschereccio tunisino.

La procura di Agrigento, con a capo il reggente Salvatore Vella, ha dato avvio alle indagini, con un lavoro di approfondimento del fenomeno con il comando generale delle Capitanerie, con il comparto aeronavale della Guardia di Finanza e col mondo dell’accademia universitaria. Tanto che le informazioni acquisite nell’ambito di questa inchiesta sono state condivise con i Paesi esteri tramite i canali Interpol.

E gli esiti sono inquietanti. Gran parte dei barchini soccorsi sono senza motore. E nel Mediterraneo ci sarebbero bande di tunisini, a bordo di pescherecci, che rubano e poi rivendono a caro prezzo agli scafisti i motori dei barchini. Sono stati sequestrati anche motori da 300 cavalli, e il prezzo per un motore, rivelano fonti della Verità, va dai 1000 ai 15 mila euro. Dipende dalla potenza. Quelle presi di mira dai pirati sono le imbarcazioni cariche di gambiani, ivoriani, guineani, senegalesi, sudanesi e burkinabé. Non quelli con i connazionali a bordo. Il gip ha già convalidato i fermi, disponendo a carico degli indagati la custodia cautelare in carcere. Rischiano fino a 20 anni di reclusione.

“Per la polizia giudiziaria – ha detto il procuratore capo Salvatore Vella – diventa sempre più difficile lavorare su Lampedusa, e questo a causa dei numeri incredibili che stiano registrando quest’anno, sia come sbarchi che come migranti che approdano. Oltre al fatto che mancano interpreti”. 

“L’operazione conclusa – dice il questore di Agrigento Emanuele Ricifari – è motivo di orgoglio: ciascuna delle forze di polizia ha svolto la propria competenza. Il risultato traccia una strada per il reato che viene contestato nel nostro ordinamento per la prima volta per fatti avvenuti nel Mediterraneo. In più è un deterrente per chi volesse fare azioni disdicevoli simili”.

“Questi arresti sono la conferma di quanto sia fondamentale contrastare l’immigrazione irregolare – ha detto il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi – anche a tutela degli stessi migranti che finiscono nelle mani di criminali senza scrupoli che ne mettono a rischio la vita”. Piantedosi si è appellato al “dovere di tutti gli Stati di agire insieme per sconfiggere questa piaga mondiale che riguarda i Paesi di origine, transito e destinazione delle vittime, per la maggior parte donne e bambini”. 

Serenella Bettin

L’estate è la stagione dell’ineleganza assoluta

L’altro giorno osservano la spiaggia e notavo che il mare sta diventando sempre più un carnaio e un puttanaio. L’estate del resto è la stagione dei rozzi. Una stagione di una ineleganza assoluta dove regna la mancanza di pudore, abbonda invece il sudore; dove è ammesso tutto, anche vedere pance e culi scoperti, e dove nessuno più si pone il problema se rutta o scoreggia o espleta i propri bisogni in mezzo all’acqua.
In più ci sono rotondità ed ossa esposte in prima fila come al mercato delle manze o dei tori. Ribadisco per chi non abbia ben compreso che il problema non sono i 40 chili o i 90, in quanto la cafonaggine non è determinata dal peso o dall’eccessivo scarno.
Davvero non mi capacito di come alcune persone possano essere così rozze e trozzalone. Ogni volta che incontro una persona uscita dalle caverne lungo il mio percorso, e la vedo lì che si misura le natiche prima di entrare in acqua, mi chiedo che lavoro faccia.
Se abbia un percorso. Se abbia studiato. Se sia lo stesso che magari a settembre siede su qualche bell’ufficio laccato e se mentre sta tenendo una riunione importante non gli venga in mente che correva come un pinguino in mezzo alla spiaggia calpestando cafonamente agli asciugamani di tutti.
Una roba che col buongusto credetemi non ha niente a che vedere.
Si sono persi l’eleganza, il buon costume.
Una volta, dacché mi ricordo, c’era ancora qualche barlume di signorilità in spiaggia, ora domina un esercito di cafoni e cafone, di trozzaloni e trozzalone, di beceri e di becere, che vi giuro non ci uscirei manco se dovessi andare a scaricare pomodori.
Alcuni figli poi vengono su peggio dei genitori.
Poi che dire di tutta quella gente che urla. Che grida. Che sbraita in spiaggia. Gente incivile che in bagno non tira l’acqua. Pare che tutto sia permesso. Tipo mettersi le mani nel naso, in bocca, in mezzo alle orecchie e poi dopo averle messe, andare al bar e con la stessa mano con cui si infilato il dito dentro nel sedere prendere in mano il cucchiaino e mescolarci il caffè. Per non parlare delle donne. Le donne sono una mostra di arte sacra ma faticano a ricordarsene. Dovrebbero essere venerate e invece le vedi che fanno a gara con costumi orribili fatti di paillettes cuciti dai bambini del Vietnam e che sfoggiano sotto il sole.
Quelle poi in fila al bar e che vogliono fregarti il posto perché loro c’hanno il foulard in testa di Hermes da 39 mila euro e tu sei una pezzente che in testa c’hai un elastico sfilacciato e come borsa una pochette svenduta, cucita da italiani artigiani ridotti con le pezze al culo a cui lo Stato non garantisce manco più la pensione. E poi ci sono quelle che come gira la terra devono seguire il sole. Prima si mettono a destra poi a sinistra poi davanti poi didietro poi in mezzo e tutta la spiaggia gira e si crea quell’onda di asciugamani tutti perfettamente allineati che mi viene l’angoscia a vederli. Per non parlare poi di quelli che urinano in acqua e la gente ci fa pure il bagno. O ieri, quello davanti a me, sulla doccia si è quasi tolto il costume, si è guardato giusto in mezzo alle gambe, ha controllato che lì sotto fosse tutto a posto, poi ci ha messo la mano dentro, si è lavato per bene, c’ ha fatto passare l’acqua e con quella stessa mano ha chiuso la manopola.
Mi sono lavata a casa.

