Mi sono fatta sfilare il portafoglio

E guardale. Guardale. Guardale come sono leste. Lestissime. Guardinghe. Feline. Salgo sul pontile davanti la stazione ferroviaria di Venezia, quello da dove partono i vaporetti. Le borseggiatrici, mi hanno detto, stanno tutte qui. Mi fingo una turista. Le vedo con la coda dell’occhio. Saranno sei, sette. Nella tasca destra del cappotto ho messo un portafoglio vuoto. Voglio vedere se provano a sfilarmelo. E infatti. Tempo due nanosecondi: una dà un’occhiata al taccuino che fuoriesce dalla tasca. Felinamente guarda l’altra. L’altra dà un’occhiata al borsello. È un ribalzare di sguardi. Una allunga una mano. E tac.

Mi volto. Il taccuino cade per terra. Le guardo. Chiedo cosa mai stessero facendo. Nel giro di un baleno quattro di loro si coprono il volto, chi il passamontagna, chi il cappuccio, chi il cappello, chi la sciarpa. Si lanciano fuori dal pontile e scompaiono lungo le callette. 

Due di loro riesco a inseguirle. Si fermano, si coprono, non mi parlano. Percorriamo qualche metro, poi poco più distante una pattuglia dei carabinieri.

Accade così a Venezia. Le borseggiatrici attendono i turisti, i pendolari, i lavoratori. Qui funziona così da 30 anni. 

La Onlus Cittadini non Distratti li ha visti nascere le borseggiatrici, i borseggiatori; li ha visti crescere, conosce perfettamente i volti, i luoghi, i segnali. Da quando sono nati i social condividono foto e video che ritraggono questi felini del malaffare. 

Le immagini, molte volte con i volti oscurati, finiscono nella loro pagina Facebook. 

Niente di diverso da quello che fanno negli ultimi anni i Controlli di Vicinato. Squadroni su Facebook e Whatsapp che a qualsiasi ora del giorno e della notte segnalano persone o auto sospette. Il più delle volte sono falsi allarmi. Qui no. Qui il pericolo esiste. 

Sono le stesse forze dell’ordine che non riescono a star dietro a queste persone, “in città sono tantissime e sono tutte straniere”, mi dice una fonte. Il movimento Cittadini Non Distratti ha fatto stampare dei volantini che distribuisce a tutti i turisti che arrivano in laguna. “Ocio al tacuin”, si legge ed è tradotto in tutte le lingue. “Attenzione borseggiatori”, in inglese, francese, tedesco, spagnolo, giapponese, cinese. Una di loro, Monica Poli, per aver sventato un borseggio è stata picchiata. “Da anni chiediamo – dice – che vengano messi dei display sui pontili e sugli autobus”. Ma a proposito, condividere i video è gogna mediatica? “Noi non facciamo la caccia – dice il pittore di piazza Franco Dei Rossi – abbiamo tanta gente che ci avverte. Cerchiamo di far capire che il problema è grosso ed esiste”.

Damiano Gizzi racconta che i ruoli a volte si invertono: sono le borseggiatrici a far loro le foto e a minacciarli. Guardie e ladri. Ladri e guardie. In un gioco che non si arresta. Alcune sono minorenni. Altre sono incinta.

Facciamo un giro. E troviamo una borsa nel covo dove le borseggiatrici lasciano le refurtive ormai spolpate dei valori. Dentro ci sono un’insalata. Un libro. E una soppressa. Qualcuno è rimasto senza pranzo. 

