Qui è un altro mondo. Ascoli Piceno

“Lei ha un numero di telefono?”. “Certo. 0736”.
No non è un cellulare.
Qui funziona ancora così.
Qui la gente c’ha i giardini aperti, le case anche. Qui la gente gioca ancora a pallone come testimonia la foto di Cristiana Mangani.
Pulendo i tetti della chiesa di Ascoli c’hanno trovato una caterva di palloni.
L’altra sera sono finita in mezzo alle colline ascolane a mangiare coniglio – io vegetariana – e a bagnarmi di dialetti marchigiani, cadenze mai dimenticate, percorsi scoscesi, sapori tipici; qui dove i paesi sembrano presepi, dove le case stanno incastonate sulle colline e la gente semplice ti apre le porte di casa come fossi di famiglia.
Lei c’ha il maglioncino a righe e i pantaloni larghi. Il grembiule. La classica donna che si dà da fare. Lei non mangia seduta a tavola con gli ospiti. Lei serve in tavola. Lei c’ha da fa’.
“Ma tu non magni?”. “No Serenè. Io tengo da fa’”.
Le pietanze devono arrivare belle calde. Subito cotte. A km 0. Poi lei ripassa. Ripercorre la tavolata e ti chiede se ne vuoi ancora. Ma nel mentre te lo chiede te l’ha già messo nel piatto.
“Eh daje piene natro occo’ – E dai prendine un altro po’. Che è sssuuu pochetto – che è sto pochetto”.
“La vo la panna? La vuoi la panna?”.
“No te so ditto che nun la vojo – No ti ho detto che non la voglio”. “Ma dai. Ma vanne. Ma mica se magna ppe fame quessa – Ma no dai. Ma va. Ma mica si mangia per fame questa”.
“Ah no? E che è? E dai piatela. E dai prendila”.
Lei è gentile. Cordiale. Buon’anima. È la donna che tra le sue occupazioni esclusive c’ha l’andamento di casa. La vedi la casa. Il focolare acceso. Le videocassette. La posta sopra il tavolo. Le medicine. Mica come noi che stiamo tutto il giorno fuori e quando rientriamo non troviamo nemmeno le saponette.
Quando lei ride, ride così di gusto che ti viene voglia di inondarti ancora di dialetti marchigiani, cadenze mai dimenticate, percorsi scoscesi, sapori tipici, qui dove i paesi sembrano presepi,!dove le case stanno incastonate sulle colline e la gente semplice ti apre la casa come fossi di famiglia. Lei è la donna che fa da mangiare per tutti. Nel senso che lo fa per davvero. Di lavoro fa la cuoca. E lo fa alla divina.
Mescola il coniglio come fosse un figlio da accudire. Poi lo condisce. Lo guarda. Lo divide. Lo isola. Lo separa. Lo adorna di pomodorini e basilico. Di olive nere e prezzemolo. Lo rimescola. Te lo mette nel piatto come il prete dà la comunione al cristiano. Poi prende l’insalata e ripassa un’altra volta. Tutto deve finire.
Ti versa la macedonia come fosse una pozione magica. Il caffè te lo prepara come lo vuoi. Poi ti chiede se ci vuoi lo zucchero o meno. Io abituata a berlo amaro. Sì lo zucchero ma non mescolare lascialo nel fondo. “Eh daje fa fa’ a essa”, le dice il compagno. “E dai. Fai a fare a lei”.
Lui c’ha la parlata folta. Densa. Spessa. Si vede che ama mangiare e godersi la vita. Di professione fa il vino. L’olio. L’aceto. Fa pure l’anisetta, il liquore tipico marchigiano che fa 45 gradi e quando l’ho bevuto mi stava andando di traverso tutto. “Te lu so ditto che dovei sta attEnta. Te l’avevo detto che dovevi stare attenta”.
Poi ci sta l’avvocato che ce l’ha su con la nazionale italiana. Che ha perso contro la Macedonia. Irriverente. Piccante.
Accanto ci sta quello con le sopracciglia folte. Sembrano binari del treno. Arriva qualcuno. Qualcuno alla porta. “Ah essulo. Va’ chi è rrivatu – ah eccolo guarda chi è arrivato”. E in un tripudio di festa si ricomincia il giro. “Sci magnatu? La vo’ la macedonia? Hai mangiato? La vuoi la macedonia?”. “Io la macedonia me la magno. Ssiii stupidi ha perso contro la Macedonia. Ma ieteve a fanculo. Io la macedonia me la mangio. Sti stupidi hanno perso contro la Macedonia. Andatevene a fanculo”.
“Zitti mo’ ve faccio ride. Zitti adesso vi faccio ridere. Santì te lu recordi Santì?”.
“No. Chi Madonna è Santì?”.
“Come chi Madonna è. Killu che c’avia lu fricu che abitava ecco sotto a nu”.
“Santì te lo ricordi Santì? No chi Madonna è Santì? Come chi è? È quello che c’aveva il bambino che abitava sotto a noi”.
Arriva la seconda pietanza. “Oh quessa è calla calla. Oh questa è calda calda”.
“Eh daje pìene un atro occo’”.
Mi guardo attorno. Sorrido. Rido.
Un altro mondo per davvero.