sbetti

Qui si sta in fila come i dannati

In fila come i dannati. La donna che mi sta davanti versa l’acqua al padre. Gli apre dolcemente la bocca e cerca di farla scivolare giù lentamente lungo la lingua. Il padre avrà all’incirca 90 anni. Il numero 90 ti fa pensare a un omone bello e grosso. E invece è un omino piccolo piccolo incanutito dal dolore, svezzato dall’orgoglio, piegato dalle piaghe del corpo. Ha le braccia esili esili. Le gambette saranno la metà delle mie. Fissa il pavimento. Chissà, penso, forse ripensa alla sua vita. A quella vita andata e passata, a lui che ha cresciuto figli, che ha amato, lavorato, sudato, a lui che ha messo su famiglia, Dio come faccio a pensare di essere ora senza forze, inerme, con quella figlia a cui davo da mangiare e da bere e ora è lei che dà da bere a me. Il suo viso sembra quello di un bambino. Ma invecchiato. Smunto.
Qui è mezzogiorno in punto. La situazione si fa calda. Complicata. Il traffico è tanto, al pronto soccorso arriva una barella dietro l’altra. La signora che mi sta accanto invece ha preso una botta in testa. Ha paura di avere un trauma. Vuole alzarsi ma l’infermiera le dice di stare ferma, che non si sa mai cosa ti possa succedere. La donna che è appena entrata invece ha una cannuccia piccola piccola che le parte dal naso e le arriva fino alla bocca. Grazie a quella può respirare. È cardiopatica. Sulla bombola che l’infermiere appoggia sopra quel letto coperto da quelle gambe di un pigiama sgualcito, c’è scritto ossigeno. Le barelle. Quante barelle. Qui le barelle arrivano come le valigie ai nastri trasportatori dell’aeroporto. Gli infermieri con una calma e una pazienza formidabili le prendono, le spostano, le accostano, fanno retromarcia, vanno avanti, si inceppano, scavalcano. Ci sono anche quelli che sollevano i malati e – uno – due – tre – al mio quattro – giù sulla barella.
E il paziente sprofonda. Questa è l’ora dei dannati, di quelli che si tengono aggrappati alla vita, di quelli che cercano cure, ripari, calori, salvagenti dell’anima in questo mare di dolori. Sofferenze atroci. Acute. Che scavano dentro. Che ti entrano appresso. Te le senti addosso. Ti rimangono aggrappate una settimana e più tenti di scacciarle più non se ne vanno. Un uomo è arrivato, aveva il catetere attaccato, lo sguardo perso nel vuoto. Poco dopo è arrivata la figlia: “Dov’e mio padre? L’hanno ricoverato”. C’è anche il giocatore di basket che dorme lì sul giaciglio di un letto preparato all’ultimo, le scarpe giacciono a terra come a dire: ora è tempo di riposare, domani starai meglio. Si alza, va in bagno, ma sbaglia porta.
C’è anche il pescatore che stava pescando sul fiume, che si è svegliato stamattina all’alba e che si è inciso un mignolo, gli si è aggrappato l’amo e Dio fa un male cane. Non vuole l’anestesia. Provano a estrargli quel pezzo di ferro così a mani nude dipingendo ondate di dolore. Ma niente. Le grida sono enormi. Immense. Le senti che si propagano come quando arrivano i cani che si gettano sulle prede, come quando l’uomo uscì dalle caverne, un ululato travolgente, inquietante, un suono fracassante, e lui che impreca in una “Babilonia di lingue” che non si erano mai udite. È troppo. Impossibile resistere. Alla fine optano per l’anestesia. E lui si addormenta nel mentre arriva un’altra sirena. Sarà la cinquantesima in 50 minuti. Le sirene spiegate. Gli uomini martoriati sulle barelle. Chi sulle stampelle. L’infermiere che controlla che sia tutto a posto, che la paziente sia legata giusta, quello che prende i dati, quello che li trascrive sul computer, quello che li detta ad alta voce, quello che arriva e ha bisogno di un consiglio, il computer che si inceppa, la bambina che piange, il figlio preoccupato per la madre, il medico che visita, che prende i valori. Gli esami del sangue, l’appello nella sala d’attesa dei condannati alla penitenza, di questa vita che è sofferenza angosce dolore.
Stupisce l’organizzazione del personale nel caos allucinante. Anche le guardie. Dio le guardie giurate, accolgono i pazienti che rimangono in attesa cercando di capire per quale motivo qualcuno ci ha messo al mondo, se poi dobbiamo stare male, soffrire, curare malattie.
Esco. La gente è fuori. Ci sono i familiari dei pazienti. I parenti. Gli amici.
C’è la gente che fa la spola. Lo senti il profumo di tabacco dei tabagisti incalliti, anestetizzati dal dolore per i propri cari che fumano come ciminiere.
Qui è un andirivieni continuo. Per medici e infermieri è normale trattare i malati. Prendersi cura degli altri. È normale aiutare chi ha bisogno. Quello di risolvere i problemi ce l’hanno nel sangue, qualsiasi persona deve trovare una risposta. Un esito, una diagnosi. Qualsiasi persona non si lascia per strada.
Così, questa sera poi sono andata in un centro Tim e il destino ha voluto che incrociassi una signora col bastone. Non riusciva ad aprire la porta? A fare il gradino. Le ho porto la mano.
Mi ha detto: “No, ho paura di tirarti giù”.
Le ho detto: “Non importa. La tiro su io”.

