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Il Papa a Venezia

Piazza San Marco

Io me lo ricordo quell’anno in cui vidi per la prima volta il Papa. Era il 30 dicembre 1988. Avevo 4 anni. E il Papa era Giovanni Paolo II e andò a Fermo e a Porto San Giorgio. Nelle Marche. Fece una visita al duomo. E poi andò a far visita ai figli di Jahvè.
I miei mi ci portarono a vedere il Papa e io ricordo questa enorme grande folla che si muoveva come una grossa nuvola e questo Papa che scese con l’elicottero bianco dal cielo sopra una montagnola. E ricordo questo grande uomo vestito di bianco che sorrideva e salutava tutti. Aveva il volto incantato. Dall’incarnato solenne e austero. E questi occhietti limpidi e tersi. E queste guance così bianche che a guardarci il sole riflesso ti pareva di specchiarti. Poi ricordo che mio padre mi prese in braccio e mi disse: andiamo più vicino. Vidi quel Papa dal basso verso l’alto. E vedevo questa gente che si allungava col corpo. Che si genufletteva. Che lo salutava. Lo toccava. Sbracciava. Non c’era tutta quella sicurezza che c’è oggi. Quando anche per varcare una soglia, ti chiedono le impronte digitali. Eravamo più umani. E più felici.
Avevo 4 anni ma capii fin da subito che era una personalità importante. Quel giorno era accaduto qualcosa di particolare e io pensavo a come raccontarlo. A come dirlo. Al fatto che avevo vissuto qualcosa che nemmeno io sapevo bene cosa. Ma era come se dentro di me avvertissi la sensazione di voler un giorno raccontare quel fatto.
E arriviamo al 28 aprile 2024. Trentasei anni dopo vedo un altro Papa. Stavolta a Venezia. Stavolta in piazza San Marco. Stavolta è primavera. Seppure fresco, non faceva freddo come allora.
Il Papa è Francesco ed è arrivato stamattina alle 7.55 con un elicottero fatto atterrare sul cortile esterno del carcere femminile della Giudecca. Di lì a poche ore la messa delle 11 in piazza. In piazza la gente è già sistemata e io vi giuro non ho mai visto un’organizzazione del genere. Piazza San Marco dall’alto sembra una scacchiera, con ogni persona perfettamente al suo posto.
Rispetto a quando ero piccola non c’era la gente che si tuffava, scomposta e che si muoveva come in una grossa enorme nuvola. La piazza è un tripudio di festa. I cori liturgici invadono solennemente il campo. I loro cori riecheggiano nell’aria. I gabbiani si librano in volo al suon dei canti di chiesa. La gente è tutta lì ad attendere il Santo Padre. Quelle due donne sono posizionate qui dalle sette di mattina.
Anche perché qui, in Piazza, senza pass è praticamente impossibile entrare. Tutti gli ingressi sono presidiati. E il dispiegamento di forze di polizia è veramente alto.
Alle 10 e qualcosa arriva il Santo Padre. E la gente si alza in piedi. Sbraccia. Fa festa. La festa è composta. Lui attraversa l’area con la sua papamobile. Sorride. Saluta tutti. Ha il volto fiero. Sorridente. Calmo. Tranquillo. Sembra quasi un bambino in gita a Venezia. Poi la messa. I canti. I cori. Una donna si sente male. Un bambino viene sorretto dai genitori. Mi serve un caffè. E mi dicono che c’è una sala stampa fantastica rigorosamente attrezzata. I parroci ci hanno preparato quel caffè caldo dentro ai termos, che vi giuro è il più buono del mondo. Il più buono che io abbia mai bevuto. Poi arriva l’ora del saluto. Il Papa torna indietro. Attraversano la piazza il ministro Carlo Nordio. Il presidente Luca Zaia. Il sindaco Luigi Brugnaro. Tutti vestiti impettiti. Fieri, sorridenti. Il Papa entra dentro la Basilica. Ce l’ho qui davanti a me.
Poi prende la via del ritorno. Sale sull’elicottero. L’elicottero sorvola sopra Piazza San Marco, un giro. I fedeli salutano. Prende e se va. Tra 90 minuti sarà in Vaticano.
Questa volta non sono la bimba piccola che lo guardava dal basso verso l’alto. Questa volta sì. Ho trovato il modo di raccontarlo.
Sgattaiolo fuori. E mi passa un uomo davanti, ha una tunica nera che gli tocca terra. E un crocefisso gigante appeso al collo.

sbetti

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A Venezia scontri tra polizia e manifestanti

Non è stata di certo una bella idea far partire il contributo d’accesso a Venezia il 25 aprile – viene da chiedersi se sia stata una bella idea il contributo d’accesso stesso – con quelli dei centri sociali che berciavano in piazza. E il nuovo ticket è entrato in vigore slalomeggiando tra proteste, polemiche, scontri con la polizia, qualche furbetto e la solita maledetta dannata burocrazia. Alè. Ma andiamo con ordine.

Da ieri a Venezia è entrato in vigore il contributo d’accesso, appunto, quel balzello – ne abbiamo parlato ieri appunto – che viene fatto pagare ai turisti mordi e fuggi, ossia quelli che arrivano in città al mattino e se ne ripartono la sera. Il ticket costa 5 euro, e chi non lo paga rischia una sanzione da 50 a 300 euro. Accipicchia. Però ieri mattina, i veneziani, anziché svegliarsi rincuorati, son caduti dal letto, disturbati più che altro dall’eco degli scontri che stavano avvenendo in città. Fischi, cori, grida, bandiere. I manifestanti, circa 800, compresi quelli “No grandi navi”, si sono radunati in piazzale Roma, per esprimere tutto il loro disappunto sul contributo e hanno cominciato ad avanzare verso il centro. Al che, è dovuta intervenire la polizia in tenuta antisommossa con caschi, scudi e manganelli. 