#sbetti

Quel borgo a forma di piramide, dove ai telefonini si preferiscono gli occhi

Dal diario di Facebook 9 agosto 2019

Esistono posti nel mondo dove ancora la gente si prende per mano. Dove le parole contano più delle scartoffie. Dove gli sguardi contano più dei volti. Esistono posti nel mondo che sono incontaminati, dove gli uomini vivono ancora col calar del sole e col far del giorno. Posti dove ai telefonini si preferiscono gli occhi. Dove agli smartphone si preferiscono gli sguardi. Dove alle chat si preferiscono gli abbracci. Posti dove ancora i bambini giocano a pallone. Gli uomini lasciano le porte spalancate. E la gente siede al tramonto del sole. Posti dove le donne passeggiano da sole. Dove tutti si salutano. Dove si dice grazie permesso buongiorno.

Dove ci si fida. Dove ci si incontra. Dove si aprono le porte di casa e si offre da bere.

E allora oggi sono stata in questa valle. Questa valle immersa nei calanchi e nelle colline marchigiane che sembrano tappeti di lana di lino di cotone. E questo che vedete qui è #Castignano. Un piccolo piccolo piccolissimo comune in provincia di Ascoli Piceno. E allora qui c’ho trovato una donna. Marcella. Una donna che mi ha fatto fare il giro del paesello, che mi ha presentato le persone, che mi ha fatto percorrere quei marciapiedi fatti di ciottoli scavati dal tempo a piedi nudi. Una donna che mi ha condotto fino a su su in cima al duomo di San Pietro. Una donna piccolina magrolina, i capelli corti corti, e una vocina flebile flebile. Le parole le uscivano dalla bocca in un modo così naturale e per parlare usava la parte superiore, ogni volta che pronunciava una parola arricciava il labbro in su e parlava. Una donna dai modi gentili, eleganti, dolci senza essere dolciastri, una donna cauta, calma ma con un’energia addosso e una ospitalità pazzesche.

E allora giunte fin su a San Pietro, mi sono sporta dal parapetto, ho spalancato gli occhi, mi sono accesa una sigaretta, ho respirato quell’aria pulita, mi sono riempita lo sguardo di paesaggi incantevoli e l’ho ringraziata.

E così continuando il viaggio ve lo volevo raccontare.

#sbetti

Ve lo metto così di getto come l’ho scritto

Ve lo metto così. Di getto. Come l’ho scritto. Come l’ho scritto quel giorno quando di ritorno da Visso mi sono seduta su una sedia al mare, ho tirato fuori l’iPhone e ho scritto.

Oggi sono entrata nella zona rossa di Visso. In provincia di Macerata. Mi hanno fatto mettere il caschetto. Mi hanno preso. E mi ci hanno accompagnato. Siamo entrati. Il tempo di una manciata di metri, il tempo di superare quella vecchia caserma dei Vigili del Fuoco, dove c’è rimasta un’insegna e dove fuori se ne sta ancora un pupazzo a forma di pompiere, quando superato l’arco puntellato da trivelle e da bastioni di ferro, l’immagine e lo scenario sono devastanti.

Mi sono trovata davanti un paesaggio spettrale. Sembrava uno di quei paesi a fine guerra. Oppure uno di quei film a effetti speciali, dove l’uragano passa e lascia il vuoto. Entrare dentro il centro di Visso è stato come entrate in una bolla.

Il tempo pare fermo. Morto.

Non c’è più niente.

Non c’è un cazzo di nessuno.

C’e solo l’eco delle grida della gente. E c’è la furia della natura. L’ira della terra.