sbetti

Un euro per un bicchiere. Ma la paga ai camerieri l’avete aumentata?

Chiederete anche un euro per un bicchiere di plastica ma non mi risulta che abbiate alzate lo stipendio ai camerieri che sgobbano.
Questa roba dei piattini di condivisione a due euro è una roba di un disonore immenso. Per la categoria. E per l’Italia. Anche perché adesso il popolo si è svegliato. C’è internet. Hai voglia a nascondere simili obbrobri lucrativi.
L’altro giorno per dire sono andata al bar a bere un caffè e ho ordinato un caffè americano. Siccome dovevo prendere una bustina di vitamine, mi sono fatta dare dalla cameriera anche un bicchiere d’acqua. La stessa cosa ho fatto il giorno seguente in un altro bar. Nel bar del primo giorno, l’acqua mi è stata servita calda del rubinetto e quando ho detto che avrei gradito averla fresca e che l’avrei pagata me l’hanno messa in conto a un euro.
Nel secondo bar invece l’acqua mi è stata servita fresca e di bottiglia. Anche qui volevo pagarla ma non hanno voluto. Anzi. Vedendo che dovevo mescolare le vitamine con il cucchiaino, io mi stavo accingendo a mescolare la miscela con quello del caffè perché nella mia vita ho sempre evitato sprechi e da quando vivo a seconda di dove sosto, ti subentra quel principio salutare che è quello dell’economia domestica. Così ho detto alla cameriera che avrei usato lo stesso cucchiaino e lei mi ha detto: “Grazie”. Che parola sconosciuta.
Ora, questa cosa dei due euro a piattino per tagliarci un toast o per dividerci un piatto di pasta che costa 20, è una roba alquanto calunniosa e lugubre.
E non è questione di servizi. È questione di buon senso. Di rispetto per i clienti. Di rispetto per tutti quelli che ti danno da mangiare perché decidono di portare il proprio culo nel tuo ristorante. Non è la storia della torta Sacher a 10 euro e se non ti comoda puoi andare da un’altra parte. Qui è onestà professionale. Onore intellettuale.
Ho fatto la cameriera in un periodo della mia vita quando lo studio legale dove lavoravo mi sfruttava e di avvocati non ne volevo più sapere e anche uno stupido capisce che la pietanza fatta pagare 20 euro, in realtà costa 8 e il titolare, giustamente ci guadagna. Niente da dire, si paga il nome, il servizio, la pietanza, si paga l’arte e la maestria di chi compone e preparare quel piatto. Ma il piattino di condivisione. Ma il bicchiere di plastica. Ma l’acqua calda.
Ma tanto alcuni sono abituati così. E potrei dare una carrellata di esempi simili. Anzi forse è il caso che vi diate una frenata.
Locali che se chiedi di tenerti un dolce per festeggiare il compleanno della zia di Danimarca, il deposito te lo fa pagare 18 euro, con tanto di taglio ovviamente.
Locali dove se chiedi un bicchiere in più te lo mette in conto a un euro. Bar dove se chiedi un caffè americano te lo fanno pagare 10 euro. E vabbè ci può stare. Paghi il nome. Ma ci sono anche locali marci in paesi che sono buchi di culo e che se chiedi un caffè con un po’ d’acqua calda te lo fa pagare 3 euro e 50.
A Venezia ci sono locali dove se sentono che sei veneto il caffè lo paghi un euro e 10 e se sentono che sei straniero – una volta ho usato il mio dialetto innato marchigiano – te lo fanno pagare 4 euro. Quattro euro per un caffè manco buono. Così come ci sono locali che il coperto te lo fanno pagare 3 euro, da un euro sono aumentati di due. E altri locali dove se chiedi la ciotola per il cane ti fanno pagare pure quella. Ora, va bene le bollette, i rincari, la guerra, la crisi, il surriscaldamento globale e il fatto che non riusciate a raffreddare i locali; va bene anche la gente che ci scorreggia e ci respira dentro e appanna i vetri e non avete i deumidificatori o costringete le cameriere a lavorare senza aria condizionata, ma alcune di queste persone sono le stesse che col covid si lamentavano perché erano chiusi e avevano bisogno dei clienti.
Alcuni sono gli stessi che quando riaprirono le gabbie fecero le ferie, si presero il giorno di riposo, aumentarono i prezzi; questa gente – alcuni si intende ma una mela marcia nel vaso rovina anche il resto – è la stessa che non faceva uno scontrino manco a pagarlo oro e che quando ci fu la storia dei rimborsi pretendeva di percepire anche i soldi non dichiarati.
Ora va bene, la gente con voi è solidale, i commercianti, i gestori, siete l’anima dei nostri cuori così mondani e insoddisfatti, ma dinanzi a tutti questi aumenti, le paghe ai vostri dipendenti le avete aumentate?
O li fate lavorare per 7 euro l’ora e se consumano il toast per cena – ai miei tempi era così – gli scalate pure quello dallo stipendio?