A essere attaccato è stato principalmente il sindaco lagunare Luigi Brugnaro, e l’idea di una città trasformata in un parco divertimenti. Tra l’altro, “Venezia non è Disneyland”, è proprio il titolo di una pagina Facebook molto seguita in città che denuncia proprio i turisti mordi e fuggi, quelli che si tuffano dai ponti o quelli che impiastricciano le vetrine con le mani sporche di gelato. Ma tant’è. 

Lo slalom poi è proseguito tra i totem esplicativi del contributo, posizionati proprio qui, fronte stazione Santa Lucia, tra i gazebo biglietteria allestiti ad hoc, e tra quella miriade di turisti scesi dai treni a lunga percorrenza, che invadeva la città trotterellando con le valigie. Una seconda manifestazione più pacifica, è stata quella di alcuni comitati cittadini, contrari al ticket, e che si sono posizionati vicino ai gazebo. Qui, tra totem di diverso colore, verde per i residenti, arancione per i turisti, azzurro per i gitanti, e tra steward e gente col naso per aria come a dire: “Dove son capitata”; ecco qui alt, fermi, i controlli. Allora: chi pernotta in una struttura ricettiva in città, e quindi paga già la tassa di soggiorno di 3 euro, non deve pagare il ticket. Chi ha l’esenzione, deve mostrare il Qr code dell’esenzione stessa. Esenzione che viene chiesta accedendo sul sito del comune. Chi ha meno di 14 anni basta che faccia vedere la carta d’identità e chi invece non dorme a Venezia ed è straniero, o viene da fuori regione, ecco, bè deve pagare i 5 euro. Perché c’è gente che non rinuncia a mettere piede a San Marco, nemmeno, nelle giornate di maggiore affluenza, anche a costo di pagare il biglietto. Il contributo, infatti, è stato concepito proprio nei giorni da overbooking, e in tutto, per ora, sono state previste 29 giornate.

Ma a Venezia ieri, dati aggiornati alla mano, sono arrivate 113 mila persone e di queste solo 15.700 hanno pagato il ticket. Il che vuol dire che 1 su 10 ha pagato, tutto il resto nisba. Balzano all’occhio i 40 mila turisti che dormono in albergo, i 2.100 parenti di residenti e i 2.000 amici di residenti. Mancano, si fa per dire ovviamente, gli amici degli amici dei parenti perché la cosa difficile è districarsi nella miriade di esenzioni previste. “Non si è mai fatto nulla per regolare il turismo ed era necessario fare qualcosa – ha detto Brugnaro – la paura del cambiamento è legittima, ma se la paura blocca, non c’è progresso. Oggi spendiamo più soldi di quanti ne incassiamo, ma questa non è una spesa è un modo per far capire che bisogna cambiare, evitando gli intasamenti. Non abbiamo più i finanziamenti della legge speciale per Venezia, nonostante vengano trovati per il ponte di Messina”. Così. Boom.

Serenella Bettin 

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A Venezia si entra col biglietto

Canal Grande with Basilica di Santa Maria della Salute in Venice, Italy

Oggi chi voleva visitare Venezia ha dovuto pagare il biglietto.

Si chiama contributo d’accesso e alla fine, tra svariate polemiche, è entrato in vigore. Ventinove sono le giornate in cui è previsto il balzello. Balzello che colpisce saltuariamente, ma ovviamente nei giorni giusti, ossia nelle giornate con maggior affluenza, che coincidono con festività e ponti. Dovranno pagarlo solo i visitatori che si recano nella città in giornata, quindi – bada bene – non coloro che pernottano in laguna, e costerà 5 euro. L’obiettivo è quello di avvalersi di un deterrente economico per scoraggiare quei famosi turisti giornalieri, quelli mordi e fuggi per intenderci, che affollano la città con le gite fuori porta, che nascono e muoiono in giornata. Soglie massime o limiti alle presenze non sono state previste. Ma andiamo con ordine. Passo dopo passo. 

Intanto chi deve pagarlo. Lo devono pagare tutti quelli maggiori di 14 anni che vanno a Venezia in giornata. Il biglietto è obbligatorio se entri in città con qualsiasi mezzo, e quindi in auto, moto, treno, aereo o in traghetto, dalle 8.30 del mattino alle 16, in una di quelle giornate in cui è previsto il contributo d’accesso. Quali sono queste giornate. Come vi accennavamo prima, sono ventinove e sono: domani per l’appunto (25 aprile) oltre che 26, 27, 28, 29 e 30 aprile. Poi: l’1, il 2, il 3, il 4 e il 5 maggio. E l’ 11, il 12, il 18, il 19, 25 e 26 maggio. A giugno, invece, i giorni interessati dal balzello sono: 8, 9, 15, 16, 22, 23, 29 e 30. E a luglio il 6, il 7, il 13 e il 14. Per ora questi, e poi si vedrà, il tutto è in corso di sperimentazione. E per quest’anno, il biglietto non servirà per accedere alle isole minori.  Occhio, perché chi entra in città senza ticket rischia una sanzione dai 50 ai 300 euro, più il costo del biglietto ovviamente, che, lo ripetiamo, è pari a 5 euro. 

