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A Venezia scontri tra polizia e manifestanti

Non è stata di certo una bella idea far partire il contributo d’accesso a Venezia il 25 aprile – viene da chiedersi se sia stata una bella idea il contributo d’accesso stesso – con quelli dei centri sociali che berciavano in piazza. E il nuovo ticket è entrato in vigore slalomeggiando tra proteste, polemiche, scontri con la polizia, qualche furbetto e la solita maledetta dannata burocrazia. Alè. Ma andiamo con ordine.

Da ieri a Venezia è entrato in vigore il contributo d’accesso, appunto, quel balzello – ne abbiamo parlato ieri appunto – che viene fatto pagare ai turisti mordi e fuggi, ossia quelli che arrivano in città al mattino e se ne ripartono la sera. Il ticket costa 5 euro, e chi non lo paga rischia una sanzione da 50 a 300 euro. Accipicchia. Però ieri mattina, i veneziani, anziché svegliarsi rincuorati, son caduti dal letto, disturbati più che altro dall’eco degli scontri che stavano avvenendo in città. Fischi, cori, grida, bandiere. I manifestanti, circa 800, compresi quelli “No grandi navi”, si sono radunati in piazzale Roma, per esprimere tutto il loro disappunto sul contributo e hanno cominciato ad avanzare verso il centro. Al che, è dovuta intervenire la polizia in tenuta antisommossa con caschi, scudi e manganelli. 

A essere attaccato è stato principalmente il sindaco lagunare Luigi Brugnaro, e l’idea di una città trasformata in un parco divertimenti. Tra l’altro, “Venezia non è Disneyland”, è proprio il titolo di una pagina Facebook molto seguita in città che denuncia proprio i turisti mordi e fuggi, quelli che si tuffano dai ponti o quelli che impiastricciano le vetrine con le mani sporche di gelato. Ma tant’è. 

Lo slalom poi è proseguito tra i totem esplicativi del contributo, posizionati proprio qui, fronte stazione Santa Lucia, tra i gazebo biglietteria allestiti ad hoc, e tra quella miriade di turisti scesi dai treni a lunga percorrenza, che invadeva la città trotterellando con le valigie. Una seconda manifestazione più pacifica, è stata quella di alcuni comitati cittadini, contrari al ticket, e che si sono posizionati vicino ai gazebo. Qui, tra totem di diverso colore, verde per i residenti, arancione per i turisti, azzurro per i gitanti, e tra steward e gente col naso per aria come a dire: “Dove son capitata”; ecco qui alt, fermi, i controlli. Allora: chi pernotta in una struttura ricettiva in città, e quindi paga già la tassa di soggiorno di 3 euro, non deve pagare il ticket. Chi ha l’esenzione, deve mostrare il Qr code dell’esenzione stessa. Esenzione che viene chiesta accedendo sul sito del comune. Chi ha meno di 14 anni basta che faccia vedere la carta d’identità e chi invece non dorme a Venezia ed è straniero, o viene da fuori regione, ecco, bè deve pagare i 5 euro. Perché c’è gente che non rinuncia a mettere piede a San Marco, nemmeno, nelle giornate di maggiore affluenza, anche a costo di pagare il biglietto. Il contributo, infatti, è stato concepito proprio nei giorni da overbooking, e in tutto, per ora, sono state previste 29 giornate.

Ma a Venezia ieri, dati aggiornati alla mano, sono arrivate 113 mila persone e di queste solo 15.700 hanno pagato il ticket. Il che vuol dire che 1 su 10 ha pagato, tutto il resto nisba. Balzano all’occhio i 40 mila turisti che dormono in albergo, i 2.100 parenti di residenti e i 2.000 amici di residenti. Mancano, si fa per dire ovviamente, gli amici degli amici dei parenti perché la cosa difficile è districarsi nella miriade di esenzioni previste. “Non si è mai fatto nulla per regolare il turismo ed era necessario fare qualcosa – ha detto Brugnaro – la paura del cambiamento è legittima, ma se la paura blocca, non c’è progresso. Oggi spendiamo più soldi di quanti ne incassiamo, ma questa non è una spesa è un modo per far capire che bisogna cambiare, evitando gli intasamenti. Non abbiamo più i finanziamenti della legge speciale per Venezia, nonostante vengano trovati per il ponte di Messina”. Così. Boom.

Serenella Bettin 

Oggi su Libero

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Mestre: un quartiere in mano agli stranieri