sbetti

Nigeriano ammazza una donna. Doveva essere espulso

Chissà le anime belle dinanzi a questo caso obbrobrioso che avranno da dire. Chissà forse diranno che è colpa degli italiani. Che non abbiamo fatto abbastanza. Che è colpa nostra di questa Italia così brutta e sgraziata che siamo noi a consegnare chi delinque nelle mani della criminalità. Perché lo Stato mamma chioccia non ha fatto abbastanza.
A Rovereto in provincia di Trento, sabato sera una donna di 61 anni è stata pestata a morte da un nigeriano senzatetto di anni 37, Nweke Chukwuka, questo il suo nome, che avrebbe anche tentato di violentarla. Lei si chiamava Iris Setti ed è morta in seguito alle violente botte.
La scena è stata agghiacciante ed è accaduta nei giardini Nikolajevka di Rovereto a due passi dal centro. Chi l’avrebbe mai detto che ora la violenza si propagasse anche qui. Non bastavano Roma Milano Bologna Padova Mestre in mano a clandestini e balordi. Ora la violenza si dirama anche nella tranquilla e ricca Trentino Alto Adige.
Chi ha visto, ha sentito le grida disperate della donna e si è affacciato alla finestra.
Davanti l’orrore.
Lei stesa a terra con i pantaloni abbassati, lui aveva tentato di toglierglieli per stuprarla e come una furia, lui a cavalcioni su di lei che continuava a colpirla senza tregua. Prima un colpo. Poi un altro. E un altro ancora. L’ha colpita anche con una pietra raccolta da terra. Calci e pugni, pugni e calci, e ancora calci e pugni e pugni e calci. Lei gridava, si divincolava, rantolava, annaspava, cercare di resistere in tutti i modi per tenersi aggrappata alla vita, ma per lei non c’è stato niente da fare. Quando lui l’ha lasciata andare per lei era ormai troppo tardi. Il suo volto era completamente sfasciato dalla violenza di lui, deturpato, reso irriconoscibile, lei grondava sangue ed era ormai in condizioni gravissime. Quando l’hanno soccorsa e portata in ospedale la corsa è stata disperata. La donna è morta poco dopo. Lui è stato trovato nel quartiere Santa Maria ed è stato arrestato per il reato di omicidio. Per fermarlo hanno dovuto usare il taser. E occhio a non fargli male senno finisci indagato.
Ma quello che balza agli occhi, oltre alla violenza efferata e inaudita, e bestiale e brutale perpetrata addosso a quella donna inerme è che lui era già noto – ma che strano! – alle forze dell’ordine. L’estate scorsa era stato filmato mentre pestava carabinieri e passanti. Ci aveva perfino balzato sopra l’auto dei carabinieri e tanto basta. Ed era sempre l’estate scorsa quando aveva danneggiato alcune auto in sosta e minacciato i passanti e i clienti di un locale con un coccio di bottiglia. Aveva anche precedenti per danneggiamenti e lesioni. In questura stavano valutando l’espulsione ma il provvedimento non poteva essere eseguito perchè aveva l’obbligo di dimora per i fatti successi l’anno scorso. Un provvedimento quindi che annullava l’altro.
Robe da matti!
Incredibile ma vero!
E quindi ce lo siamo tenuti. Matteo Piantedosi ha detto che c’è da capire cosa non ha funzionato. Tutto non ha funzionato, Piantedosi. Tutto.
Lei stava semplicemente andando a trovare la madre.
Chissà qui le anime belle che avranno da dire.

sbetti

I truffatori delle diete non sono diversi da chi vende coca