Chi non deve pagare invece. Non pagano il contributo (e non devono nemmeno richiedere l’esenzione, che poi vi spieghiamo come si fa) i minori di 14 anni (ovviamente) e i titolari della Carta europea della disabilità e relativi accompagnatori. Non lo devono pagare nemmeno i turisti che pernottano a Venezia, dato che per loro c’è già la tassa di soggiorno da 3 euro, a notte, a persona, ma questi devono essere registrati sul portale della città. Per chiedere l’esenzione invece, si accede sul sito del Comune di Venezia (www.comune.venezia.it), si clicca sopra “Contributo d’accesso” e si scorre fino a “Vai a esenzioni”. Qui, se sei un ospite in un albergo o altra struttura ricettiva, se sei un parente, un residente o nato nel comune di Venezia e in Veneto; se sei un lavoratore (anche gli amministratori in visita istituzionale), uno studente, uno sportivo, un proprietario di un immobile, uno che fa visita in carcere, un volontario, o addirittura se sei un residente a Venezia e devi invitare amici e conoscenti, devi richiedere l’esenzione. Per pagare invece, accedi sempre al portale, clicca su “Vai al pagamento del contributo”, scegli la data in cui vuoi andare, inserisci i tuoi dati, clicca “procedi” e paga. 

Serenella Bettin 

Ma sì, ma togliete tutto, tutto

Ma sì. Ma basta. Ma togliete tutto. Tutto. Levate via le croci, i crocefissi, i Santi, le Madonne, i presepi, togliete anche i nomi dei pittori dalle strade perché allontanano le culture e la maggior parte di loro hanno dipinto Santi e Cristi. Censurate tutto. Mettete i veli alle statue. Cambiatevi i cognomi. Pronunciate a, anziché o. Metteteci le schwa.

Ci mancava la crociata delle croci a portare il dibattito in vette altisonanti. Tanto che ora la polemica dilaga anche in Austria. E come sempre la colpa è della destra che strumentalizza. Ma è proprio così? Torniamo indietro.

È il 13 giugno scorso quando il Cai (Club Alpino Italiano) nel suo portale “Lo Scarpone”, scrive: “La società attuale si può ancora rispecchiare nel simbolo della croce di vetta? Ha ancora senso innalzarne di nuove?”

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Il messaggio sbagliato dell’ultimo appuntamento

La Ragione – 13 giugno 2023.


Il consiglio dato dal pubblico ministero Letizia Mannella sul caso di Giulia Tramontano, la ragazza di Senago (Milano) incinta al settimo mese e ammazzata dal suo compagno, rischia di far arrivare un messaggio sbagliato. Ossia. La pm ha consigliato alla donne di non andare all’ultimo appuntamento. Ma quale sarebbe esattamente l’ultimo appuntamento? Questo consiglio, seppure nella sua saggezza, è pericoloso perché sposta l’asse della colpevolezza sulle donne. La colpa sarebbe di quelle che ci sono andate all’ultimo appuntamento.

Ora il problema, di per sé, non è l’ultimo appuntamento. Il tormento è che i rapporti sono sempre più fragili. Si fondano su personalità problematiche. Ci rapportiamo, a volte, con persone così talmente deboli e concentrate solo su se stesse che le volontà dell’altro diverso da me, passano in secondo piano. Questo accade sia da parte degli uomini che delle donne. Il caso di Giulia Tramontano è di una bruttezza immonda. Di una brutalità efferata. Ma fortunatamente non si chiamano tutti Alessandro Impagnatiello. Ci sono violenze che si ripetono nel tempo, largamente e consapevolmente sottaciute. Come le aggressioni delle donne verso gli uomini. Di queste non si parla minimamente. “Nel 2021 – scrive l’Istat – gli omicidi risultano in lieve calo, ne sono stati commessi 303 (315 nel 2019, 286 nel 2020). In 184 casi le vittime sono uomini e in 119 sono donne. Si arresta il calo degli omicidi di donne e sono in lieve aumento quelli di uomini, che erano invece diminuiti nel 2020 (170)”. Letto così uno pensa quindi che gli omicidi delle donne siano in calo. La differenza però è che quei 184 uomini sono stati uccisi non solo da donne ma anche da altrettanti uomini. E infatti poi l’Istat continua. “Le vittime uccise in una relazione di coppia o in famiglia sono 139 (45,9% del totale), 39 uomini e 100 donne. Il 58,8% delle donne è vittima di un partner o ex partner”. Questo a prova del fatto che ormai la violenza in famiglia dilaga ovunque. Tra le violenze psicologiche denunciate dall’89% degli uomini-padri, al primo posto figurano le azioni o la minaccia di azioni finalizzate alla sottrazione dei figli in seguito alla separazione e non mancano episodi di stalking. Non solo, da parte delle donne è molto diffuso il ricatto economico. Quando la vittima è la donna, se denuncia non trova tutela, protezione. Il problema è quel famoso: “dobbiamo coglierlo con le mani nel sacco”, dove in genere quando lo colgono significa che dentro al sacco ci sei finita tu.Dinanzi a questi meccanismi perversi, non sarà un mancato appuntamento a risolvere i problemi. Se qualcuno vuole farti fuori prima o poi ti raggiunge. Uomo o donna che sia.