Una laterale di via Piave

Davanti a me ci sono cinque uomini. Cinque africani. Uno sta dietro al bancone del bar. Gli altri quattro siedono su dei tavolini luridi unti bisunti e malconci. Sono lerci di untume e di grasso. Non mi fido a entrare. Cerco un bagno. Ma decido di andare nell’unico hotel che offre una garanzia di sicurezza e una parvenza di normalità. Sono a Mestre. Zona stazione. Quartiere Piave. Nel bar con i tavolini luridi unti bisunti e malconci. Lerci di untume e di grasso, fanno pure le insalatone. Ci stanno due tabelloni fuori con scritti gli ingredienti e i prezzi che a guardarli – gli ingredienti – mi viene male. Chissà se qui fanno i controlli penso. Poco più in là ci stanno due spacciatori. Spacciano. Cercano clienti. Li vedi che hanno gli occhi guardinghi. Procedono con passo felino. E lanciano occhiate agli altri due che fan da vedette. Funziona così qui. In pieno centro. Con un quartiere totalmente in mano agli stranieri. Percorro via Piave una due tre volte, avanti e indietro indietro e avanti. Qui i negozi italiani, quei pochi coraggiosi e temerari, li conti sulle dita di una mano. Gli altri sono tutti pieni di immigrati. Bengalesi. Africani. Cinesi. C’è il negozio di elettronica che parla mandarino. Il negozio di vestiti che veste China. Il parrucchiere bengalese. Il negozio di souvenir di Venezia che di Venezia non ha nemmeno il nome. In giro si vedono uomini con il turbante in testa. Donne velate che procedono passo passo con infilati addosso orrendi sacchi neri. Ci sono ragazze che indossano occhiali da vista moderni, scarpe alla moda, jeans, ma sopra sono ricoperte da quella stoffa che pare tanto una tenda. Ci sono i bar tenuti da nordafricani. Dentro non ci entra nessuno. Se non loro. Una donna africana con la tuta rosa e un borsone esce da un locale, sta gridando al telefono con qualcuno. Blatera qualcosa che non capisco. Poi le si avvicinano altre due donne. Anche loro di colore. Anche loro con quel volto perso nel vuoto, incapaci di vedere un futuro. Accanto mi passa una ragazza bionda. Bella. Alta. Dell’Est. Indossa un piumino corto. Jeans larghi e una borsa di stoffa con dentro dei libri. Alcuni ragazzini sfrecciano in bicicletta ficcandosi in alcune vie laterali. Entro da un tabacchino per prendere le sigarette ma la donna, che non capisco se sia thailandese, peruviana, o cosa, non mi ascolta. È troppo intenta a parlare e urlare al telefono, che quando le chiedo “Rothmans slim” per favore, mi dice che non ci sono nemmeno. In realtà sono dietro al bancone. Qui si consuma il suicidio di civiltà dell’uomo. Vite ai margini, esistenze sul bordo di una finestra che dà sul vuoto, sguardi persi, defraudati esclusi, masticati dalla vita e dalle promesse di un futuro migliore. Sono quelle persone che vivono nell’ombra, in una città in cui cresce l’indifferenza.

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“Prima almeno fammi pisciare”

Udine centro

“Prima almeno fammi pisciare”.

Entro in un locale a Udine che saranno le quattro del pomeriggio. È appena uscito il sole e vedo gente in maniche corte. Come è bizzarra la vita. Esci di casa col temporale, con l’acquazzone che non lascia scampo nemmeno ai tombini che si riempiono tutti, e ti ritrovi dopo qualche ora e qualche madonna di troppo col sole primaverile che quasi spacca le pietre. Qui la gente ha già iniziato a fare l’aperitivo. “Ci sarà un motivo” mi disse una volta uno dei miei più cari amici che fa il medico “se le cliniche per i trapianti di fegato sono tutti al nord. Sarà che i beoni sono tutti lì”. “Può essere”, gli avevo risposto. Ma all’epoca ancora non mi interessavo dei risvolti sociologici della città. Detta tra noi. Me ne sbattevo altamente il cazz. E vivevo meglio. Insomma vedo sta gente che alle quattro del pomeriggio di pieno lunedì fa l’aperitivo che si preannuncia bello lungo. Ordino un caffè. La troupe anche. E mi infilo un attimo in bagno. Con la coda dell’occhio continuo a fissare quella ragazza che mi sta dietro e che continua a guardare lo schermo del telefono con davanti un bicchiere di rosso. Sembra abbarbicata qui da tempo. Ha le labbra carnose. I capelli che le cordonano il volto. Una salopette di jeans. E sotto indossa una maglia gialla. Che tristezza penso. Qualunque sia il motivo del suo essere così da sola, così davanti a quel vino rosso, credo non ne valga la pena. Soprattutto se fosse un lui. Vorrei andarglielo a dire ma la mia discrezione per le storie degli altri mi impone di rimanermene zitta. Vado in bagno e ci sono quelli con la turca. Dopo di me entra un padre con il figlio e veramente non capisco come faccia a farlo pisciare lì. Esco dal bagno e all’improvviso la gente inizia ad arrivare a frotte. Non capisco nemmeno dove vadano. Chi ordina un prosecco. Chi un rosso. Chi uno spritz. Chi pane salame e quant’altro. Davvero non capisco come facciano a mangiare e bere tutto quello e sono solo le quattro del pomeriggio.

Un uomo fuori, con la pancia da birra, si è appena levato la felpa. Ora boccheggia in maniche corte tracannando vino bianco a più non posso. Un altro indossa un cappello e mi pare già abbasta su di giri. Mi avvio verso la stazione dei pullman. Sono qui che stanno le baby gang. Così le chiamano gli studiosi dei fenomeni sociali che etichettano le persone, funziona un po’ così. Li prendi e li incaselli dentro a dei riquadri e poi vedi se hanno le stesse caratteristiche. Ma di baby questi, non hanno proprio niente. Catene ai Jeans. Orecchini. Capelli tirati. Laccati. Accenti a noi sconosciuti. Parole in arabo. Dove non capisci una mazza. Appena mi avvicino a un ragazzo questo si alza in piedi e mi dice: “Scusi, scusi”. Cacchio penso devo fare proprio così paura. Così mi raccontano che sono egiziani. Che vivono in comunità. Che vogliono i documenti. Che stanno dentro la casa accoglienza. Ma che vogliono andarsene per lavorare e fare soldi. Poi ci sono i tunisini. Qui fanno le risse quasi ogni giorno. Faccio un giro, paro con gli autisti degli bus. Con i controllori. Le persone. I pendolari. Quelli che vanno a lavorare. Quelli che tornano dallo studiare. La gente ha paura. Torno indietro. I ragazzini si sono messi difronte a me. Urlano qualcosa in arabo che con tutta la mia più buona volontà fatico a comprendere. In questa babele di lingue mi viene in mente quell’altro. Quell’altro di prima. In dialetto stretto: “Prima almeno fammi pisciare”.