Serenella Bettin

Pezzo uscito su La Ragione, 28 marzo 2023

Borseggiatrici: roba da schizofrenici

Alla fine vedete come nascono le cose.
Due piccole considerazioni sulla questione delle borseggiatrici che da settimane sta tenendo banco. Tutta questa roba è nata perché un consigliere di sinistra – e solo tale poteva essere – milanese che di nome fa Monica Romano, ha scritto sui social: basta continuare a postare foto e video di questa gente che borseggia. Basta! Suvvia! Che diamine! Le dobbiamo tutelare! Le dobbiamo proteggere!
Il consigliere dem sostiene che rientrerebbe nella sfera della violenza fare le foto alle feline agguantatrici di portafogli e metterle nei social. E che si invaderebbe la loro privacy. La privacy.
E quale privacy invece per una povera disgraziata, come oggi mi è capitato di vedere a Venezia, a cui è stato rubato il portafoglio con tanto bancomat tessera sanitaria ed effetti personali.
Il portafoglio l’abbiamo ritrovato, sì signori lo abbiamo ritrovato, in mezzo ai massi di cemento armato sotto un ponte dove ci vanno a pisciare i cani.
Era ben putrido del piscio. E dell’umidità della laguna. E qui vengo al punto.
Vedete chi stigmatizza. Chi riduce le persone dentro un ghetto. Chi le differenzia. Se il consigliere non avesse scritto quella roba, le borseggiatrici sarebbero state tutelate nella loro privacy, perché nessuno ne avrebbe parlato e loro avrebbero continuato a fare il loro lavoro perché sono povere e devono rubare.
In più il consigliere dem se anziché attaccare chi posta nei social le foto delle ladre, postando lei stessa un post dove attacca quelli che postano, (roba da neuro) avesse preso e denunciato guardoni e spie alle forze dell’ordine tutto questo odio verso le rom non si sarebbe riversato a quintalate a suon di sversamenti di letame.
Ma tant’è che è accaduto.
Ecco chi stigmatizza.
Chi fa di tutto perché si crei la differenza. Chi discrimina. Chi gode a ghettizzare. È pur vero che se crei il problema e gli dai forma, quel problema diventa visibile agli occhi degli altri, sicché da quel momento i problemi diventano due. Ai tempi dei social, infatti, dove ci sentiamo dei giganti a postare le vaccate proprie e di tutti, e dove l’uomo medio trae giovamento dal sentirsi appagato dall’acciuffare i criminali e sbatterli in prima pagina, devi anche fare i conti con quelli che i social li frequentano per davvero.
Vero anche, che se il consigliere non avesse scritto quelle baggianate nessuno avrebbe messo le mani su questa realtà che in una sordina vigliacca e codarda continua e continuava a macerare l’itala. Qualcuno doveva pure far conoscere queste realtà che esistono da trent’anni. Così come esistono quelli che le riprendono. Visto che a detta di molti sono in cerca di visibilità. Quale visibilità. Quale visibilità potrà mai avere qualcuno che rinuncia alla propria vita, senza manco essere pagato, per inseguire quattro disgraziate che rubano i portafogli.
A Venezia il comitato dei cittadini non distratti è attivo da trent’anni e non aveva di certo bisogno del consigliere dem milanese che desse loro popolarità.

sbetti

Ecco a chi diamo la protezione internazionale

Accadono cose inenarrabili.
A Treviso, un bengalese, Osain Mohamed Sharif, giusto per non fare nomi, 35 anni, dopo aver tentato di fare una rapina, ha preso e ha accoltellato una persona.
Il problema però non è questo. O meglio non è solo questo. Perché ormai di gente che non condivide le nostre norme e che delinque ne è pieno il nostro Paese, ma il problema – ed è anche quello che mi lascia più perplessa – è che il bengalese dopo il tentativo di rapina è stato preso. Poi quando l’hanno scarcerato, la sera stessa, non pago delle sue prodezze, ha deciso di sferrare una coltellata a un volontario della mensa dove andava a riempirsi la pancia con i soldi degli italiani.
Ora, di come un giudice possa rilasciare un immigrato irregolare, senza fissa dimora, e per giunta colpito già da un decreto di espulsione, mi piacerebbe saperlo, ma per ora i fatti sono questi.
Tutto è iniziato lunedì mattina scorso, quando il nostro show man ha tentato di rapinare un internet point di un connazionale. Per mezz’ora, racconta il Gazzettino, ha seminato il panico, ed è andato avanti a seminarlo fino a che la polizia, nonostante una breve fuga, non lo ha arrestato.
Giunto all’udienza di convalida, il gip gli aveva dato l’obbligo di risiedere nel capoluogo della Marca, imponendogli di presentarsi ogni giorno alla polizia giudiziaria.
Il che fa abbastanza ridere.
È come dire a un bambino: “non metterti più le dita nel naso e ogni due ore vieni qui per mostrarmi che le dita sono pulite”.
Il bambino che non è stupido starà ben attento a infilarsi le dita nelle narici e perlustrarle per bene, quando l’adulto non lo vede. Quindi mi piacerebbe sapere se il giudice abbia figli. Perché come ci arriva un bimbo a far le cose di sotterfugio, non si capisce perché non possa arrivarci anche un delinquente, che nella lingua italiana è uno che delinque. Delinquere, cito Treccani, significa “Infrangere le norme stabilite dalla legge penale”. Macchiarsi di una o più colpe. Minacciare la gente e tentare una rapina, mi risulta che siano ancora attività espressamente vietate dalla legge.
E veniamo alla sera stessa del rilascio. Il nostro giovincello baldanzoso si è presentato alla mensa dei poverelli con una roncola di 21 centimetri. Alla faccia. Sti cazzi. Ce l’aveva bella lì infilata nei pantaloni e quando gli si è storto il naso ha preso e l’ha tirata fuori.
Quella sera non aveva prenotato, l’inserviente glielo ha fatto notare, e questo gli ha piazzato il coltello alla gola. Un taglio che è costato al volontario vari punti e una prognosi di 15 giorni. E nel mentre gli altri partecipanti alla mensa erano increduli, il bengalese – tanto siamo nel Paese dei Balocchi – è scappato.
Le forze dell’ordine, come si usa dire nel linguaggio cronistico locale, sono intervenute nel giro di breve e nel giro di breve lo hanno rintracciato.
Il bandito, che godeva anche della protezione internazionale, è stato fermato dalla polizia in un parcheggio dove lui è solito bivaccare insieme a un gruppo di amici e altri connazionali che attendono il permesso di soggiorno. Permessi che, ve lo confido apertamente, non arrivano mai. Ma che tanto anche se arrivassero servirebbero ai clandestini per fare qualche attività in mancanza della carta da gabinetto.
Il fuggitivo così quella sera si è divincolato. Ha iniziato a correre. È scappato. Lì è iniziata una lotta con uno degli agenti, che poi è stato dimesso con qualche giorno di prognosi. I militari lo hanno braccato. Caricato nella volante. E ora dicono sia in carcere. Non si sa ancora per quanto.
Tranquilli, questa è tutta gente a cui diamo la protezione internazionale. Diteci quanto è bello accogliere.