La collera di Dio. Uno non può fare a meno di pensare a come la natura da un giorno all’altro possa distruggerti. Possa prendersi tutto. Possa travolgerti. Possa devastarti. Ammazzarti.

E allora ricordo che oggi quando ho visto questa scena mi sono pietrificata. Mi sono sentita come quella pietra gettata lì a terra in mezzo al cimitero degli abbandonati.

Inerme. Impotente.

Senza la possibilità di poter fare niente.

Ricordo di non aver visto subito questa scena. No. Mi hanno fatto mettere il caschetto. Mi hanno accompagnato nella Zona Rossa, tempo una cinquantina di metri. Si attraversa l’arco e subito dopo la morte.

Non c’è più niente.

E allora mi sono chiesta come possa la natura ammazzare una città intera.

Ma soprattutto come si possa dopo tre anni essere ancora preso come se il terremoto ci fosse stato l’altro ieri.

Case sventrate. Immagini raccapriccianti. Finestre defunte. Porte semiaperte.

Il negozio di parrucchiera dentro c’ha ancora le sedie e gli specchi. Spettrale.

Il lattaio c’ha ancora il secchio con scritto “lavaggio ricotta”.

La casa c’ha ancora dentro il termosifone. I lampadari sospesi nel vuoto e mossi dal vento. Ancora ci stanno gli armadi sottosopra. Con dentro la roba. Coperte. Lenzuola. Panni non stesi ammuffiti dalla muffa. Ci sta lo stendino che spunta dalla finestra. Quel lampadario di un bambino che pende in giù e che nessuno può rimuovere e prendere perché anch’io ho provato ad affacciarmi, a espormi su quelle pietre ma basta una folata di vento e ti sembra che il palazzo crolli.

Che il muro scrostato orami sconquassato e devastato, rigonfio dalla pioggia e dal maltempo, ecco ti sembra che il muro cada giù, che ti caschi addosso. Rosoni rotti, capitelli spezzati. Insegne luminose tolte. Dove ci stava un bar una gelateria una pasticceria che poteva avere pure centoventi persone, di seicento metri quadri, che al mattino ti dava le paste buone, le brioche, e i croissant crema e cioccolato, ecco ora qui ci stanno soltanto le macerie. Macerie. Macerie. Nient’altro che macerie. Macerie in questo cumulo di morte che sta al centro dell’Italia ma che allo Stato non interessa. Perché Visso ha cinquecento voti e chi se ne fotte di cinquecento voti. Ce ne stavano milleduecento ma ora la gente sta partendo.

Il bar e la gelateria erano di un ragazzo che c’ha la mia età e che ho conosciuto e che c’ho parlato due ore. Perché quando mi immergo nelle storie, mi ci immergo veramente.

Voglio capire come fa questa gente a svegliarsi la mattina e trovare davanti agli occhi macerie. Case vuote. Chiese distrutte. Crocifissi divelti.

Voglio capire come uno non vada via di testa. Perché infatti la gente ci sta andando. Ho parlato con una signora che di anni ce n’ha sessantasette e che la casa, le hanno detto, è da buttare completamente giù.

Non c’è rimasto più niente. Se dovesse avere una casa probabilmente ce l’avrebbe tra vent’anni. Ma lei tra vent’anni c’ha 87 anni. Cioè capite. 87 anni. E non sai nemmeno se stai qua.

Gente che sa che non dormirà più sul proprio letto.

Gente che non vedrà più la propria cucina. Che non mangerà più sui propri piatti. Che non imboccherà più le proprie posate.

Gente che da due anni vive nelle casette e che da un giorno all’altro la furia del terremoto ha strappato via tutto. Tutto. Gente che non ha più una casa. Non ha più una famiglia riunita. Non ha più una piazza. Non ha più un panificio. Non ha più una macelleria. Non ha più un lavoro. Non ha più un’identità. Non ha più una biblioteca.

La storia è andata distrutta. La storia sta in quel cumulo di macerie che lo stato abbandona. Gente che non ricorda nemmeno quanti anni ha.