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Bologna, la Dotta: qui lo spaccio è a cielo aperto

Bologna febbraio 2024

La tipa che mi sta davanti ha la gola tagliata. Si muove con fare spagnolesco e continua a ripetere che dentro di lei c’è un mostro. “C’è un mostro dentro di me”, farnetica in preda alla droga e ai fumi dell’alcol. “Guarda la mia gola tagliata”, fa a quell’altro che gli sta davanti in piedi. Lui indossa una pelliccia marrone fino ai piedi. Lei indossa un giubbino nero e quando va a testa in giù per scacciare il mostro, il giubbino le copre la testa, le scopre la pancia e lì inizia la sua danza. Comincia a roteare e inarcare il corpo e poi ad avere una specie di convulsione che non riesco a capire bene, perché avvicinarmi pare impossibile. Fino a due minuti prima si stavano cucinando il crack, lì in pieno centro, in pieno giorno, in una laterale di via Zamboni, il cuore della città universitaria di Bologna. Mi fermo a parlare con qualche residente e becco due genitori che sono andati a trovare la figlia. La figlia studia qui a Bologna. I genitori vengono dal Sud, cari i genitori che fanno studiare i figli, e mi dicono che sono qui in trasferta. La madre mi dice che non sembra una zona tranquilla, la figlia invece, capello corto sbarazzino orecchino al naso e alla bocca, molto più aperta e globalizzata mi dice che sì, che non c’è niente di male, che alla fine quei due sono due persone senza tetto che hanno solo bisogno d’aiuto.

L’aiuto, chi glielo dà l’aiuto. Viviamo in un mondo dove tutti sono pronti a farsi i cazzi degli altri, ma se sei un poveraccio e tiri a campare, per la società sei un rifiuto, un fallimento, un morto di fame e meriti di fare la vita che fai. Che pena questo mondo così schifoso. Faccio due metri e mi ferma un ragazzo di colore. Vuole vendermi fumo, roba, maria, hashish, droga, coca. “Come – gli dico – così qua a cielo aperto, voi spacciate?”. Mi sembra di essere Salvini, non ci voglio manco pensare, e quindi con fare più accomodante gli chiedo se fanno così tutti i giorni. Mi risponde: “Sì, certo”. “Ma sempre?”, “Sempre”. Gli dico che non voglio niente. Accanto a noi ci sono due ragazzi che suonano il djambè, quel tamburo a calice che usano in quei Paesi tipo Mali, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal. Le mani che battono sopra il tamburo, una canna, la droga che scorre a fiumi e quelle bottiglie di birra che si ammucchiano a ogni minuto. Una. Due. Tre. Quattro. Cinque. Mi incammino verso i portici della zona universitaria, qui siamo nel cuore di Bologna, la Dotta. Ma faccio cinque passi che mi ferma un ragazzo. “Fica, fica, fica”, comincia a dirmi. E un altro. “Dove vai? Vuoi fumare? Vieni qua”. Dopo un po’ decido di andarmene e mi trasferisco in zona stazione. Le sentinelle dello spaccio sono a ogni dove. Si muovono con fare felino, furbo, a tratti perfino mansueto. Qualcuno ti ferma per venderti hashish. Venti, trenta, quaranta, cinquanta euro. Qualche altro per venderti maria. Qualche altro finge che sia tabacco e ti chiede se vuoi fare un tiro. Poi, mentre mi addentro in un parchetto isolato, al buio, con la scorta che mi controlla da lontano, incrocio un ragazzo e mi ci fermo a parlare. Mi dice che lui non ha i documenti, che è irregolare, che non trova lavoro se non lavorare in nero. “In nero? E lo trovi il lavoro in nero?”. “Certo che lo trovo”, mi dice. “Trovo sempre qualche giardiniere o qualche muratore o qualucuno che monta scale che mi dà da lavorare”. Eccoli penso. Eccoli i farabutti del lavoro. Quelli che gli immigrati non li vogliono, ma che se serve loro per evadere il fisco allora vanno bene anche gli stranieri, meglio se non parlano italiano così almeno possono sfruttarli meglio.

Poi poco più in là ci sta un tipo. Mi parla in arabo. Grazie alla scorta riesco a capire che voleva vendermi roba grossa, tagliata fina, roba buona, dama bianca, polvere sottile. Sullo sfondo una banda di ragazzini ha cominciato a fare casino: “Arrivano i serpenti”, dicono. “Arrivano i serpenti”. I serpenti per loro sono i poliziotti. Uno mi si avvicina. Mi chiede se sono una sbirra. Ormai si è fatta notte. È sceso il buio. Mi guardo attorno, la città si è dissolta lasciando posto ai colori notturni e ai luccichii di quelle poche auto rimaste che si specchiano sulle pozzanghere della pioggia appena caduta. I lampioni smorzano la luce, le luci delle case a poco a poco si spengono. In giro rimangono soltanto loro. Senzatetto, tossicodipendenti, sbandati, persone a cui la vita non ha ancora concesso un riscatto. E noi. Qui a riprendere e documentare. Mi volto, mi guardo in giro, mi accendo una sigaretta. Sono tesa. Il giorno dopo devo andare a incontrare lo stupratore, ma questa è un’altra storia…

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Dite Grazie. Il mondo è pieno di stronzi

Grazie. Lo vedevo cosi indaffarato quel cameraman, così impicciato, così affaccendato e immerso, totalmente occupato con la mente ben salda su ciò che doveva fare e con quegli occhi vigili su ciò che stava accadendo che mi sono sentita di ringraziarlo.