Quell’odore acre che ti si incrosta addosso. Ho letto della morte di quella donna russa, Zhanna Samsonova, che qualcuno pericolosamente ha definito “influencer vegana” e sono rimasta un po’ sbigottita.
Lei si cibava solo di frutta, germogli di semi di girasole, frullati di frutta e succhi.
Sono rimasta sbigottita soprattutto dai danni che fanno le parole. Per tutto il mese di luglio ho indagato e fatto un’inchiesta sul mondo delle diete per Zona Bianca condotto su Rete4 da Giuseppe Brindisi.
Quello che non capisco è come si possa definire influencer una persona che si cibava solo di germogli e frutta. Nemmeno acqua beveva.
Il veganesimo è una cosa. Avere problemi di alimentazione che vanno dall’anoressia alla bulimia o all’ortoressia, è completamente un’altra. Propinare e propagandare pietanze e piatti giornalieri a base di succhi di frutta e frullati non può rientrare nei piani alimentari del veganesimo. E proporlo ad altri può essere estremamente pericoloso.
Qualcuno nella sua pagina Instagram l’aveva capito tanto che commentava in tal senso.
Nella mia inchiesta ho trovato di tutto. Ci sono persone a cui andrebbero chiusi profili e dopo averli chiusi, andrebbero tolti dal pattume dei social. Quelli che chiedono anche soldi, mi spiegate che hanno di diverso da chi ogni giorno spaccia pasticche di cocaina in piazza?
Ho trovato finti e finte nutrizioniste, alimentar coach che si propongono di rassodarti i glutei con la sola forza del pensiero, una chiappa costa 120 euro, se vuoi anche l’altra ti fanno la promozione se ne aggiungi altri cento. Ho trovato donne insoddisfatte tradite dalla giungla della vita che sponsorizzano prodotti che mai hanno avuto le necessarie autorizzazioni da parte del ministero della Salute. Per immettere sul mercato questi integratori infatti, ho imparato che serve un controllo, e non basta l’etichetta su Amazon (dato che alcuni prodotti vengono venduti anche lì), non basta che venga comunicato, non basta che qualcuno ti dica che questo prodotto è approvato dal ministero. Ho trovato delle caramelle che vengono spacciate per prodotti assolutamente dimagranti ma che non servono proprio a niente. Le ho portate a far analizzare e sono quelle che ti vendono in alcuni centri estetici perchè far leva sull’ ignoranza della gente è molto più facile che studiare. Ci sono estetiste che prescrivono diete. Falsi nutrizionisti che ti seguono tramite app. Non solo. Con la telecamera nascosta sono entrata in un centro estetico e vi giuro, nel mentre, mi stava venendo il vomito. E quando il giorno dopo ho risentito quel sapore acre del suo studio anche. Lei russa, il centro è in Italia. In Veneto. Ha voluto sapere tutto di me, mi ha fatto un colloquio durato un’ora dove mi ha chiesto tutte le più possibili manifestazioni del mio corpo. Le ho detto che peso 50 chili e che volevo arrivare a 45 e mi ha risposto che si poteva fare e che quello che conta è come mi sentissi io. Alla fine di questo colloquio voleva visitarmi, e per visita intendeva l’allineamento del mio corpo su una branda e lei con la sola forza delle mani avrebbe capito di cosa avrei avuto bisogno e con la sola forza delle mani mi avrebbe prescritto una dieta che fa miracoli e con la quale avrei perso cinque chili.
Poi con la sola forza delle mani si è anche tenuta i 90 cazzi di euro che mi ha chiesto.