Sì. C’ho parlato con queste persone. Per alcuni il terremoto è accaduto un anno fa. Per altri due. La gente ha perso il conto dei giorni. Dei mesi. Degli anni. Sopravvive dentro scatole di latta nell’attesa di morire. A Visso di macellerie ce n’erano due, di panifici idem. Di parrucchiere ce ne stavano quattro e ci stava la banca che ora sta dentro un container. Ci stava l’ufficio postale che ora sta dentro un container. Ci stava un dentista. Che ora sta dentro un container. Ci stavano i bar. I negozi. I ristoranti. Gli hotel. Gli alberghi. Ora. Non è rimasto più niente. Zero. La gente prende arriva. Il turismo dell’orrore. Si fa i selfie e poi riparte e se ne va. E intanto la gente qui muore.

L’altro giorno è morta una vecchietta, mi dicono. Una nonna. E la casetta data dallo stato dov’era, quella che dopo due mesi aveva pure dovuto abbandonare perché dentro cazzo ci passava l’acqua, ci stava la muffa, ecco la casetta ora torna allo Stato. Le questioni ereditarie non sono State normativizzate. Ai figli non spetta nulla. Nessuno ha più niente. Niente. Se non il verde attorno. E allora immaginate come possa vivere una persona quando deve abbandonare la propria casa. Quando non può nemmeno andare a prendere le proprie cose.

Enrico quello della pasticceria, mi racconta che ci è andato con l’ascia a prendere le cose per il padre che sta alto un metro e novantaquattro e non c’aveva un cazzo da mettesse. Ecco dicevo pensate come possa vivere una persona che deve abbandonare la casa. Che forse riesce a portar via le sue cose. Che l’armadio per un anno diventa il baule della macchina. “La valigia del terremotato”, lo chiamavano quel sacco da immondizie nero. Gente che per un mese non si è lavata. Gente che c’aveva la barba da fare. Gente deportata in casa come si chiamano loro, che non ha dormito per giorni. Che a ogni piccolo movimento borbottio o rigurgito della terra, tremava di terrore.

E allora oggi io li ho visti gli occhi di quelle persone. Occhi spenti. Ancora sconvolti. Occhi freddi. Rigidi. Immagazzinati da una divisa. Occhi che ne hanno viste di tutte i colori. Che hanno visto le pompe di benzina esplodere. Che hanno visto i tombini ribollire. Occhi che non sanno che fare. Dentro le casette si vive come se si stesse un un grande villaggio. Ma non è casa. Non è casa loro. È una cosa, casa, come cazzo se chiama, temporanea. Temporanea che dura all’infinito. Terribile no. Terribile sapere che per tutta la tua vita dentro casa tua, non ci entrerai più dentro. Che quella è la tua terra. Il tuo paese. Ma che se vuoi ripartire te ne devi andare.

I ragazzi se ne stanno già andando.

Enrico per andare in palestra fa settanta chilometri. Il cinema poi vicino sta a Tolentino. A cinquanta chilometri. “Per noi è diventato normale – mi racconta – fare 50 chilometri per andare al cinema. Uno pensa in minuti poi non in chilometri. E ci metti più tempo a deprimerti che non a prendere la macchina e andare al cinema”.

Già.

Ma le persone sono devastate.

“Immagina che ricostruisci questa struttura che ti dà lo Stato – mi dice Enrico – e che ci porti dentro quelle tue poche cose che riesci a salvare. A un certo punto resisti fino a un certo punto. Ma quanto dura il carico di un cervello. In fisica c’è un punto di rottura. Qui qual è il punto di rottura? Il fatto di aver smosso le abitudini e di non avere riferimenti ti sconquassa. Molto non ricordano nemmeno l’età. Non si ricordano quanti anni sono passati dal terremoto”.

Gente che viveva su quattro piani e che ora vive su sessanta metri quadri. Ma le casette andavano bene per villaggio vacanza. Non per viverci. Qui ora ci è entrata pure la muffa. Le porte si aprono al contrario. Non ci sta un ripostiglio per la scopa. E tra poco qui scende pure il freddo. Freddo cane. Gelo. Neve. “Vogliono spopolarci”, mi dicono, così uno prende e va fuori. Noi lo sappiamo che questo centro non sarà mai ricostruito.

Il novanta per cento delle case è inagibile. Sarà buttato. Giù, la finestra del sindaco c’ha ancora la tenda di fuori.

Il Comune è stato messo dentro alla vecchia piscina comunale.

“Cosa ci è rimasto – mi chiede Enrico? / Siamo un popolo sperduto in mezzo alle montagne che non conta un cazzo. Ci è rimasto il verde. Le nostre montagne. Perché Visso era uno dei borghi più belli d’Italia. E per me lo è ancora. Ha il coraggio sfacciato di mostrarsi così. E la sede del parco naturale dei Monti Sibillini.