Lui mi ha guardato con due occhi sbalorditi come a dire: grazie di cosa, sono qui per questo. Grazie, che parola. Quante volte la diamo per scontata. Quante volte la pronunciamo a mezza bocca, come fosse un segnalibro che metti sempre al solito posto in un libro impolverato sopra il comodino, e quante volte non la diciamo, la diamo per assodata, e invece no, non è scontato niente. Un grazie si deve sempre. Grazie quando ti aprono la porta, quando fanno qualcosa per te, quando investono del tempo per starti appresso. Diciamo che quell’operatore me l’ero mangiato prima, ero sbroccata, la tensione, l’ansia, l’adrenalina, quando giri certi servizi hai una serie di sentimenti concentrati tutti insieme che un caleidoscopio in confronto ti sembra un mare calmo, tranquillo, poco mosso. E vengono fuori tutti insieme quei sentimenti, te li senti addosso, ti divorano, ti salgono le gambe, ti prendono la pancia, la gola, ti salgono fino alla bocca, gli occhi, la testa, il cuore. È qualcosa che ti invade, pervade, che ti sconvolge ed è come mettere la testa dentro al frullatore. Sconvolta, sconquassata, così com’ero, me la sono presa con lui, gli avevo detto parole che non merita. Ma quando fai un lavoro siete tutti nella stessa barca, nella stessa regata, nella stessa vela. Poi quando siamo risaliti, e percorrevamo quei ponti, e quelle calli, e quei campi – si chiamano così le piazze di Venezia – quando ci scostavamo da quel fiume di gente che ci veniva addosso, quando facevamo a bracciate per farci spazio tra la folla, in mezzo a quella nuova di gente che si muoveva come muove la spumiglia quando la metti sopra il nastro dal fornaio – ricorda che una nuvola non sa perché si muove in una certa direzione e a una certa velocità. Segue un impulso, è li che deve andare – ecco quando siamo risaliti, in mezzo al volo dei gabbiani, in mezzo agli albori della sera, al crepuscolo del tramonto, in mezzo al vocio della gente, gli ho detto: grazie. Poi quando mi sono girata, ho incrociato quest’uomo, c’avea un blocco tra le mani e annotava i suoi pensieri. Su di un foglio, una sola parola: grazie ancora.

Ditelo questo cazzo di grazie, non date nulla per scontato.

Il mondo è pieno di stronzi.

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Eccola qui l’Eurabia: piazza Duomo, Milano. Capodanno 2024

Pezzo uscito su Libero, 2 gennaio 2023

Oriana Fallaci lo aveva predetto. E la sua non era un’invenzione. Eccola qui l’Eurabia. Piazza Duomo. Milano. Capodanno 2024. Allo scoccare della mezzanotte – noi di Libero eravamo presenti – non c’era nemmeno un italiano a pagarlo oro. Eccola qui l’Eurabia che prende forma, che riempie le nostre piazze, che si impossessa delle nostre tradizioni e ci impone i suoi costumi. Eccola. Una piazza italiana, come quella meneghina, dove a festeggiare sono solo gli stranieri. Sono loro che si sono presi le nostre piazze. La lunga processione verso il cuore di una delle città più belle d’Italia comincia già alle cinque del pomeriggio. Scendiamo in stazione Centrale e miracolosamente non è come tutti gli altri giorni, quando appena metti il naso fuori, devi fare lo slalom tra gli immigrati che dormono per terra e bivaccano sui marciapiedi. Qui, oggi, si sono già messi tutti in cammino per raggiungere la piazza dove sorveglia la Madonnina. Le bottiglie rotte per terra. La città spenta e frastornata dal fragore dei primi petardi. Le loro grida. Le loro forsennate urla. E le bandiere. “Milano oggi – per loro – è come Baghdad”, scrivono nei video che circolano in rete.

A mezz’ora dalla mezzanotte li vedi gli immigrati entrare in Galleria Vittorio Emanuele II per andare ad ammassarsi in piazza Duomo. Arrivano a frotte. Non li ferma nessuno. Sono dieci, venti, cento, mille. Sono tantissimi e come in un pullulio costante e intenso invadono lo slargo. Acquartierate attorno alla piazza, ci sono le baby gang e le bande dei ragazzini di seconda generazione. Fumano. Bevono. Girano canne. Urlano. Gridano. Il Capodanno è il loro. La piazza anche. “Io italiano! Io italiano! Questa casa mia”, ci grida in faccia un ragazzo marocchino. C’avrà all’incirca 16 anni. Attorno a lui i suoi amici con bottiglie di birra, pezzi di vetro e petardi in mano. Poco distante una famiglia di stranieri, forse inconsapevole di quello che sarebbe stata piazza Duomo, con i figli piccoli accanto, attoniti e frastornati dal rombo dei botti. Il boato si propaga in galleria. E il frastuono spacca i timpani. Ma manca veramente poco, la polizia di Stato è schierata in tenuta antisommossa. Caschi, scudi, manganelli. In Galleria ora non fanno entrare più nessuno. Chi fa il furbo viene ripreso. I ragazzini stranieri, prevalentemente arabi, sono tantissimi. La polizia avanza tra la folla. E procede verso la piazza. Noi dietro di loro. Formano un cordone tutto attorno per cercare di sedare gli animi e di scongiurare il peggio. Come quello che era accaduto due anni fa. Capodanno 2022. Ce lo ricordiamo tutti. Lo stupro di gruppo. Il taharrush jamai, una pratica conosciuta nei paesi arabi che significa molestia collettiva. Passata la mezzanotte, i ragazzini espletano i loro bisogni accanto alle colonne della piazza. Lo spettacolo è indecente. E come al solito è lo scontro di civiltà che esplode. Nel quartiere San Siro, scoppia la guerriglia. Lo scontro, ancora una volta, è tra la polizia e gli immigrati. I giovani cercano di aggredire gli agenti. E i fatti più gravi avvengono nella zona di via Zamagna, una delle strade più pericolose del quartiere. Alcuni qui avevano accatastato mobili e rifiuti al centro della strada per fare un falò allo scoccare dell’anno, ma gli uomini della polizia di Stato sono intervenuti nel giro di breve. Pochi minuti dopo, i poliziotti vengono presi a sassate e il furgone che li trasportava viene danneggiato: uno dei vetri va in frantumi, fortunatamente senza danno per i passeggeri. Molti di questi episodi di violenza sono stati ripresi nei video divenuti virali sul web. In uno addirittura si vede un ragazzo che spara dei colpi in aria con una pistola. “In alcuni quartieri di Milano le tensioni e l’odio verso la polizia crescono – scrive Silvia Sardone, consigliere comunale d’opposizione di Milano che ha postato il video – nel disinteresse della giunta di sinistra in città”. E ancora: “San Siro da tempo sembra fuori controllo, con sempre più stranieri e giovani di seconda generazione ostili alle forze dell’ordine e che fanno della delinquenza il proprio mestiere”. Nei video spuntano anche le scritte “Baghdad”, come a dire che Milano, questa notte, è come la capitale irachena. Il bilancio della nottata ha visto oltre 1500 persone controllate e 3 denunciate per il porto di oggetti atti a offendere. Più una persona denunciata per accensione ed esplosioni pericolose. Altri sei giovani sono stati accompagnati in Questura perché sprovvisti di documenti. Sì era vero quello che diceva Oriana. Un nemico “che scorrazza a suo piacimento”, senza esibire alcun documento.