sbetti

C’è un animale che terrorizza i pescatori. Ed è il granchio blu 🦀

Una mattina sempre con la mia troupe di Mediaset, formata da Carlo Brotto e Simon Barletti, sono uscita per andare a caccia di gamberi 🦐

La redazione voleva assolutamente i gamberi. I gamberi killer. Però era gennaio. Era pieno inverno. Dio se era inverno. Un inverno di quelli che non sono stati freddi. Ma ci sono stati alcuni giorni che l’inverno lo sentivi tutto. Te lo sentivi addosso e non ti lasciava scampo. Siamo arrivati sul Delta del Po che era mattina presto. Con sti paesaggi completamente avvolti dalla nebbia. Nebbia fitta. Grigi. Scuri. Che al solo guardarli ti veniva la depressione. Siamo usciti con la barca. Un freddo che ciufava e siamo saliti con i pescatori. Solo che i gamberi quel giorno non li abbiamo trovati e abbiamo scovato un altro animale che manco è nostro, viene da mari lontani e che si sta mangiando tutte le ostriche e le vongole.

Il nostro servizio andato in onda su Rete 4, Mediaset

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/il-terrore-dei-pescatori-il-granchio-blu_F312335901001C12

🎥🎞️ Carlo Brotto e Simon Barletti

#sbetti

Il cambiamento: dolore, fatica, sacrificio

Il cambiamento porta sempre un bagaglio di fatica. Dolore. Sacrificio. Pena. Paure. Angosce. Con l’adrenalina che tutto sta per succedere. La voglia di cambiare. E la consapevolezza di doverlo fare.
Con dentro quella linfa vitale che scorre. Che ripercorre le vecchie strade battute e strabattute. Quante volte le ho percorse quelle strade. Quante volte le ho calpestate. Quante volte le ho fatte mie. Mi ci sono immersa. Infilando dentro bene i piedi nella melma. E quante volte sono risalita scavando come si scava a mani nude nella roccia. Quante volte le ho immaginate certe strade. Quante volte le ho vissute. Quante volte lo ho semplicemente aspettate. Quante volte le ho rincorse. Invocate. Avanti e indietro, indietro e avanti. Conquistando così metro dopo metro. Pezzo dopo pezzo. Centimetro dopo centimetro.
Lo senti il cambiamento. Dio se lo senti. Lo senti che sta lì dentro di te e non ne puoi fare a meno. Lo senti che trabocca. Che sgorga. Che vomita quando non gli dai ascolto.
E non lo puoi arrestare. Non lo puoi fermare. Ostacolare. Boicottare. Non lo puoi nemmeno combattere. Tempo perso. Anzi più lo combatti più acquista forma. Altezza. Peso. Diventa quasi un mostro con cui svegliarti.
Diventa un modo di essere. Un modo di sentirsi. E più tenti di respingerlo. Più lui ti assale. Ti prende. Ti squarcia. Ti sconvolge. Ti mette alla prova. Ti sbatte dritto in muso che quei percorsi già battuti è arrivato il momento di lasciarli.
Senti che nell’aria c’è qualcosa di diverso. Ti guardi attorno e ti pare di rivivere i tempi delle medie, del liceo. Quanto il lieve tepore di inizio primavera si faceva sentire. E ti inondava il corpo. Il naso. I capelli. La bocca. Lo sentivi arrivare e ti si inorgogliva l’anima. Capisci che quel tempo ormai ti sta stretto, che la tua mente spazia in luoghi lontani. Che lo sguardo volge verso il cielo di quel palazzo dove splende il sole anche d’inverno. Anche se è il 5 gennaio. Il cambiamento lo devi assecondare. Lo devi lasciare fare. Lo devi far lavorare. Scavare. Sedimentare quello che è stato e lasciarti andare a quello che verrà. Lo senti quando batte forte sulla schiena.