Visso va rimesso in piedi. E va rimesso subito.

Non molliamo!”.

Per #Storie2020

Dal diario #sbetti

Agosto 2019

#dovelaterratrema

Dentro la Zona Rossa

22 agosto 2019. Oggi mi è successa una cosa. Sono andata a pranzo con una persona. Una persona che mi ha accompagnato nella Zona Rossa. La Zona Rossa di Visso. E questi giorni vi racconterò di questa Zona Rossa, di questo Viaggio al Centro dell’ Italia, dove la terra trema.

Ve la racconterò sì, mentre l’Italia assiste al balletto dei cafoni.

Questa persona mi ha accompagnato. Divisa. Camicia. Fisico atletico. Una fascia che gli avvolgeva il braccio. Gli occhi piccoli piccoli dentro gli occhiali. Caschetto in testa e tutte le precauzioni del caso in quell’agglomerato fatto di cartoni.

Entriamo in quella zona ma fatti cinquanta metri lo scenario è raccapricciante. Apocalittico. Devastante. Sembra un paesaggio lunare, uno di quelli di quando nei film passa la furia della montagna e lascia il nulla. Spettrale. Sembra la fine di una guerra.

Allora dicevo entriamo e subito appena passato l’arco, passati quegli enormi tiranti puntellanti, ecco lì mi sono bloccata. Mi sono sentita come pietrificata. C’ho messo qualche secondo a realizzare dove fossi e cosa stessi facendo. Ma soprattutto perché. Lì per lì sono rimasta inorridita. Ammutolita. Atterrita. Non sapevo nemmeno se tirare fuori la macchina fotografica dalla custodia appesa al collo. Toccavo il pomello di quella cerniera senza sapere che fare. Ma poi. Poi mi sono fatta coraggio e ho ripensato a una frase che mi era stata detta durante un workshop da Maurizio Faraboni. Fotografando i lebbrosi Maurizio aveva detto: “Io credo che fotografando queste persone, abbia ridato loro un po’ di dignità”. E infatti la mia scelta é stata questa. Voler ridare dignità a queste persone. Volermi immergere nelle loro storie. E così lì per lì mi sono detta: “perché lo fai? Cosa vuoi dire? Che messaggio vuoi mandare?”. E in quella frase ho trovato un riposta. Guardavo le macerie e mi dicevo che quella era la mia risposta. Far parlare il deserto dei cadaveri. Quell’ammasso di macerie smembrate dalla natura.

Allora mentre tutti questi pensieri mi si affollavano in testa, capivo che questa persona che nel mentre mi accompagnava, vedeva che ero provata. Credo anche di aver lacrimato per alcuni istanti. Avevo i brividi. Volevo urlare. Ma non sapevo come fare.

Abbiamo continuato a camminare ma vedevo che a ogni scorcio lui si fermava. Tentennava. Non guardava. Tirava come il volto indietro. Come a non voler guardare. Come a non voler guardare ancora quell’apocalisse. Lui che con quell’Apocalisse ci convive. Lui che quell’Apocalisse ce l’ha davanti tutti i giorni. Lui che per la divisa deve essere forte.

Sì insomma vedevo che stava male. Che quando gli ho detto che disastro, abbassava lo sguardo.

Allora siccome mi faceva male vederlo così, a un certo punto gli ho chiesto: “ti fa male?”.

E lui. Lui lì per lì non si è sbottonato anche se in fondo lo voleva fare. Anzi. Forse si chiedeva pure e come mai una giornalista venuta da lontano gli chiedesse tutte quelle cose.

Ma poi. Poi siamo andati a pranzo e lì mi ha raccontato. E mi ha detto che vive in una casetta, ma che non è la sua casa. Che qui si sopravvive. Che questa non é vita. Che lui ha preso e ha trasferito la sua famiglia perché “che vita gli fai fare se ti svegli al mattino e hai davanti le macerie”.

Mi ha detto che quando entra lì dentro ogni volta fa un male cane.

