Conosciamo Sergio Sgrilli: Io e la mia casa a due porte. Una sul mare, una sulla pineta.

L’altra sera ho avuto il piacere di conoscere Sergio Sgrilli, per un’ intervista. Il fatto di averlo visto dopo il suo spettacolo tenuto all’Elios di Scorzè mi è stato d’aiuto, con la sua voce e la sua ironia è riuscito a raggiungere degli scomodi seggiolini di un teatro veneziano, creando un tutt’uno con il pubblico. Con il palco illuminato a giorno, la tenda di un rosso acceso, un microfono e una chitarra si muoveva sul parquet come fosse a casa. Infatti quella è la sua casa, ogni palco, ogni singolo centimetro di quel pavimento così caldo e accogliente diventa in qualunque punto del mondo il suo habitat naturale. Si muove con disinvoltura Sergio, esibendosi per quasi tre ore, e quando lo incontriamo non sembra stanco, ma “svuotato” come si autodefinisce; per lui fare teatro, fare cabaret diventa una sorta di terapia. Durante lo spettacolo ci parla di sé, del suo passato, del suo presente e del suo futuro, nato nei pressi del Golfo di Follonica, cresce, come ci racconta, in una casa con due porte, una dà sul mare e una sulla pineta. Tale residenza situata nei pressi di un campeggio, gli permette di conoscere il mondo, pur rimanendo immobile. Poi, affamato di conoscenza e ardente di curiosità, esce dai confini di quella terra così ricca ma non abbastanza e se ne va in giro per l’Italia. Conosce Faso, il bassista di Elio e le Storie Tese che lo spinge a partecipare a un provino per Zelig e di lì la svolta. Comincia a fare cabaret presso il teatro di Zelig per ben dieci anni e viene visto da piú di 14 milioni di italiani. Sale sui palchi di tutta Italia e si avvia anche per fare spettacoli di propria iniziativa, come “Sgrillaus” al Teatro Nuovo di Milano; frequenta corsi di dizione e alla nostra domanda del perchè non si noti la sua cadenza toscana risponde: “Oltre ai corsi, non voglio si senta, non mi piace sbandierarlo, una volta sembrava che per essere comico dovevi per forza essere toscano. Adesso non è più così”. Una persona molto umile Sergio, con una forte sensibilità, al primo impatto uno pensa: “Questo se la tira” e invece… una persona davvero alla mano che dopo lo show ha brindato con noi nel locale veneziano così, come se quella poltrona fosse il divano di casa. Una persona vera. E quando gli chiediamo cosa pensa dell’amore ci risponde: “L’Amore vero è un salto nel vuoto senza le reti sotto. E’ credere, è fede, è uno scambio di energia. Non si può amare poco come non si può amare molto. O si ama, o non si ama. Solo chi ama o chi ha amato sa di cosa sto parlando”
Serenella Bettin

“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”

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“Se è vero che è come una scopata allora scopare non è un granché” dice Christiane dopo aver sniffato una dose di cocaina in un bagno della stazione di Berlino.

Dura, cruda, nuda, senza veli nè mezzi termini la storia di “Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”, film tratto dall’omonimo libro, frutto di 45 ore di intervista da parte di due giornalisti tedeschi a Christiane per l’appunto, imputata nel 1978 per spaccio e droga. Una storia vera che non lascia spazio all’immaginazione. Entrare nel tunnel della droga significa per molti non uscirne o uscirne con la morte.

Un racconto pieno zeppo di riferimenti a questa fatale dipendenza, non tanto a quella psicologica, quanto a quella fisica. Il corpo completamente staccato dalla mente che si prende tutto, tutto tranne forse l’anima, emblematico è il gesto della protagonista che anzichè vendersi la fede della madre la lascia lì. Una dipendenza che fa tremare, sudare, vomitare, stremare a terra inerme, senza forze, con la speranza che qualcuno ti venga a salvare. Quel qualcuno però sembra non arrivare mai, se non alla fine quando la madre porta Christiane in un villaggio vicino ad Amburgo per disintossicarsi. Questa è l’unica ancora di salvezza in tutto il film dove la salvazione è soltanto la droga che fiocca dall’alto e il modo per averla che induce a prostituirsi e offrire prestazioni sessuali per avere 100 marchi in più.

Ben dipinto è il degrado psichico, fisico e sociale che ne risulta, una discesa senza arresto nella melma più profonda in cui si vive per drogarsi e ci si droga per vivere. Un punto di non ritorno, se non all’inferno. Qualcuno aveva detto che con la visione di questo film vien la voglia di drogarsi, io con la visione di questo film provo di tutto tranne la voglia.

#Sbett

http://www.montegiberto.com/poesie/

Il primo dell’anno (Serenella Bettin)
Il primo dell’ anno è arrivato,
e il fato a Monte Giberto mi ha portato,
passando infatti per una mostra di fotografia,
percepì un flash che mi indicò la via,
su per le colline dell’entroterra marchigiano mi inoltrai
e nel buio fitto mi addentrai,
flash di fanali d’auto tagliavano decisi gli arbusti,
con l’immaginazione potei scorgere i fusti,
non un’ anima per le vie ondulate,
mai avrei detto di incontrare un frate,
più che un frate era un parroco in borghese,
che gentilmente mi aprì la Chiesa montegibertese,
la Chiesa a San Nicolò è dedicata
e dentro l’ Ultima cena è raffigurata,
si tratta di un dipinto del 1602,
non un tentativo di imitare Cimabue,
quanto piuttosto a Caravaggio ci si volle avvicinare,
e venne dipinta per il maggiore altare,
una delle poche opere concepita verticalmente,
osservandola, chissà cosa potrà partorire la mente.
Spirito, anima e corpo a Monte Giberto potrai rinnovare,
se riesci a captare quella sensazione di benessere maestrale.
Se riesci per le colline a salire,
solo il silenzio potrai percepire,
non un rumore, non uno stramazzo,
qui non sanno nemmeno cosa sia il chiasso,
di 800 anime il Paese è popolato,
e di 322 metri è sopraelevato.
Subito di benessere mi sono sentita pervasa,
ringrazio il flash che mi ha persuasa.