Serenella Bettin

A scuola guida su TikTok

La Ragione – 4 luglio 2023

TikTok. Toc toc? Ci siete. Sì, fino a qualche settimana fa in effetti c’erano gli studenti che si acquartieravano davanti le scuole nell’attesa di poter entrare. I telefonini tra le mani e quella flemma inconsapevolezza di avere in mano il mondo. Non lo sanno. Non se ne rendono conto. Non sanno come usarlo quello stupido aggeggio che se lo lasci lì rimane fermo, immobile, si scarica e non dice niente.

I ragazzi lo usano troppo e male quel gingillo divenuto un prolungamento del braccio, sono ingenui, ciechi, alcuni un po’ grulli e la colpa è data anche dal sovranismo e nozionismo digitale che si espande e dilaga nelle nostre scuole. Come un fiume in piena che straripa si prende i meandri delle giovani menti in tempesta, le asseconda, le culla, le arena, le frena, le rende flebili, molli, assopite, con gli occhi fuori dalla testa accecati dallo schermo e non dalla bellezza della vita.

E ora, lo smartphone in alcune scuole diventa uno strumento di didattica, uno strumento per insegnare, per apprendere, anzi ancora prima, per verificare di aver appreso.

Ma è un bene? Il mondo viaggia lesto, i ragazzi sono frenetici, inquieti, corrono come culturisti sopra i tappeti mobili. 

Lo smartphone è efficiente, efficace, se babbo e mammà spendono qualche soldo in più, ha anche una buona memoria – cosa che i ragazzi grazie all’aggeggio hanno perso – ha una buona capacità interattiva, di comunicazione, in tempo reale sei in grado di connetterti con l’amico al di là dell’Atlantico o entrare nel portale del Congresso degli Stati Uniti o nel negozio di cosmesi sotto casa che è tanto carino e ti porta i prodotti fino in camera. Ma da qui a fare lezione su TikTok ce ne passa. In una scuola veneta, il preside dell’istituto comprensivo di Lozzo Atestino, provincia di Padova, ha raccontato l’istruzione 4.0 finanzata dal Pnrr. Ci sarà un’aula di video making per creare pillole delle materie scolastiche su TikTok e una sala incisione.

E che dire dell’allarme lanciato da Annalisa Ferrarini, segretaria provinciale Unasca (Unione nazionale autoscuole) Treviso perché i giovani seguono le lezioni di scuola guida, teoria si intende, su TikTok, anzichè all’autoscuola? Per carità non diciamo di rievocare il misoneismo o il paleolitico, ma siamo sicuri che questa sia la strada giusta? Non è che forse si possa pensare di tornare alla carta e alla penna? Sui social è pieno di mental coach che dicono che devi vivere sentendo il corpo, allenando la mente, con solo l’essenziale. Mettiamolo in pratica. L’uomo ha due gambe. Due braccia. Due occhi. Un cuore. Quello che nessuna intelligenza artificiale potrà mai sostituire.

Serenella Bettin

Il Mose americano

È più grande del Mose italiano. La progettazione vale 750 milioni di dollari. La partita finale si aggira intorno ai 45 miliardi di dollari. E sarà pronto in tre anni. È il Mose americano. Quello che gli statunitensi ci copiano. E per farlo – mica scemi – hanno ingaggiato un ingegnere italiano.

Lui si chiama Massimo Ciarla. Romano, dal 1995 vive a Washington. Ingegnere civile idraulico, laureato alla Sapienza di Roma, appartiene alla quella schiera di cervelli che l’Italia sforna, prepara e forma e poi li fa scappare all’estero. Presidente e amministratore delegato della Tiber International Group Inc e direttore della MC5 Consulting Group Inc che si occupa della difesa delle coste e di opere marittime, Ciarla ha partecipato alla realizzazione del Mose italiano e ora partecipa all’individuazione dei vari progetti che tra sette, otto mesi si aggiudicheranno la partita finale.

L’idea è quella di un colosso di dighe mobili che mira a proteggere Houston, quella grande metropoli in Texas che si estende fino alla baia di Galveston. Qui ci abitano milioni di persone.

Dopo aver passato in rassegna le dighe dei Paesi Bassi, la diga sul Tamigi, quella di San Pietroburgo, l’idea del Mose al governo americano è piaciuta assai.

Soprattutto perché il meccanismo delle barriere è a scomparsa. Non si vede.

Un mostro marino, quello veneziano, con 78 paratie in metallo lunghe fino a 29 metri e collocate sul fondale delle tre bocche di porto: Lido, Malamocco e Chioggia. Le paratoie, incernierate in cassoni e alte come palazzi di quattro piani, sono adagiate sul fondo del canale. Non si vedono e sono piene di acqua di mare. Quando è prevista l’alta marea vengono svuotate dell’acqua e riempite di aria compressa che le fa emergere. A mano a mano che l’acqua esce, le barriere salgono. Una volta emerse dividono il mare dalla laguna, proteggendola dalle maree. Passata la marea, si svuotano dell’aria, si riempiono d’acqua e tornano ad adagiarsi sul fondale. Come una balena, che torna a dormire.