Serenella Bettin

Libero, 2 gennaio 2023

L’arroganza dei ladri di case. La casa come fosse la loro

Da Fuori dal Coro di mercoledì 15 novembre 2023

Noto che c’è una certa arroganza – barra – prepotenza – barra – tracotanza – barra – spocchia – da parte degli occupanti abusivi di case, nel considerare la casa che occupano come casa e cosa loro. Impressionante.
E noto che c’è anche una certa disinvoltura – barra – sfrontatezza – barra – sfacciataggine – a chiamare le forze dell’ordine non appena arrivano i giornalisti che vogliono fare delle domande. Come fossimo noi dalla parte del torto. Come se in Italia la stampa fosse considerata al pari di un ladro, che appena lo vedi lì fuori incappucciato componi il numero di emergenza della caserma più vicina. Cosicché passa il messaggio che l’occupante abusivo ha diritto a occupare la casa, e invece il giornalista che giunge sul posto è un pezzo di m.
Il diritto di occupare del resto ancora non l’avevo mai sentito. Non credo manco sia scritto.
E non credo sia nemmeno riconosciuto a livello costituzionale, ma siccome i cambiamenti sono dietro l’angolo e avvengono nel giro di un batter di ciglia, non mi stupirei se qualcuno possa averlo previsto. Che ne so. Qualche talebano col cervello innaffiato dal politicamente corretto potrebbe aver proposto, in un momento di buio neuronale, un emendamento dove si prevede per l’occupante il diritto a occupare.
Orbene.
L’altro giorno, girando un servizio sulla casa occupata a Castellarano in Emilia Romagna, ho sostenuto una conversazione assurda ma così talmente assurda con l’occupante abusivo Doku (ve lo ricordate l’indemoniato) che a un certo punto mi sono chiesta se fosse tutto vero o no. Credevo di essere finita su Scherzi a Parte.
L’occupante sosteneva che quella fosse casa sua. E che stabiliva lui quando dare le chiavi.
“Cosa fai tu davanti casa mia anche oggi”, mi ha chiesto l’occupante che nella maggior parte dei casi è straniero.
“Ma questa non è casa tua”, ripetevamo in coro io e la proprietaria. Non è casa tua.
E lui niente. Silenzio. Zitto.
“Ti ho detto tu vieni il 25”, mi ha detto.
“Il 25?”, ho chiesto.
“Ma perché il 25?”. Niente. Zero risposte.
“Io ho detto il 25”.
Sì perdio figlio mio ma perché. Perché il 25 ho chiesto io. Niente.
Il 25 quindi, probabilmente, perché queste situazioni così talmente assurde e paradossali – che viene da chiederci perché diamine le persone normali lavorano una vita e pagano l’affitto e si comprano casa – saranno risolte dalle istituzioni nel migliore dei modi.
Dove il migliore dei modi non è dare alla proprietaria i soldi degli affitti non pagati e degli arretrati, ma è trovare una casa magari a nostre spese all’occupante e alla sua famiglia. Cosicché la proprietaria dopo un po’ è andata dai carabinieri. E si è sentita dire che se l’occupante ha detto che consegna le chiavi il 25, dobbiamo attendere il 25. In Italia quindi il fuorilegge detta la legge.
Decide lui quando dare le chiavi, in che modo e dove.
È l’illegalità.
Bellezza.

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Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire dolore