Mi ha raccontato, accendendosi un sigaretta, che ormai lui non guarda più tante cose. Tanti formalismi. Tante cazzate. Perché quando per mesi non ti puoi lavare. Quando per giorni non puoi dormire. Quando ti trovi a dover aiutare la tua gente a cui non è rimasto niente, te ne fotti di tante sovrastrutture. Ed era pure gentile sapete. Dai modi d’altri tempi. Educato. Curato. Attento ai piccoli particolari. Forse perché quando hai visto la morte in faccia. Perché quando hai perso tutto, cominci a badare alle piccole cose. E a riprenderle in mano giorno dopo giorno. Pezzetto dopo pezzetto. Poi però. Quando gli ho chiesto perché avesse scelto di rimanere qui. E se fosse felice mi ha detto che non lo sa. Che si vedrà. E che ha scelto di stare qui a Visso. Per la sua gente. Per la sua terra. Per il suo popolo. Per il senso del dovere. Perché ha paura che abbandonando dovrebbe fare i conti con se stesso. E teme di non riuscire a perdonarselo mai.

Allora per un attimo ho pensato che deve fare le cose che più lo fanno star bene. Anzi. Gliel’ho pure detto. Poi però.

Poi però ho pensato che, in questo mondo dove tutti rivendicano diritti, sono poche le persone che fanno le cose per senso del dovere. E così con in mano quella macchinetta ho preso e ho scattato.

#sbetti

Dal diario di Facebook del 22 agosto 2019

Viaggio al centro della terra

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La tristezza. Lo strazio. I brividi che mi corrono lungo la schiena. Ho gli occhi pietrificati. Le macerie. Tutto intorno è spettrale. Quelle grida di uomini donne e bambini ancora riecheggiano nell’aria. “Vi scrivo da un paese che non esiste più”. #Visso.

Dal diario di Facebook, 21 agosto 2019

Quel borgo dove ancora la gente si prende per mano: Castignano

“La vedi questa via? Qui una volta c’erano il panificio, la macelleria, un sacco di bambini che giocavano a pallone.

Eravamo tutti qui».

La via è una rua, si chiama così qui a Castignano, un piccolo comune nell’entroterra marchigiano in provincia di Ascoli Piceno. Castignano, che prende il nome, si dice, da un grande castagno.

E chi ci parla è Dante Pieramici, uno dei pochi sopravvissuti a questo spopolamento che sventra i borghi d’Italia.

Un borgo a forma di piramide che se ne sta arroccato su una collina, ai piedi del monte dell’Ascensione, a 473 metri sul livello del mare.

Un paesetto che guardandolo dal basso, mentre con l’auto sali la strada a forma di spirale, ci vedi un imponente muraglione di tredici arcate che lo sorregge. Lì dove sprofonda nel vuoto una volta c’erano le case. Le famiglie. Un muraglione costruito per puntellare il borgo. Senza sparirebbe.

Come sparirebbero i suoi abitanti, i castignanesi, che ancora resistono e che per combattere lo spopolamento tornano al Medioevo… “…

Già perché domani a #Castignano inizia il Templaria Festival.

Il festival medievale più grande d’Italia.

E allora ricordate che vi avevo detto che qui ci avevo trovato un sacco di storie?

Che c’ho trovato Marcella che mi ha accompagnato a fare il giro del borgo fino a su in cima a San Pietro.

Lei c’ha quattro figli, tutti andati via dal borgo.

Ci ho trovato la zia di Bruna, che Bruna mo’ sta a fa la professoressa a Houston. Uno di quei cervelli che l’Italia regala al mondo. In barba al nostro Paese.

Poi c’ho trovato Dante che mi ha detto che lì, lì una volta su quella strada, ci stava il panificio, la macelleria, ci stavano loro che giocavano a pallone.

E poi. Poi c’ho visto un mondo bello.

Un mondo da raccontare.

Come ho fatto sul #Giornale.

LEGGI IL PEZZO

#sbetti 👇

http://www.ilgiornale.it/news/politica/paese-che-torna-medioevo-fermare-spopolamento-1739634.html

Comune Castignano

Il sole si stacca e spicca il volo

Questa mattina ho preso e sono andata a vedere l’alba. Gli occhi ancora assonnati. I capelli neri lisci. Una camicia di jeans indossata di fretta, ho acceso la lucetta del bagno, mi sono guardata un attimo allo specchio e alle 5.35 ho detto: “andiamo”.

Credo sia uno degli spettacoli più belli della natura, come la nascita di un figlio, il tramonto sulla spiaggia, la giraffa che allatta il figlio, il pianto di un gabbiano, un bosco pieno di foglie, l’acqua che scorre attraverso le montagne. Ma credo sia lo spettacolo della natura più perfetto. Più perfetto che ci sia.