Solo che in Italia, tra scandali e altro, ci hanno messo vent’anni per inaugurare l’opera. Negli Stati Uniti contano per il 2028 di essere pronti. Anche perché non c’è tempo da perdere. “Il mare si è alzato di tre metri e mezzo – spiega Ciarla alla Ragione – il problema qui sono gli uragani. L’Uragano Katrina con oltre 1800 morti, nel 2005, ha segnato un punto di svolta per la consapevolezza dei cambiamenti climatici. Lì il mare si alzò di otto metri e mezzo, un palazzo di tre piani. Il 70% della popolazione mondiale vive lungo le coste, è chiaro che bisogna proteggerle. Il progetto qui è simile a quello veneziano. Il concetto è identico: si tratta di chiudere l’entrata dell’acqua nel golfo ed evitare così che possa entrare nella baia di Houston. In America l’hanno capito. Del resto, immagini una pentola d’acqua portata a ebollizione, quando bolle cosa fa? L’acqua esce. Come il mare. Comunque si calcola di finire i lavori per il 2027. Gli americani sono molto più programmatici, una volta messo giù un programma lo rispettano, in Italia c’è sempre qualche problema. Il Mose appunto, doveva essere finito 20 anni fa”. 

Serenella Bettin 


La Ragione, sabato 11 marzo 2023

La mia intervista al papà di Martina Rossi. “Me l’hanno ammazzata e sono liberi”

Martina avrebbe dovuto scrivere la sua storia. Martina avrebbe dovuto imprimere sulla carta i suoi racconti. A lei, il padre aveva affidato i suoi pensieri. Le sue tribolazioni. Le sue gioie. Cos’è un padre senza figli. Senza memoria.

Perché Martina è morta. 

Martina Rossi è morta per mano della cultura maschilista che ancora si incunea nei nostri territori. È così talmente radicata che solo un cambio radicale di mentalità può scardinare.

Ed è la cultura che vede la donna oggetto da commentare, da denigrare, da non rispettare, al punto che le sue volontà e i suoi desideri sono interpretati come capricci. Come i No per esempio. Serviranno anni di lotte per far capire che un No deve rimanere No. 

Andrebbe cambiata la testa ad alcuni uomini che si sentono padroni e non sono nemmeno padroni di loro stessi. 

È agosto 2011 e Martina è in vacanza con le amiche a Palma di Maiorca in Spagna. Una notte, nella stanza d’albergo dove alloggiava, per sfuggire a uno stupro scappa dalla terrazza e precipita di sotto. Il 3 agosto 2011 Martina muore. Per i fatti vengono condannati Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, oggi più che trentenni, residenti a Castiglion Fibocchi (Arezzo). La difesa ha sempre sostenuto che Martina si fosse suicidata. Dopo una prima condanna a sei anni, assolti in appello, la cassazione il 7 ottobre 2021, dieci anni dopo, li ha condannati a tre anni per tentata violenza sessuale. L’altra fattispecie, morte in conseguenza di altro reato, si è prescritta. 

E da ottobre scorso i due sono già in semilibertà. 

Noi di Grazia ci siamo messi in contatto con il padre. Bruno rossi, 83 anni. Ancora combattivo, il cuore in mille frantumi, gli occhi lucidi e la voce che si fa roca, tanto è ancora il dolore. 

Bruno, hanno mai pagato veramente queste persone?

“No. Mai. Abbiamo chiesto il risarcimento dei danni, ma non vogliamo un centesimo perché nulla potrà ridarci indietro Martina. Vogliamo solo che i responsabili di questa tragedia paghino davvero e daree le risorse a chi ne ha bisogno grazie alla associazione che aiuta le donne che subiscono violenza. Vogliamo riuscire ad avere un po’ di giustizia”.

Esiste questa giustizia?

“Non credo si faccia molto per tutelare le donne. C’è una buona attenzione nel mondo femminile e del volontariato, ma ci sono donne che subiscono torti tremendi e hanno un grande bisogno di aiuto”.

Com’è cambiata la società secondo lei? Questi stupri e femminicidi sono sempre più frequenti. “La famiglia è condizionata negli aspetti economici. Io sono stato sindacalista al porto di Genova, lo so bene. Ora sempre meno gente riesce a lavorare. Uno lavora per due, di conseguenza la famiglia è poco strutturata, sempre più allargata, ma ha reciso le radici. Si trasferiscono pochi valori, non si parla, non ci si conosce, si dà poco affetto alle persone. Proprio ieri sentivo questo padre che ha dimenticato la bimba in auto. Pensi quale strazio sta vivendo questa famiglia. La società ha bisogno di medicine, di momenti di affetto, di dolcezza, di obiettivi da raggiungere”. 

Secondo lei la donna a volte non denuncia perché non ha la dipendenza economica?

“Certo, noi lavoravamo tutti e due. Io quando mi sono sposato, telefonavo a Franca e le chiedevo come si butta la pasta. Ho capito che la vita era cambiata e ho imparato che prima si butta l’acqua e poi la pasta. Martina era arrivata tardi ma cresciuta in fretta, con tanto affetto”.

Quanti anni aveva lei quando è nata?

“Cinquanta, adesso ne ho 83. Ora avrebbe 33 anni. Si rende conto… 33. È morta a 20, cosa sono vent’anni? Niente. Avrei voluto essere nonno. A Martina piacevano i bambini”.

Sta seguendo il caso di Giulia Tramontano?