Saltano via i pezzi, saltano via come schegge impazzite. Si apre uno squarcio. Tu tiri da una parte, lui dall’altra. Come una lotta continua. Un tiro alla fune che non si arresta. Tu tiri di qua. Lui tira di là. Ti slabbri. Ti squarci. Si creano slabbramenti. Ferite. Voragini. Che decidi di riempiere.
In una lotta all’ultimo sangue. Dove ancora una volta a vincere sarà la linfa vitale che scorre.
Quella fiammella che si riaccende, e quell’ardore negli occhi.

sbetti

Io li ho visti quei cinghiali scendere. Erano tanti. Uno. Due. Tre. Quattro.

A gennaio scorso con la mia troupe di Mediaset mi sono imbattuta in una riserva di cinghiali, pardon allevamento. Eravamo a Predappio, in provincia di Forlì – Cesena.

E li ho visti lì in mezzo a quella steppa scendere dalle colline.

Il contadino ha iniziato a chiamarli e sono arrivati a frotte. “Dai bella dai, uuu”, “Dai bella dai, uuu”. Erano tanti. Uno. Due. Tre. Quattro. E più il contadino li invocava più questi scendevano…

Il mio servizio andato in onda su Rete4 Mediaset

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/cinghiali-chi-subisce-i-danni-e-chi-li-accoglie_F312335901001C11

🎥 Riprese 🎬 e montaggio Carlo Brotto & Simon Barletti

La grande sete

Ho camminato sopra il letto di un fiume. E non è una bella sensazione. La grande sete…

Il mio servizio andato in onda su Mediaset Rete4

#sbetti

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/allarme-siccita-scompaiono-le-risorgive_F312335901009C16

Cercano migranti: manodopera a basso costo

Il mio libro in vendita, a piè pagina 👇

Chiariamo questa roba del Veneto che cerca immigrati perché non farebbe più figli.Avevo letto un “reportage” di Repubblica. Ma l’inviato farebbe bene a vivere in Veneto un mese, così può incunearsi e spalmarsi e riempirsi degli umori e interessi che regnano in questa regione, e non solo questa, dagli inverni grigi e le estati afose. Il Veneto, l’Italia diciamo, cerca immigrati non perché i veneti non fanno più figli – ne vedo anche troppe di famiglie improvvisate che figliano come conigli – ma perché questo è il main stream, la prassi radical chic che vige in Italia. Non è scoprire l’acqua calda. È sempre stato così. Cioè si fanno arrivare qui masse di disperati di modo da ghettizzarle e impiegarle come manodopera a basso costo. All’imprenditore, che chiede l’arrivo di immigrati, che arrivi Alì, Mustafa, Genoveffo o chi altro, importa poco. Non importa quello che sai fare. L’importante è che arrivi qualcuno. Che scopi per terra. Ecco il perché i salari sono bassi. Perché si è perso il valore della prestazione. Perché una volta che abbassi gli stipendi non li rialzi. E qualche morto di fame lo trovi sempre. Li hanno abbassati quelli che con i migranti ci hanno fatto i soldi. Quelli che hanno sempre visto queste persone non come dotate di un’anima e un corpo e uno spirito da accudire e accogliere, ma come carne da lavoro. L’Italia cerca immigrati perché così li può pagare meno. Perché se a un italiano devi dare almeno 15 euro l’ora perché altrimenti non si presenta in baracca, all’immigrato puoi dare poche centinaia di euro. Tanto il più delle volte manco sa la lingua e quindi chissenefrega. Chi controlla cosa gli fate firmare? I salari sono bassi perché per anni si sono sfruttati i migranti. Il titolare di un locale che conosco, aveva abbassato lo stipendio alle cameriere italiane che c’erano, e nel frattempo aveva assunto due romene. Nel giro di pochi mesi le italiane se ne sono andate. Le romene continuano a lavorar per 5 euro l’ora.

