“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”

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“Se è vero che è come una scopata allora scopare non è un granché” dice Christiane dopo aver sniffato una dose di cocaina in un bagno della stazione di Berlino.

Dura, cruda, nuda, senza veli nè mezzi termini la storia di “Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”, film tratto dall’omonimo libro, frutto di 45 ore di intervista da parte di due giornalisti tedeschi a Christiane per l’appunto, imputata nel 1978 per spaccio e droga. Una storia vera che non lascia spazio all’immaginazione. Entrare nel tunnel della droga significa per molti non uscirne o uscirne con la morte.

Un racconto pieno zeppo di riferimenti a questa fatale dipendenza, non tanto a quella psicologica, quanto a quella fisica. Il corpo completamente staccato dalla mente che si prende tutto, tutto tranne forse l’anima, emblematico è il gesto della protagonista che anzichè vendersi la fede della madre la lascia lì. Una dipendenza che fa tremare, sudare, vomitare, stremare a terra inerme, senza forze, con la speranza che qualcuno ti venga a salvare. Quel qualcuno però sembra non arrivare mai, se non alla fine quando la madre porta Christiane in un villaggio vicino ad Amburgo per disintossicarsi. Questa è l’unica ancora di salvezza in tutto il film dove la salvazione è soltanto la droga che fiocca dall’alto e il modo per averla che induce a prostituirsi e offrire prestazioni sessuali per avere 100 marchi in più.

Ben dipinto è il degrado psichico, fisico e sociale che ne risulta, una discesa senza arresto nella melma più profonda in cui si vive per drogarsi e ci si droga per vivere. Un punto di non ritorno, se non all’inferno. Qualcuno aveva detto che con la visione di questo film vien la voglia di drogarsi, io con la visione di questo film provo di tutto tranne la voglia.

#Sbett

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