“Sì. Lui, Impagnatiello è la incarnazione delle persone che non sopporto. Uno così è semplicemente cattivo. Passi sulla vita della persona con cui hai fatto un figlio. Con il figlio in pancia. Ma come fai? Ma che padre aveva questo bambino? Una pena adeguata non c’è. Usando il buon senso, non servirebbe nemmeno il processo. Gli devi dare l’ergastolo. È automatico. Poi in carcere è giusto che lavorino. Ma che facciano lavori come quelli che fanno i portuali di notte al freddo, come facevo io. Quelli che hanno fatto del male a Martina ora lavorano dal padre e vanno a dormire in prigione. Come è possibile?”. 

Già, come è possibile? 

“Perché se hanno un avvocato bravo, non vanno in carcere. Non è più un processo sulla morale ma è un fatto tecnico tra avvocati. A volte mi viene voglia di partire per andare a vedere se dopo il lavoro tornano a dormire in carcere davvero. La morte di Martina si è già prescritta, come si fa? Ma la morte non si prescrive mai. Per chi perde un figlio, la vita finisce. Martina poi… era così bella”. 

Com’era? “Una meraviglia. Nei suoi comportamenti, nella sua riservatezza, nel suo modo di scrivere, di disegnare. Era in gamba. E poi è finito tutto. Durante il processo hanno cercato i momenti più stupidi, tipo quante volte ha bevuto Martina”. 

Si fa il processo alla vittima e non agli aguzzini? 

“Sì, esatto”. 

Come è cambiata la sua vita? “Vado nelle scuole a cercare di portare un messaggio per rompere questa catena infinita di omicidi. Si spezza solo con la cultura. Ma si è interrotto tutto, tutto non ha valore. Ti tolgono un figlio e ti manca la terra sotto i piedi. Mi piaceva tanto giocare a scacchi, ma da quando è morta lei non li ho più toccati”. 

Serenella Bettin

Sul numero di Grazia settimanale, del 15 giugno 2023

I pistoleri? Colpa della Meloni

Il mio pezzo per Nicola Porro

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https://www.nicolaporro.it/la-teoria-di-gramellini-i-pistoleri-a-scuola-sono-colpa-della-meloni/

Mancano lavoratori. Pochi giovani. L’asparago sparirà dai nostri menù

Ho passato una giornata con chi lavora la terra. Probabilmente l’asparago non sarà più tra i nostri piatti. Alcune aziende agricole lo stanno eliminando perché è un ortaggio troppo faticoso. Richiede fatica. Voglia. Costanza.
La raccolta si fa uno a uno, stando accovacciati per terra, metro dopo metro, passo dopo passo, riga dopo riga. Un mestiere faticoso che segue gli andamenti del tempo. E in natura il tempo non lo puoi ammanettate. Non lo puoi ingabbiare. Lo devi lasciar scorrere. Con i suoi sfoghi e le intemperie. Con i suoi doni e le sue rovine…
Un mestiere che vede sempre più stranieri. Nelle aziende dove sono andata ho visto molti marocchini, tunisini, bengalesi. Molti giovani si stanno (ri)avvicinando a questo mondo, le braccia Rubate, diventano braccia Restituite.
L’Istat nel 7* censimento generale dell’Agricoltura calcola che i ragazzi fino a 29 anni a capo di una azienda agricola sono 18.923; 6.399 le donne.
Ma da qui a cantar vittoria ce ne passa. Perché le realtà giovanili rimangono sempre troppo poche. L’Ue sta intervenendo con finanziamenti. Nel Pac 2023- 2027 l’obiettivo è quello di consentire il ricambio generazionale in un settore che ha un forte bisogno di ragazzi e ragazze. Non di mercenari.
Servono voglia, passione.
Serve quella famosa fiamma negli occhi…
il mio reportage su La Ragione

Pezzo uscito su la Ragione il 26 maggio 2023

Massimo controlla che sia tutto a posto. La spia sta a indicare che la doppia trazione è inserita. Salgo con lui sopra il trattore. Cinture allacciate. Doppio sedile. Radio. Se hai freddo c’è anche il riscaldamento. Dietro di noi, sul rimorchio ci sono sei ragazzi. Tutti stranieri. Marocchini. Romeni. Stanno seduti in riga composti. Il loro lavoro consiste nel pulire le piantine di cappuccio. Una per una. Poi ci pensa la macchina a piantarle a terra. Riga dopo riga. Metro dopo metro. Il lavoro procede ai ritmi della natura. Funziona così in agricoltura. Il tempo non lo puoi forzare. Non lo puoi ammanettare. Lo devi lasciare scorrere. Con i suoi sfoghi e le intemperie. Con i suoi doni e le sue rovine. Damiano Bellia, 34 anni, conduce questa azienda di famiglia a Scorzè nel veneziano, insieme al fratello e al padre. Sa bene cosa voglia dire svegliarsi la mattina alle cinque e rincasare la sera quando fuori è buio. Sa bene cosa voglia dire fare fatica. Prendi la raccolta degli asparagi per esempio. Vanno raccolti uno a uno, centimetro dopo centimetro. “Stiamo eliminando questi ortaggi – racconta a La Ragione – perché troppo faticosi”. Le file di asparagi che abbiamo davanti in questa immensa distesa di campi sono le ultime della produzione. L’anno prossimo non ci saranno più. “La gente ha ancora in mente l’agricoltura come veniva fatta una volta, ma non è più così”. L’asparago è una di quelle colture dove non ci puoi mettere la tecnologia, l’innovazione. Rimane un’arte. Che se non hai la sapienza nelle mani ti conviene mettere da parte. Damiano la sapienza ce l’ha ma non trova personale che fatichi a 360 gradi. “Ormai l’agricoltura si fa con i macchinari, ed è questo che spinge molti giovani a (ri)avvicinarsi a questo mondo”. Le Bra di questi tempi, infatti, non sono braccia Rubate, sono braccia Restituite. Su una mano tengono la pergamena di laurea. Sull’altra tengono la zappa. L’Istat nel 7* censimento generale dell’Agricoltura calcola che i ragazzi fino a 29 anni a capo di una azienda agricola sono 18.923; 6.399 le donne. Tra i 30 e i 44 anni le aziende gestite da uomini sono 92.854. E quelle gestite da donne 34.131. I titolari, laureati, under 40 sono 20 mila e di questi: 15 mila hanno un titolo non inerente all’agricoltura e 4.700 hanno una laurea specifica. Sempre più università propongono corsi per agronomi o specializzazioni nel settore. Ma da qui a cantar vittoria ce ne passa. Perché le realtà giovanili rimangono sempre troppo poche. L’Ue sta intervenendo con finanziamenti. Nel Pac 2023- 2027 l’obiettivo è quello di consentire il ricambio generazionale in un settore che ha un forte bisogno di ragazzi e ragazze. Non di mercenari. Servono voglia, passione.