E quale più bel guadagno per un titolare pagare meno i dipendenti anziché formare e incentivare gli italiani? Molto meglio prendere manodopera a basso costo. Gente disperata che ti dice che verrà a lavorare anche per 5 euro l’ora perché “quando hai fame”. Non che gli italiani non ne abbiano, ma gli italiani fondamentalmente stanno bene. Col reddito di cittadinanza poi stanno ancora meglio. Introducendolo si è sdoganato il principio che puoi essere pagato anche per grattarti le palle sul divano. E quindi anziché venire sfruttatati da gente che paga poco o non investe sulla formazione, stanno a casa che è molto meglio. Del resto questa è la situazione. Giovani totalmente demotivati, in preda a padri e madri aspirapolvere che tirano su tutto quello che non tirano su i figli. Le aziende non investono in formazione per formare gente svogliata che non ha voglia di fare un tubo, come biasimarli, non c’è più la voglia, manco di imparare un mestiere o cercare un impiego. Non c’e più la voglia di partire dalle piccole cose. Di imparare la sacralità e ritualità dei gesti. La sapienza nelle parole. Nelle mani. C’è un livello tale di pressapochismo e menefreghismo in giro da far venire l’orticaria ai piedi. Una volta le scuole facevano stage, tirocini organizzati con le aziende. Adesso non si possono fare nemmeno quelli. Era bello entrare per la prima volta nel mondo del lavoro. Perché ti cimentavi in qualcosa di nuovo e avevi modo di toccare con mano magari quello che stavi studiando. Adesso no. Adesso è diventato che tutti studiano. Tutti si sentono dottori laureati ingegneri architetti. Conosco giovani che per avere una laurea in mano credono di essere Dio onnipotente. A cui non puoi chiedere niente. Non puoi chiedere di fare fotocopie. Di lavorare il sabato. La domenica. Di andare a comprare le pastine al bar di sotto se per caso in studio è il compleanno di qualche collega. Gli stranieri invece si prestano a fare queste cose perché alla fine questi si cimentano nel mondo del lavoro a modo loro. Ecco perché l’Italia cerca migranti. Non perché non fa più figli, ma perché gli stranieri li puoi pagare meno. Un italiano invece ti manda a fareinculo. Ecco perché i salari sono bassi.

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Ottobre 2020. Un cane e il suo pastore

Qui è quando documentavo la fine dell’estate che non voleva finire. E quell’inizio autunno che tardava ad arrivare. Era ottobre 2020. Jesolo (Venezia).

Il post del primo lockdown della pandemia da Coronavirus.

Ci feci un pezzo sul Giornale.