Al sopracciglio destro porta due orecchini che gli traforano la pelle. Uno parte da sotto il sopracciglio e sbuca dall’altra parte. L’altro parte da sopra e sbuca da sotto. Sono due gemme d’acciaio inchiodate lì sull’epidermide.
Quando lo vedo mi chiedo come faccia a non sentire male. A non sentire dolore. A far finta che non ci sia niente. Forse è questo uno dei sensi della vita mi chiedo. Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire male. Andare avanti.
Arrivo in questo posto dalle pareti gialle e giallognole che sono le undici del mattino. Sono in mezzo alle colline bolognesi che per arrivarci fai delle strade che manco le Dolomiti. Sono tutte curvilinee sbilenche storte, come tanti piccoli vermi risalgono o scendono il monte a seconda se decidi di andare da una parte o dall’altra. Il paese è praticamente una strada. Quando ci fermiamo da una donna per chiedere informazioni, lei sgrana gli occhi e ci risponde: “Paese? Quale paese?”. Qui la gente non si sente in un paese. Ci saranno dieci case senza manco un sali e tabacchi, sali e scendi invece ce ne sono tanti, quindi se finisci le sigarette devi rimanere senza fumare per trenta chilometri e raggiungere il paese vicino che pare più civilizzato.
Qui ci sono dieci bugigattoli con i balconi e le pareti dipinte. Con un campanile alto come un pioppo. E una chiesetta simile a quella dei cartoni animati. Entro nel primo bar perché devo andare in bagno. Ma il bar è all’interno di un albergo. Dove a sua volta ci sta un ristorante. Come a voler penetrare una piccola matriosca raggiungo il bar che sta all’interno della sala colanzione, la quale a sua volta sta all’interno del ristorante, il quale a sua volta sta all’interno dell’albergo. Apro le piccole porte, prima una poi l’altra poi un’altra ancora. Le vedo richiudersi.
Quando mi perdo, scodinzolo via di qua e di là, e a un certo punto un cameriere viene a salvarmi.
“Salve volevamo prendere un caffe. E avevamo bisogno di alcune informazioni”.
Al bancone del bar ci sono due uomini dal volto violaceo, hai presente quelli che bevono il vino alle nove del mattino. Quelli che hanno le vene consumate dall’alcol. Quelli che se ti avvicini senti quell’odore nauseabondo che ti entra in gola e ti si incatrama su dentro il naso. Qui sono così. Qualcuno ha anche la barba lunga, avvoltolata su se stessa, ingiallita dagli anni consumati a consumare tabacco. Gli anelli alle mani che tengono quella sigaretta che si consuma tra le dita.
E gli anfibi ai piedi. Fuori un tavolo di anziani che giocano a carte. Poi ci sta un vecchietto col cappello che a vedere una donna si erge tutto. Mi vede. Mi segue. Mi fa una domanda. Gli rispondo a mezza bocca. Qui la vita deve essere dura. In mezzo al nulla. Senza niente attorno. O uno beve o esce matto. Poi mi volto. E vedo un uomo. Al sopracciglio destro porta due orecchini che gli traforano la pelle.
Quando lo vedo mi chiedo come faccia a non sentire male. Forse è questo il senso della vita mi chiedo. Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire dolore.

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La mosca sopra la tavoletta del cesso

Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio. Arrivo a Bologna che è mattino. Devo girare una casa occupata ma nel frattempo mi scappa. E devo andare in bagno. Entro in un locale. E per accedere al bagno c’è bisogno della chiave. Sulla porta noto che c’è una storiella sul Tiro di Bologna. Il tiro è quella cosa per cui noi diciamo suona, invece a Bologna ancora dicono “Tira”, e sul campanello ci sta scritto proprio questo. Il modo di dire deriva dal fatto che una volta per suonare si usava una cordicella. Mi accorgo che sulla tavoletta del water c’è una mosca. E mi fa parecchio schifo. Esco. Bevo il caffè e ci mettiamo in cammino. Vado su per le montagne. Su per i monti. Su per le colline. Ci sono i tornanti. Cerco di concentrarmi sulla strada. Dicono che se guardi un punto. Sempre quello. Sempre fisso. Non ti fa male la macchina. Mi guardo attorno perché fissa e immobile non riesco a stare e attorno a me si apre un ventaglio di colori, una tavolozza di acquerelli dai colori pastello che pare che ci abbia messo le mani un pittore ingenuo. Ci sono alberi abeti pioppi cipressi verdi rossi gialli alcuni mi sembrano anche violacei. Anche l’accendino che ho comprato è violaceo. E forse non avrei dovuto comprarlo.
Arriviamo su in cima e ci fermiamo con l’auto perché ci stanno aspettando gli uomini della scorta. Siamo lungo i colli bolognesi. Andiamo su e ci appostiamo. Ma non appena arriviamo ecco che la donna esce. Ha il volto del colore del marmo. Vestita con una maglia aderente che le fa intravedere i seni, indossa dei fuseaux che paiono tinti dei colori pastello da un pittore schizofrenico, in testa indossa una cuffia.
Gli occhi marroni incavati non lasciano trasparire niente di buono. Sembrano quelli di una cavalletta che si apposta sul muro di casa in attesa della propria preda. Attorno a lei ci sono i cani. Scendo dall’auto facendomi violenza. I cani sono decisamente troppi per me. Lei ne ha cinque liberi e in più ci sono tre cani grandi brutti e grossi nel giardino accanto che continuano ad abbaiare forsennatamente. Non penso ai cani. In una frazione di secondo cerco di scindere la mente in due parti. La prima deve rimanere concentrata su quello che voglio dire e chiedere alla donna. La seconda parte cerco di distrarla dal pensiero che i cani ci possano far del male. In un’altra frazione di secondo cerco di staccare la mente dal corpo. Non voglio permettere alla paura dei cani di paralizzarmi. Le gambe vanno da sole. Avanti come un caterpillar la affronto. Le chiedo perché diamine continui a stare in quella casa. E lei non risponde. Torna indietro per la stradina e io la seguo. Ma in un baleno. Ecco che mi volto e vedo i cani ringhiare. Azzannare la rete. Azzuffarsi. Scagliarsi contro. Lei fa per andare ad aprirli come a metterci paura e in un attimo mi passa davanti la vita. Mi vedo azzannata. Acciuffata. Aggredita. Cerco di non pensarci e mi scatta qualcosa che la fa sclerare. Lei sclera. Inizia a inveirci contro. Alza le mani. Mi minaccia. Ci minaccia. Ci dà dei figli di put. Figli di troi. Teste di cazz. Chi cazz siete. Mi avete rotto i cogl*. Le dico che si dovrebbe vergognare a stare in una casa che non è la sua. E in quel momento, come a voler sfogare tutta la sua rabbia, alza il pugno per sferrarmi un gancio giusto in faccia. L’uomo della scorta si mette in mezzo, tra me e lei, e il pugno colpisce il collo di lui. Dopo il parapiglia, ce ne andiamo. A me tremano ancora le gambe. Più che altro per i cani. Di lei sostanzialmente me ne fotto. Ci è venuta fame. Entriamo in un ristorante. Io spizzico qualcosa. Ancora lo stomaco si deve aprire. Ordino il caffè americano, ma l’oste di quella osteria incallita non riesce a trasportare il vassoio e il caffè finisce tutto sparso. Lo guardo. Lui mi guarda. Gli faccio una faccia schifata. Lui mi dice: “È un po’ gocciolato”.
Sì decisamente. Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio.