Serve quella famosa fiamma negli occhi. Una delle misure è l’acquisto di terreni per i giovani agricoltori a condizioni favorevoli. “Devi avere tanta voglia”, dice Massimo Terzariol. Lui nei campi ci è nato e cresciuto. È maturato come maturano i pomodori al sole. Entro dentro il loro stabilimento. Ci sono una trentina di giovani, uomini, donne. Qualcuno ha portato le paste. Si festeggia un compleanno. Oggi è festa per tutti.

Serenella Bettin

La guerra degli orsi. La guerra agli orsi

Mi sono messa in contatto con il ministro sloveno. Sentite cosa mi ha detto 👇

Su La Ragione.

La guerra agli orsi. La guerra degli orsi. Gli orsi in guerra tra loro. L’uomo anche. È il difficile equilibrio della natura che si scardina, si scombussola, si destabilizza. Gli orsi sono orsi. Gli umani sono uomini. A tratti umani. A tratti no.La vicenda del runner Andrea Papi aggredito in Trentino dall’orsa Jj4 sta rivalutando il rapporto tra la natura e l’uomo, sta infiammando i salotti televisivi, sta facendo berciare il popolo del web e facendo scrivere fiumi di inchiostro. Il presidente del Trentino Maurizio Fugatti ha firmato l’ordinanza di abbattimento dell’orsa che ha aggredito Papi e si è ritrovato gli animalisti sotto casa. L’orso nella regione è stato importato. Un progetto avviato nel 1999 e pagato con i soldi pubblici. A quanto pare fallimentare. Gli orsi si sono riprodotti, ben oltre le aspettative, e ora sono il doppio. Già. Mica sono marionette gli orsi, che dove li metti stanno. Sono esseri viventi, nascono, crescono. Gironzolano e ballonzolano macinando chilometri. Ma soprattutto si riproducono. In Slovenia si sono riprodotti così talmente tanto che il ministero delle Risorse naturali, il 13 aprile scorso, ha deciso di procedere all’abbattimento di 230 orsi bruni. Noi della Ragione ci siamo messi in contatto con il ministro Uroš Brežan. “L’orso bruno – spiega – svolge un ruolo fondamentale nella conservazione della biodiversità in Slovenia”.Ma allora perché intervenire? “Prima di prendere questa decisione, il ministero ha preso in considerazione tutte le altre opzioni per la prevenzione dei conflitti”. Ma “poiché né la rimozione da un’area specifica e il trasferimento in un altro ambiente naturale, né il contenimento in cattività sono opzioni possibili, per un numero così elevato di orsi selvatici, l’abbattimento è stato scelto come unica alternativa disponibile. Lo scopo principale di questa decisione difficile, ma accuratamente e sapientemente ponderata, è stato quello di prevenire gravi danni e di proteggere la salute e la sicurezza umana”. 

La proposta di abbattimento è stata avanzata dal Servizio forestale sloveno e, sembra un paradosso, dall’Istituto per la conservazione della natura. Un ossimoro. Un istituto atto a tutelare la conservazione della specie che propone di abbattere la specie stessa. Eppure, ci spiegano, hanno preso in considerazione il parere di esperti della facoltà di Biotecnica dell’Università di Lubiana. Il professore Klemen Jerina ha spiegato che “con l’abbattimento di quest’anno ci avvicineremo al numero di 800, un obiettivo che garantirebbe una coesistenza gestibile”. Secondo le stime degli esperti, la popolazione degli orsi bruni, nella primavera scorsa, ha raggiunto quasi 1100 esemplari. Ma si sa, gli orsi sono numeri, i morti anche. Vengono riconosciuti grazie ai codici di identificazione. E non hanno manco un nome. L’abbattimento, consentito solo in determinate aree, sarà selettivo, “distribuito per categoria di massa corporea”. “Il ministero, comunque – ci dicono – continuerà ad attuare tutte le misure per la protezione di questa specie, compresa la conservazione del suo habitat”, per favorire “un elevato livello di coesistenza tra orsi bruni e persone”. Sarà mai possibile?