E ogni mattina ce l’abbiamo davanti agli occhi ma gli volgiamo il culo perché meglio così. Io me la ricordo la prima volta che vidi l’alba. Erano anni fa. E rimasi sbalordita da quella palla di fuoco che cresceva a picco sul mare che d’un tratto, squat, si stacca e abbandona la madre, il mare. Come un figlio quando nasce. Come la vita quando si genera. Come un figlio quando si stacca dal corpo della madre e diventa anche lui un tutt’uno con l’universo. E allora si vede sto sole che gioca a nascondino sul mare, che se ne sta dietro le tendine, poi. Poi un cerchio perfetto, tondo tondo, ineguagliabile e completo prende e appare giusto dalla linea sotto l’orizzonte. Lì. Lì un po’alla volta, con un crescendo di secondi e di sbuffi di sigaretta, comincia a salire verso l’alto. Poi. Poi quando è nato, stac, fa tipo una piccola resistenza, una piccola goccia, un piccolo lembo di sole che resta ancora attaccato a quel mare che sa di rosa di rosso e di aurora e magicamente si stacca e spicca il volo.

Questa è l’alba.

Ed è uno degli spettacoli più belli della natura.

#sbetti

Il porto di Porto San Giorgio

Oggi sono stata al Porto di Porto San Giorgio. Me ne stavo lì intenta a guardare, a pensare, a fotografare le barche quando passano due tipi e mi dicono: “se vuoi fare delle belle foto devi andare lì, lì laggiù in fondo; aspetti il sole che tramonta dietro la collina e vedrai che spettacolo”. E così. Così ho fatto. Lui era un uomo sulla cinquantina, c’aveva il codino ai capelli, magro, rinsecchito, indossava una canotta, una di quelle che ricordano gli anni Novanta alle feste del paese. L’altro invece era un ragazzo di colore e se ne stava in bicicletta come me. Allora ho preso, ho ingranato la marcia e sono andata giù dritta fino alla coda del Porto. Con i capelli al vento. E con il sale sulla pelle. Ho parcheggiato la bicicletta, mi sono accesa una sigaretta, mi sono seduta per terra. E ho guardato il sole tramontare.

E infatti. Un po’alla volta, giusta in tempo è sceso. Sempre più. Sempre di più. Scompariva lì dietro quella collina infuocata di rosso di giallo e di arancione che sembrava esplodere. Un panettone dorato era.

Poi accanto a me ci stava un tappeto di gabbiani in riunione. Che facevano conversazione.

E allora sapevo com’era questo Porto ma oggi ho visto la parte del porto vecchio. Quello fatto di barche arrugginite. Di bulloni scrostati. Di timoni pendenti. Di barche in riparazione. Di cantieri sempre aperti. Di panni stesi tra le fila di alcuni container.

Ed è bello questo posto. Bellissimo. È un posto che sa di mare. Che sa di sale. Che sa di barche parcheggiate. Di barche che fanno l’amore l’ una accanto all’altra. Che intrecciano gli alberi. Che spiegano le vele. Che svettano i tiranti. Un posto che sa del garrito dei gabbiani. Del silenzio degli oceani. Del frusciare del vento. Dei marinai che levano l’ancora. Dei pescatori che tirano le reti. E dell’acqua che sbatte flaccida sulle pareti della banchina.

E allora me ne sono rimasta lì. Ho fatto alcune foto. Mi sono fumata una sigaretta. Due. Tre. Ho ascoltato i discorsi dei gabbiani. Ho salutato i pescatori. E ho ringraziato quei due signori per avermi condotto in un posto che altrimenti rimaneva nascosto.

E così da questa terrazza, fumando una sigaretta, ve lo volevo raccontare.

#sbetti

Mingus. Quel piccolo scrigno a bordo sul mare 🌊

Attenzione. Post per gente sensibile.

Fuori dal comune. Post per chi non si adatta e lascia sempre il segno.

Allora questa è una storia che va raccontata.

Questo che vedete qui sotto è il mio amico Domenico Pirrottina. Lui, romano di nascita ma marchigiano di adozione, è il titolare di questo “negozio” qui: Mingus.