sbetti

ladridicase

La guerra combattuta a suon di hashtag

Noto che dalla guerra in Ucraina è partita questa tendenza a combattere la guerra a suon di hashtag.
Una tendenza raccapricciante e per certi versi vomitevole che porta i Pinco Pallo di turno a partire per il fronte (se poi stanno la maggior parte del tempo in albergo non lo saprete mai) e farsi ritrarre e fotografare in pose talmente assurde che agli inviati veri, quelli con la I maiuscola, che la guerra non solo la raccontano ma la vivono veramente, viene loro da ridere.
Lezioni di giornalismo non richieste a metà tra l’analisi geopolitica e la storia raccontata a suon di Bignami da prima media.
Dalla guerra in Ucraina qualsiasi pinco pallo qualunque, mosso dalla sua boriosa cacone e gonfia vanità incandescente, ha provato a raggiungere il fronte – non riuscendoci quasi mai – al solo scopo di cercare la fotografia più idonea ad attrarre e attirare like su Facebook, raccontando la guerra non per quello che è, ossia una grande merda, ma mettendo se stesso al primo posto.
Il fine infatti degli inviati improvvisati non è raccontare storie e dare voce agli altri. Ma è raccontare se stessi per fare vedere quanto sono bravi. Gente improvvisata partita con una camera in mano senza sapere manco come vestirsi. Ce ne sono di casi di fotografi o presunti tali partiti e poi fermatisi in Polonia.
E la stessa cosa si ripete con Israele. Guerre raccontate a suon di stories su Instagram. Di like su Facebook. Di post che mi scompiscio dalle risate la mattina quando li leggo.
Io quando sono stata in Kosovo e la guerra era già finita non avevo manco tempo di andare al gabinetto perché si lavorava da mattina a sera per cercare di raccogliere quante più storie possibili. E si cercava di estraniarsi dal mondo per entrare dentro quello di qualche altro. Provate a chiedere ai grandi inviati di guerra se hanno tanto tempo di aggiornare i loro profili.
Gli inviati seri non hanno tempo di aggiornare la loro pagina Instagram. La loro pagina Facebook. I loro tweet. O X come lo chiamate.
Lo fanno a sprazzi, quando ormai, stremati dalla giornata e dalla nottata, si accorgono che il resto del mondo reclama il loro contributo per quella parte di terra vista con i loro occhi. La guerra non è un reality. Non è uno show. Non è palcoscenico. Non è cinema. Teatro. Chi scherza con la guerra, forse ha dimenticato una cosa importante. Che in guerra si muore.

sbetti

Mestre. Quei corpi carbonizzati tra le lamiere

Guardatela bene questa foto. L’ho scattata ieri sopra il cavalcavia di Mestre. Guardate il parapetto.
Ieri mattina sono uscita di casa per girare i servizi e il cielo sapeva di cenere. Aveva il colore plumbeo, del colore del piombo, opprimente, cupo, fosco, grigio, livido.
Toglieva il fiato da quanto cupo era.
L’odore oggi, qui sopra, era quello della morte.
L’aria è quella ferma rappresa di chi non crede ai propri occhi.
Il cielo è quello grigio cinereo che sa di corpi carbonizzati tra le lamiere.
Qui martedì sera, proprio qui, in questo punto maledetto, un autobus con a bordo dei turisti stranieri, ha sfondato il guard rail e il parapetto, ormai vetusti, e che “sembrano di cartapesta”, precipitando giù dal cavalcavia e schiantandosi al suolo.
Del resto basta guardarli questi parapetti, questi guard rail, così arrugginiti, così rancidi, così sbilenchi.
Non riuscirebbero nemmeno a sorreggere una bici, figuriamoci un bus di 13 tonnellate. Peccato che un guard rail, qualora ci fosse stato in quel punto, dovrebbe essere omologato per sorreggere un autocarro di 67 tonnellate.
Il bilancio è stato pensantissimo. 21 morti. 21. E 15 feriti. Tra le vittime anche un neonato. E un neonato che invece si è salvato. Del resto è così la vita, con una mano ti dà, e con l’altra ti toglie.
Un cavalcavia vetusto questo. Che c’ha oltre 50 anni, le cui barriere di protezione che sembrano ringhiere delle galline nei cortili, dovevano essere sistemate e rifatte anni e anni fa. Ma niente è stato fatto, oggi ho parlato con assessore e mi ha detto che non c’erano i soldi, che quel cavalcavia in effetti è un obbrobrio.
Il 4 settembre scorso in questo cavalcavia sono partiti i lavori e cantavano tutti in coro: “Sicurezza nelle strade, mai più vittime”. Oggi ho letto anche nella cronaca locale che qualcuno ha detto; “Tragedia che annulla le differenze politiche”.
Ma de che? Che vuol dire?
Invece piuttosto, chiedo, perché i lavori non sono stati fatti quando dovevano essere fatti? La tragedia del cavalcavia di Mestre si poteva evitare?
Il ponte Morandi insegna.
Oggi fuori dell’ospedale c’era il viavai di gente. I giornalisti però non potevano entrare perché come al solito ti dicono quello che devi dire e scrivere. Qui è stata allestita una stanza per i parenti delle vittime. Le persone si sorreggevano l’un con l’altra. Controllavano i documenti, parlavano con gli psicologi.
Fuori dall’obitorio ero uno strazio continuo. E qualcuno mi parla di differenze politiche.
Nel triste e forsennato berciare di tutti, un miracolo però è avvenuto.
Quel neonato sopravvissuto alla strage. È rimasto inviluppato tra i rottami dell’autobus accartocciato, rannicchiato forse tra i corpi di padre e madre che evidentemente prima dello schianto, in questi istanti orribili mentre l’autobus cadeva, hanno tentato il tutto e per tutto per salvarlo.
Una reazione istintiva in questo immenso miracolo della vita che fa i conti con l’agonia della morte.
Oggi sulla Verità. E ieri sera a Fuori dal Coro.

sbetti

Ph: Serenella Bettin

La bomba immigrazione sta per riesplodere

Ho ricominciato a occuparmi di un tema a me molto caro. L’immigrazione. Non quella che vi fanno vedere. Ma quella nascosta.