sbetti

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L’esercito dei buzzurri in autogrill

Ieri pomeriggio dopo sette ore di coda in autostrada scendendo verso sud e poi risalendo un attimo verso il centro, mi sono dovuta fermare in un autogrill perché dovevo scrivere un pezzo, mangiare e andare in bagno. Le ultime due cose appartengono alla categoria delle attività che gli esseri umani compiono quotidianamente. Ossia nutrirsi ed espellere ciò di cui ci si è nutriti.
Ma non è questo il punto.
Appena giunta in autogrill ho notato davanti a me una serie di morti stesi a terra che erano tanti pupazzi caduti da quegli scaffali che propongono peluche in offerta esclusiva a 29 euro e 999 centesimi, quando in un negozio normale li paghi 12. Siccome i pupazzi erano precipitati dallo scaffale, e avevano deciso di suicidarsi, ci fosse stato un signore cristo viaggiatore che si fosse fermato a raccoglierli. Nessuno. Tutti ci passavano sopra come se i pupazzi di pezza non esistessero. Alla fine siccome mi facevano pena ci siamo messe in due a raccogliere i peluche di pezza traditi dalla vita.
Giunta al cesso ho subito notato che c’era la coda. E puntualmente arriva il gruppo di cafone che passa davanti fingendo di non sapere quale e dove sia la fila. A un certo punto, giuro non sto scherzando, è giunta una donna che doveva far fare pipì al cane, e siccome il cane era femmina pretendeva di fargliela fare dentro al cesso delle femmine ovviamente. Robe imbarazzanti accadono su questo pianeta. Giunta al piano superiore per finalmente poter scrivere il mio pezzo e mangiare qualcosa dato che stavo scomparendo, ho visto l’esercito dei buzzurri in coda alla riscossa. Praticamente non si attende più che la banconiera ti dia il trancio di pizza in mano, lo si cerca di azzannare ancora prima che questa te lo stenda. Gente con le bocche dilatate senza scrupoli né pudori che mangiava in piedi scomposta manovrando la lingua come fosse una betoniera piena di malta e calcinacci. Gente con le dita infilate dentro la bocca perché lo stuzzicadenti che per giunta detesto non va più di moda. Forse per qualcuno non va di moda manco lavarsi i denti. Persone sudate sudaticce con le mani unguenti pingui puzzolenti che si passano le dita tra i capelli e poi se le infilano nel naso e poi se per caso ti capita di passarci accanto ti mettono, giusto quel dito finito nel buco dell’ano, sulla spalla per chiederti se per favore puoi spostarti. E gente che dopo essersi spalmata le mani dentro le fauci con la betoniera piena di malta si strofina le mani sui pantaloni. Gente che non rispetta la fila, che corre, che annaspa, che prevarica. Persone che pare che non si siano mai mosse da casa. Cavernicoli alla riscossa. Tutta gente che durante l’anno non arriva a fine mese. Tutti presi da questa mancanza d’aria, come a vivere in una bolla, di questa grande enorme fretta, ma poi di fare cosa.
Tutta gente che va in ferie e che se gli dicessero un giorno di lavorare in quelle condizioni mangiando in piedi col piscio dei cani al cesso e la mano unguente e pingue che ti si spalma sulla spalla dopo essere stato al gabinetto, direbbero di no, perché ah la dignità. Una dignità che a quanto pare non vale per l’esercito dei buzzurri che si incontra in autogrill.
Con garbo.
E stima.

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