Serenella Bettin

Mi sono fatta sfilare il portafoglio

E guardale. Guardale. Guardale come sono leste. Lestissime. Guardinghe. Feline. Salgo sul pontile davanti la stazione ferroviaria di Venezia, quello da dove partono i vaporetti. Le borseggiatrici, mi hanno detto, stanno tutte qui. Mi fingo una turista. Le vedo con la coda dell’occhio. Saranno sei, sette. Nella tasca destra del cappotto ho messo un portafoglio vuoto. Voglio vedere se provano a sfilarmelo. E infatti. Tempo due nanosecondi: una dà un’occhiata al taccuino che fuoriesce dalla tasca. Felinamente guarda l’altra. L’altra dà un’occhiata al borsello. È un ribalzare di sguardi. Una allunga una mano. E tac.

Mi volto. Il taccuino cade per terra. Le guardo. Chiedo cosa mai stessero facendo. Nel giro di un baleno quattro di loro si coprono il volto, chi il passamontagna, chi il cappuccio, chi il cappello, chi la sciarpa. Si lanciano fuori dal pontile e scompaiono lungo le callette. 

Due di loro riesco a inseguirle. Si fermano, si coprono, non mi parlano. Percorriamo qualche metro, poi poco più distante una pattuglia dei carabinieri.

Accade così a Venezia. Le borseggiatrici attendono i turisti, i pendolari, i lavoratori. Qui funziona così da 30 anni. 

La Onlus Cittadini non Distratti li ha visti nascere le borseggiatrici, i borseggiatori; li ha visti crescere, conosce perfettamente i volti, i luoghi, i segnali. Da quando sono nati i social condividono foto e video che ritraggono questi felini del malaffare. 

Le immagini, molte volte con i volti oscurati, finiscono nella loro pagina Facebook. 

Niente di diverso da quello che fanno negli ultimi anni i Controlli di Vicinato. Squadroni su Facebook e Whatsapp che a qualsiasi ora del giorno e della notte segnalano persone o auto sospette. Il più delle volte sono falsi allarmi. Qui no. Qui il pericolo esiste. 

Sono le stesse forze dell’ordine che non riescono a star dietro a queste persone, “in città sono tantissime e sono tutte straniere”, mi dice una fonte. Il movimento Cittadini Non Distratti ha fatto stampare dei volantini che distribuisce a tutti i turisti che arrivano in laguna. “Ocio al tacuin”, si legge ed è tradotto in tutte le lingue. “Attenzione borseggiatori”, in inglese, francese, tedesco, spagnolo, giapponese, cinese. Una di loro, Monica Poli, per aver sventato un borseggio è stata picchiata. “Da anni chiediamo – dice – che vengano messi dei display sui pontili e sugli autobus”. Ma a proposito, condividere i video è gogna mediatica? “Noi non facciamo la caccia – dice il pittore di piazza Franco Dei Rossi – abbiamo tanta gente che ci avverte. Cerchiamo di far capire che il problema è grosso ed esiste”.

Damiano Gizzi racconta che i ruoli a volte si invertono: sono le borseggiatrici a far loro le foto e a minacciarli. Guardie e ladri. Ladri e guardie. In un gioco che non si arresta. Alcune sono minorenni. Altre sono incinta.

Facciamo un giro. E troviamo una borsa nel covo dove le borseggiatrici lasciano le refurtive ormai spolpate dei valori. Dentro ci sono un’insalata. Un libro. E una soppressa. Qualcuno è rimasto senza pranzo. 

Serenella Bettin

Pezzo uscito su La Ragione, 28 marzo 2023

“In strada, di notte. Così vendo il mio corpo”

Seduta dentro l’auto con il piede poggiato sul volante Emily controlla che sia tutto a posto.

Quello stivale dal tacco 20 è difficile da portare. Emily annoda i lacci. Li fa passare uno a uno e poi comincia il turno.

Così è la sua vita da tre anni a questa parte.

Lei è una delle tante ragazze che di notte scendono lungo le strade e attendono i clienti. Li aspettano qui, fuori al freddo. Anche quando le temperature scendono sotto lo zero. La notte che la raggiungiamo ci sono meno tre gradi. Siamo in Veneto, lungo il Terraglio, una strada che collega le città di Mestre e Treviso. Fino a qualche anno fa nel Nord Italia le cose erano diverse. Le prostitute in alcune zone c’erano anche di giorno. E se passavi con l’auto le vedevi lì, tutte in piedi. Una a una. Alcune svestite e vestite solo di perizoma e reggiseno. Dopo il covid le cose sono cambiate.

Emily è tra le più fortunate. Lei ha un’auto dove poter stare al caldo e aspettare i clienti. “Ormai sono abituati – ci racconta – sanno dove trovarci. Ognuna ha il posto fisso e guai a spostarsi”. Non funziona più come una volta quando il cliente abbassava il finestrino e caricava in auto la prostituta, ora in alcuni casi c’è anche lui e scende a piedi e raggiunge lei. 

Emily ha una famiglia. Il suo lui non sa che lei ora è qui a vendere il proprio corpo. Lo fa per arrotondare. Perché le viene “facile”. 

Anche Tania, nome di fantasia, si concede per costruirsi un futuro. “Sono qui da tre anni – racconta – ho provato a fare altri lavori, ma pagavano poco. Voglio farmi una casa e così le notti vengo qui”. Tania ha 30 anni, viene dall’Ungheria e lamenta la mancanza di sicurezza. “Qui è pericoloso…

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Grazia del 9 marzo 2023