Mi ha riaperto i cassetti della mente che sapevo che prima o poi si sarebbero riaperti, lo sapevo. Me lo sentivo. Sapevo che quel chiavistello che non ho mai chiuso sarebbe saltato via come salta via il tappo quando la pressione non regge.

Sapevo che quei cassettini si sarebbero riaperti. Solo che l’altro giorno quando mi sono trovata a riaprirli, non avevo più i pomelli. Il tempo li aveva logorati. Il legno era stato ciucciato e mangiato dai tarli.

I pomelli erano saltati. E ho dovuto riprenderli in mano. RiprenderMi in mano. Ho dovuto infilare le unghie dentro le fessure e tirare e tirare tirare tirare. Ho dovuto scavare ancora più a lungo rispetto a quello che ci viene detto, proferito, pontificato. Ho dovuto riaprire i vicoli della mente, quelli che erano rimasti al buio. In penombra.

Quelli che fai un passo e cammini e poi me fai un altro e ti sorprende il tramonto. Ho dovuto farlo per arrivare a scoprire che è pure peggio di prima.

Perché checché ne dicano quelli che in passato mi hanno dato della razzista – che sono coloro i quali i campi di accoglienza non li hanno mai visti manco in cartolina – io a differenza loro ho sempre cercato di denunciare il business, l’accoglienza che diventa una macchina per macinare e fabbricare soldi, ho sempre denunciato l’ipocrisia, l’invasione, il falso perbenismo, la bieca carità. Ho sempre denunciato come stessero queste persone.

E sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento. Di riaprire quelle ferite. Di continuare a farle sanguinare. Di continuare a incidere la lama perché facciano ancora più male. Ancora più dolore. Perché possano arrivare in faccia alla gente. E scuoterla.

Per trattare certe storie bisogna andare. Scavare. Andare oltre. Immergersi. Oltrepassare. Non fermarsi davanti a un cancello chiuso. A un telefono sbattuto. A una porta chiusa in faccia. Ti ci devi immergere dentro, devi non riuscire a comprendere più chi sia tu con la consapevolezza di essere te stessa. @L’accoglienza non è quella che vi viene data in pasto.

E l’immigrazione continua a non essere gestita. Ha solo smesso di fare rumore. I migranti hanno cessato di protestare. Ma la miccia sotto sta per esplodere.

#sbetti

Ma sei pro o contro?

Mi si avvicina un ragazzo. C’avrà all’incirca trent’anni. Che dico un ragazzo. È un uomo. C’ha gli occhi incavati che fuoriescono dal bulbo oculare. Il suo iride è a metà tra il verde e il marrone. Dipende. Se fa la faccia sorpresa gli occhi si irradiano di verde. Altrimenti si irraggiano di marrone. Spruzzano una tonalità tendente al marroncino. Il suo corpo sembra quello di un’ antilope spelacchiata che non mangia da giorni. Magro. Affossato. Incavato. Indentro. Intarsiato come si intarsia un santo nel legno. Me lo immagino velocissimo nella corsa. Ottimo saltatore. Che vive in branchi, in mezzo ad altre persone. Sorseggia una birra. Alle dita indossa degli anelli. Mi guarda con due occhi verdi spalancati e mi chiede cosa stia facendo. Gli dico che sono una giornalista. E che sto facendo un servizio sull’immigrazione. Mi risponde perché. Come mai. Qual è il senso. Il senso. Quello che ho sempre cercato in tutto quello che facevo. L’andare oltre. Il non fermarsi mai, dinanzi a nulla. Far sì che il nostro Servizio appunto Servisse agli altri.
Mi chiede se sono pro o contro i migranti. Gli rispondo che non c’entra pro o contro. C’entra che non è questo il modo di gestirli i migranti. I poveracci. I disgraziati che sbarcano sulle nostre coste pagando fior di quattrini. Mi dice perché, come mai, in fondo c’è bisogno di queste persone.
Ma perché non si possono ammassare duecento trecento persone e stiparle come polli in batteria dentro un centro perché questa non è accoglienza, è chiudere dentro un ghetto persone semplicemente per il fatto che sono straniere. Gli dico che chi non ha diritto deve tornarsene da dove è venuto e che le cooperative hanno sempre lucrato sulle spalle di questi poveracci giunti da noi credendo di trovare l’Eldorado.
Mi dice: sì ma il tuo servizio deve essere pro o contro.
Ma no ancora. Non capisci. Inutile parlare allora. Non c’è un pro o contro, serve raccontare la realtà delle cose, dar voce alle persone, è per quello sto in mezzo alla gente.
Gli dico anche che lui in un centro del genere non ci starebbe mezzo secondo dato che consuma liberamente al bar la sua birra. Mi dice che non è vero, che lui in centri come quello c’è stato. Ah sì? “Sì. Io sono di Trieste. Ho vissuto un periodo per strada. Nei dormitori, in quei posti che tu denunci”.
Lo guardo. Allora sai di cosa sto parlando. Poi d’improvviso due urla. Sta scoppiando una rissa.
Un ragazzo che sfida un vecchietto…

sbetti