Carlos Brassesco è cresciuto in Argentina sognando Venezia in un tempo in cui si poteva ancora sognare.
Ha 70 anni. Sotto gli occhi ha due borse che paiono due noci. Non sapeva che un giorno sarebbe diventato uno degli ultimi mascherai veneziani.
Il più anziano. È venuto in Italia per studiare urbanistica negli anni 80, e da li non se n’è più andato.
Erano tempi in cui si poteva fare tutto. Quelli di quando per sbarcare il lunario ti mettevi a far dieci mascherine e te ne chiedevano altre cento. Cento. Centocinquanta. Duecento. Chi può dirlo. “Era un momento magico”, mi ha detto. “Questa cosa ci è esplosa tra le mani e da lì ne abbiamo fatto un lavoro”.
Ha iniziato così lui. Erano in tre quattro.
Quando sono passata davanti la sua bottega c’era una vocina che dentro di me mi diceva: “Entra. Entra Serenella entra”.
Per noi giornalisti di strada, che consumiamo le suole delle scarpe, che la mattina abbiamo le ferite ai piedi, a noi che ci si toglie la pelle dal dito accanto all’alluce (mi succede sempre) funziona così.
Quando senti i tuoi scarponi battere. È lì che devi andare.
La sua bottega è un caleidoscopio di colori. Di sfumature. Di volti. Maschere, cavallucci marini, teste di leone, volti di donna, occhi di dama, scheletri, forme, formine, dita penzolanti, busti, pinocchi. Lui con le mani crea le maschere, le compone, le modella, le calca, dà loro forma. Ha le mani sporche di colla. Le unghie tinte del colore della tempera. Il suo accento argentino ti porta a luoghi lontani, sconosciuti, contaminati e amalgamati di un antico veneziano. I denti a castoro che gli sporgono fuori, quell’occhio vigile attento, ma calmo e pacato, come se al tempo che scorre ci avesse fatto il callo. Il callo sulle mani. Il calco delle maschere.
I capelli che gli scendono. Gli accarezzano il volto. La bocca contornata dai baffi. Quell’omino basso e cortese di una singolare eleganza. Il naso ricurvo adunco incurvato.
Nella sua bottega dai mille volti e colori e accenti, non dimentichi mai di essere a Venezia.
La sua vita sta tutta qui.
Passata a tessere la colla dipingendo nell’aria volti di donna.
È il veneziano che si fonde e si confonde in un tango argentino mai visto.
Mi parla di sé, del suo lavoro, di come la vita sia cambiata a Venezia.
La paccottiglia ha fatto morire tutto. L’edicola che gli sta davanti vende maschere a due euro. Ai turisti bastano quelle. Mica lo sanno i turisti, fiumi in massa verso una meta, che dietro le maschere artigianali ci sono anni di studio lavoro sacrifici e cura maniacale dei dettagli. A loro basta la mediocrità.
Basta il bengalese che vende il medico della peste a un euro. “La situazione è grave”, mi dice. E non c’è nessuno che voglia imparare questo mestiere. Dentro la sua bottega ci sono la moglie Carolina Vicente, argentina anche lei. Un collaboratore romeno che ha imparato questo mestiere perché aveva fame. E un altro ragazzo che viene dalla Germania. Italiani non ce ne sono. Qualcuno che voglia imparare nemmeno. “Venezia non brilla più come una volta. Ora splende solo la paccottiglia”, mi dicono.
“Come la vita”, dice la moglie. Ha un periodo in cui nasce, cresce, muore, si trasforma, o tramonta e ricresce. Li ho ascoltati per ore. E quando me ne sono andata era come se ci fossi entrata da cinque minuti.
La loro storia su Mediaset, Rete 4.
sbetti