#sbetti

Anziani violentati. Gli orrori nella casa di riposo

Le hanno schiacciato in faccia il pannolone usato di un’altra. Le hanno detto “troi* putt*”. “Vecchia di merd. Maled cancara. Oca. Mong”.
Un’altra l’hanno pestata. Un’altra l’hanno violentata. Lanciata sul letto. A un’altra ancora le hanno sputato in bocca. La lanciavano con violenza. Niente cibo e pugni sulla testa. “Non me ne fotte un caz – dicevano – le lascio il pannolone sporco”.
E quando un anziano si ribellava gli sputavano in faccia e lo frustavano.
Ho letto nelle cronache locali la terribile vicenda che sta interessando la casa di riposo Monumento ai Caduti di San Donà di Piave nel veneziano.
E posso dire che mi viene il vomito. Mi fa tanto schifo. Ma tanto tanto ma tanto schifo. Tantissimo. Soprattutto se penso che in alcune case di riposo c’è ancora chi pratica la prassi del Green Pass, chi ancora fa fare i tamponi, e chi ancora, pur non essendo positivo (so per certo) viene tenuto in isolamento. Robe da matti.
L’isolamento a fronte di questi fatti gravi farebbero bene a infilarseli nel sedere.
In qualunque casa di riposo, non solo in quella interessata.
Nella casa degli orrori ci sono stati anni di denunce rimaste inascoltate, insulti, botte, pugni, schiaffi, per non parlare degli stupri e delle ripetute violenze sessuali su anziane invalide o allettate che non potevano in alcun modo difendersi. L’indagine è partita dal racconto di una figlia che aveva notato escoriazioni ed ecchimosi nel corpo della madre e un improvviso dimagrimento.
E poi ancora pranzi non dati, farmaci non prescritti, anziani lasciati sul letto con i pannolini sporchi, drogati con i barbaturici.
Un inferno quello emerso dall’inchiesta della procura di Venezia. Gli episodi certi sono quelli segnalati tra la fine 2022 e l’inizio 2023.
Una donna anziana è anche morta. Forse per le percosse e le molestie. Nelle carte dell’accusa emergono 13 violenze in 10 giorni.
Tale Davide Barresi, 54 anni, operatore socio sanitario, era stato ripreso mentre violentava sette pazienti. Se ne approfittava mentre dormivano. Si avvicinava. Si masturbava. Mimava atti sessuali che poi in alcuni casi portava a termine. Una roba di uno schifo assoluto.
E mi chiedo perché quando arrestino questi infermieri e oss, non li mettano dentro in isolamento in gattabuia finché campano in vita.
Barresi quando lavorava all’ospedale psichiatrico di Agordo nel bellunese era già stato coinvolto in un’indagine per abusi sessuali sulle pazienti. Condannato in primo grado, era stato assolto dalla Corte d’Appello di Venezia. Un trionfo.
Come fa un operatore che era già stato indagato a riprendere il proprio posto a contatto con soggetti deboli e fragili incapaci di difendersi?
Non so se queste persone che si macchiano di tali efferati crimini possano essere rieducati. Curati. Sanati. Nessuna cura è prevista. Qui non conta la rieducazione del condannato. La funziona rieducativa della pena. Perché non viene fatta loro una perizia psichiatrica prima di entrare in queste strutture? Perché nessuno controlla?
Perché non vengono sottoposti ad accertamenti mensili del loro stato di salute mentale?
Per due anni hanno controllato se la gente fosse infetta o meno. Per due anni gli anziani che avevano contratto il covid sono stati lasciati a morire soli senza manco un conforto di un parente.
Imparate a fare i controlli dove serve veramente.

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“In strada, di notte. Così vendo il mio corpo”

Seduta dentro l’auto con il piede poggiato sul volante Emily controlla che sia tutto a posto.

Quello stivale dal tacco 20 è difficile da portare. Emily annoda i lacci. Li fa passare uno a uno e poi comincia il turno.

Così è la sua vita da tre anni a questa parte.

Lei è una delle tante ragazze che di notte scendono lungo le strade e attendono i clienti. Li aspettano qui, fuori al freddo. Anche quando le temperature scendono sotto lo zero. La notte che la raggiungiamo ci sono meno tre gradi. Siamo in Veneto, lungo il Terraglio, una strada che collega le città di Mestre e Treviso. Fino a qualche anno fa nel Nord Italia le cose erano diverse. Le prostitute in alcune zone c’erano anche di giorno. E se passavi con l’auto le vedevi lì, tutte in piedi. Una a una. Alcune svestite e vestite solo di perizoma e reggiseno. Dopo il covid le cose sono cambiate.

Emily è tra le più fortunate. Lei ha un’auto dove poter stare al caldo e aspettare i clienti. “Ormai sono abituati – ci racconta – sanno dove trovarci. Ognuna ha il posto fisso e guai a spostarsi”. Non funziona più come una volta quando il cliente abbassava il finestrino e caricava in auto la prostituta, ora in alcuni casi c’è anche lui e scende a piedi e raggiunge lei. 

Emily ha una famiglia. Il suo lui non sa che lei ora è qui a vendere il proprio corpo. Lo fa per arrotondare. Perché le viene “facile”. 