E allora Mingus se ne sta a Porto San Giorgio in viale Bruno Buozzi. Pensate che accanto ci sta pure il kebabaro per il triste declino della nostra società. Allora dentro Mingus ci puoi trovare quel libro dimenticato, quel cd mai ascoltato, quel vinile che nessuno trova, quel tesoro di nicchia, quella foto che ti piace tanto o quel piccolo libro che tanto cercavi.

Non è un negozio per tutti. Ma dentro è tutto. Dentro è magia. Dentro è atmosfera. Dentro è un disco che va a ciclo continuo con quel movimento ipnotico che catalizza i ribelli e i sensibili. Che mette in moto i neuroni. Che affievolisce le preoccupazioni. E allora cos’e? È una piccola libreria che sta a bordo del mare in una località balneare, è un piccolo negozio di dischi tradizionali, una piccola bottega, una di quelle che ancora le passioni contano qualcosa, una di quelle che con la musica ci puoi volare, con la lettura ci puoi sognare, non una di quelle che la gente la Vigilia di Natale ci compra il regalo per l’amante da usare come fermaporte. È un luogo “catalizzatore di passioni e di emozioni” dove poter trovare tesori nascosti o dimenticati. Un negozio dove la musica la si coltiva, dove la lettura appassiona e ti si appiccica addosso come il sale che sa di mare; un negozio piccolo, dove dentro è semplicemente un sogno. Il sogno di Domenico che da piccolo voleva diventare rock star o cantautore. Il sogno di Domenico che la musica l’ha scelto. Che la musica gli sta incollata addosso. Fin da piccolo. Fin da quando sfidò fumogeni e sbirri per andare al concerto dei Police.

Un sogno riprodotto qui.

Con intere pareti scoscese di dischi, interi scaffali piene di libri, scaffali di fumetti, foto appese al muro, cimeli, agendine non commerciali. Una fucina di valori sogni e desideri, come Mingus, quel musicista genio e sregolatezza che come dice Domenico, che ha aperto il primo dicembre 2012, dove ci passano pure artisti famosi e a cui il Corriereadriatico.it ci ha dedicato recentemente un paginone, ecco “Mingus ci ha dato la spinta, la consapevolezza del creare e di accentrare in poco spazio, come una sua qualsiasi composizione, l’idea del bello e della libertà”. E infatti, Domenico, anarchico e libero, al mare ci va a Marina Palmense, dove non ci stanno gli scogli, e dove se ti sporgi puoi vedere l’infinito, quell’infinito che sembra l’oceano.

E da qui buon agosto a tutti.

#sbetti

Il sito 👉 http://www.mingus.it/chi-siamo/

Un mare pieno di conchiglie 🐚

Dal diario del 23 luglio 2018.

Dalla mia terra.

Adoro quando il mare é cattivo. Quando si agita, quando scalza, quando si increspa, quando sbatte sugli scogli e come un amante si prende sbeffeggiando la sabbia, starmene qui a guardarlo. Sì insomma in spiaggia non c’è nessuno, non ci sono i cagacazzi che fanno il défilé, non ci sono i palestrati che controllano se la zucchina mangiata a pranzo è andata a mettersi sulla chiappa destra o su quella sinistra, non ci sono i genitori maleducati di figli altrettanto maleducati che poveri hanno preso da padri e madri e non ci sono quelli che urlano fingendo di parlare di cose serie. Non ci sono nemmeno i baldanzosi che per andare a buttarsi in acqua prendono la rincorsa, ma sbagliano la mira e ti infilano il piede sulla chiappa destra mentre stai dormendo al sole. Ed è una goduria sapete. Starsene qui. Ora così. Una goduria. Sì. L’unico vocio è quello delle onde che sbattono tra di loro. Quel vorticoso suono cupo. E se ti siedi qui e te ne fotti della sabbia bagnata vedi a poco a poco il cielo che cambia. Prima blu. Poi arancione. Poi rosa. Poi viola. Poi quasi grigio. E poi vedi quelle onde che creano vampate d’acqua di vapore formando sopra il mare una sottile nebbia, una sottile nebbia d’acqua. Le onde formano tanti grossi grassi rulli che si ingrossano e si ingrassano sempre più su quel mare che prima era piatto e che ora sembra voler dire qualcosa. Poi dopo un po’ si calma. E allora adesso che ti sei calmato. Dimmi che t’è successo oggi. Che eri così inquieto e irrequieto. Perché quando tu sei così, sto così anch’io.

#buonaseratasbetti ❤️