Anche Tania, nome di fantasia, si concede per costruirsi un futuro. “Sono qui da tre anni – racconta – ho provato a fare altri lavori, ma pagavano poco. Voglio farmi una casa e così le notti vengo qui”. Tania ha 30 anni, viene dall’Ungheria e lamenta la mancanza di sicurezza. “Qui è pericoloso…

Continua sul settimanale Grazia ✍🏻🗞️

Grazia del 9 marzo 2023

Venezia: tra artigiani e imprenditori “qui soltanto stranieri”

Il mio servizio per Controcorrente Mediaset. Ripreso da Tg Com 24

👉 https://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/veneto/venezia-immigrati-lavoro_62027252-202302k.shtml

Servizio andato in onda su Rete 4 l’8 marzo 2023

Il mascheraio più antico, parla veneziano, ha 70 anni ed è argentino

Carlos Brassesco è cresciuto in Argentina sognando Venezia in un tempo in cui si poteva ancora sognare.
Ha 70 anni. Sotto gli occhi ha due borse che paiono due noci. Non sapeva che un giorno sarebbe diventato uno degli ultimi mascherai veneziani.
Il più anziano. È venuto in Italia per studiare urbanistica negli anni 80, e da li non se n’è più andato.
Erano tempi in cui si poteva fare tutto. Quelli di quando per sbarcare il lunario ti mettevi a far dieci mascherine e te ne chiedevano altre cento. Cento. Centocinquanta. Duecento. Chi può dirlo. “Era un momento magico”, mi ha detto. “Questa cosa ci è esplosa tra le mani e da lì ne abbiamo fatto un lavoro”.
Ha iniziato così lui. Erano in tre quattro.
Quando sono passata davanti la sua bottega c’era una vocina che dentro di me mi diceva: “Entra. Entra Serenella entra”.
Per noi giornalisti di strada, che consumiamo le suole delle scarpe, che la mattina abbiamo le ferite ai piedi, a noi che ci si toglie la pelle dal dito accanto all’alluce (mi succede sempre) funziona così.
Quando senti i tuoi scarponi battere. È lì che devi andare.
La sua bottega è un caleidoscopio di colori. Di sfumature. Di volti. Maschere, cavallucci marini, teste di leone, volti di donna, occhi di dama, scheletri, forme, formine, dita penzolanti, busti, pinocchi. Lui con le mani crea le maschere, le compone, le modella, le calca, dà loro forma. Ha le mani sporche di colla. Le unghie tinte del colore della tempera. Il suo accento argentino ti porta a luoghi lontani, sconosciuti, contaminati e amalgamati di un antico veneziano. I denti a castoro che gli sporgono fuori, quell’occhio vigile attento, ma calmo e pacato, come se al tempo che scorre ci avesse fatto il callo. Il callo sulle mani. Il calco delle maschere.
I capelli che gli scendono. Gli accarezzano il volto. La bocca contornata dai baffi. Quell’omino basso e cortese di una singolare eleganza. Il naso ricurvo adunco incurvato.
Nella sua bottega dai mille volti e colori e accenti, non dimentichi mai di essere a Venezia.
La sua vita sta tutta qui.
Passata a tessere la colla dipingendo nell’aria volti di donna.
È il veneziano che si fonde e si confonde in un tango argentino mai visto.
Mi parla di sé, del suo lavoro, di come la vita sia cambiata a Venezia.
La paccottiglia ha fatto morire tutto. L’edicola che gli sta davanti vende maschere a due euro. Ai turisti bastano quelle. Mica lo sanno i turisti, fiumi in massa verso una meta, che dietro le maschere artigianali ci sono anni di studio lavoro sacrifici e cura maniacale dei dettagli. A loro basta la mediocrità.
Basta il bengalese che vende il medico della peste a un euro. “La situazione è grave”, mi dice. E non c’è nessuno che voglia imparare questo mestiere. Dentro la sua bottega ci sono la moglie Carolina Vicente, argentina anche lei. Un collaboratore romeno che ha imparato questo mestiere perché aveva fame. E un altro ragazzo che viene dalla Germania. Italiani non ce ne sono. Qualcuno che voglia imparare nemmeno. “Venezia non brilla più come una volta. Ora splende solo la paccottiglia”, mi dicono.
“Come la vita”, dice la moglie. Ha un periodo in cui nasce, cresce, muore, si trasforma, o tramonta e ricresce. Li ho ascoltati per ore. E quando me ne sono andata era come se ci fossi entrata da cinque minuti.
La loro storia su Mediaset, Rete 4.

sbetti

Con Carlos Brassesco, 6 marzo 2023