
Ve lo metto così. Di getto. Come l’ho scritto. Come l’ho scritto quel giorno quando di ritorno da Visso mi sono seduta su una sedia al mare, ho tirato fuori l’iPhone e ho scritto.
Oggi sono entrata nella zona rossa di Visso. In provincia di Macerata. Mi hanno fatto mettere il caschetto. Mi hanno preso. E mi ci hanno accompagnato. Siamo entrati. Il tempo di una manciata di metri, il tempo di superare quella vecchia caserma dei Vigili del Fuoco, dove c’è rimasta un’insegna e dove fuori se ne sta ancora un pupazzo a forma di pompiere, quando superato l’arco puntellato da trivelle e da bastioni di ferro, l’immagine e lo scenario sono devastanti.
Mi sono trovata davanti un paesaggio spettrale. Sembrava uno di quei paesi a fine guerra. Oppure uno di quei film a effetti speciali, dove l’uragano passa e lascia il vuoto. Entrare dentro il centro di Visso è stato come entrate in una bolla.
Il tempo pare fermo. Morto.
Non c’è più niente.
Non c’è un cazzo di nessuno.
C’e solo l’eco delle grida della gente. E c’è la furia della natura. L’ira della terra.
La collera di Dio. Uno non può fare a meno di pensare a come la natura da un giorno all’altro possa distruggerti. Possa prendersi tutto. Possa travolgerti. Possa devastarti. Ammazzarti.
E allora ricordo che oggi quando ho visto questa scena mi sono pietrificata. Mi sono sentita come quella pietra gettata lì a terra in mezzo al cimitero degli abbandonati.
Inerme. Impotente.
Senza la possibilità di poter fare niente.
Ricordo di non aver visto subito questa scena. No. Mi hanno fatto mettere il caschetto. Mi hanno accompagnato nella Zona Rossa, tempo una cinquantina di metri. Si attraversa l’arco e subito dopo la morte.
Non c’è più niente.
E allora mi sono chiesta come possa la natura ammazzare una città intera.
Ma soprattutto come si possa dopo tre anni essere ancora preso come se il terremoto ci fosse stato l’altro ieri.
Case sventrate. Immagini raccapriccianti. Finestre defunte. Porte semiaperte.
Il negozio di parrucchiera dentro c’ha ancora le sedie e gli specchi. Spettrale.
Il lattaio c’ha ancora il secchio con scritto “lavaggio ricotta”.
La casa c’ha ancora dentro il termosifone. I lampadari sospesi nel vuoto e mossi dal vento. Ancora ci stanno gli armadi sottosopra. Con dentro la roba. Coperte. Lenzuola. Panni non stesi ammuffiti dalla muffa. Ci sta lo stendino che spunta dalla finestra. Quel lampadario di un bambino che pende in giù e che nessuno può rimuovere e prendere perché anch’io ho provato ad affacciarmi, a espormi su quelle pietre ma basta una folata di vento e ti sembra che il palazzo crolli.
Che il muro scrostato orami sconquassato e devastato, rigonfio dalla pioggia e dal maltempo, ecco ti sembra che il muro cada giù, che ti caschi addosso. Rosoni rotti, capitelli spezzati. Insegne luminose tolte. Dove ci stava un bar una gelateria una pasticceria che poteva avere pure centoventi persone, di seicento metri quadri, che al mattino ti dava le paste buone, le brioche, e i croissant crema e cioccolato, ecco ora qui ci stanno soltanto le macerie. Macerie. Macerie. Nient’altro che macerie. Macerie in questo cumulo di morte che sta al centro dell’Italia ma che allo Stato non interessa. Perché Visso ha cinquecento voti e chi se ne fotte di cinquecento voti. Ce ne stavano milleduecento ma ora la gente sta partendo.
Il bar e la gelateria erano di un ragazzo che c’ha la mia età e che ho conosciuto e che c’ho parlato due ore. Perché quando mi immergo nelle storie, mi ci immergo veramente.
Voglio capire come fa questa gente a svegliarsi la mattina e trovare davanti agli occhi macerie. Case vuote. Chiese distrutte. Crocifissi divelti.
Voglio capire come uno non vada via di testa. Perché infatti la gente ci sta andando. Ho parlato con una signora che di anni ce n’ha sessantasette e che la casa, le hanno detto, è da buttare completamente giù.
Non c’è rimasto più niente. Se dovesse avere una casa probabilmente ce l’avrebbe tra vent’anni. Ma lei tra vent’anni c’ha 87 anni. Cioè capite. 87 anni. E non sai nemmeno se stai qua.
Gente che sa che non dormirà più sul proprio letto.
Gente che non vedrà più la propria cucina. Che non mangerà più sui propri piatti. Che non imboccherà più le proprie posate.
Gente che da due anni vive nelle casette e che da un giorno all’altro la furia del terremoto ha strappato via tutto. Tutto. Gente che non ha più una casa. Non ha più una famiglia riunita. Non ha più una piazza. Non ha più un panificio. Non ha più una macelleria. Non ha più un lavoro. Non ha più un’identità. Non ha più una biblioteca.
La storia è andata distrutta. La storia sta in quel cumulo di macerie che lo stato abbandona. Gente che non ricorda nemmeno quanti anni ha.
Sì. C’ho parlato con queste persone. Per alcuni il terremoto è accaduto un anno fa. Per altri due. La gente ha perso il conto dei giorni. Dei mesi. Degli anni. Sopravvive dentro scatole di latta nell’attesa di morire. A Visso di macellerie ce n’erano due, di panifici idem. Di parrucchiere ce ne stavano quattro e ci stava la banca che ora sta dentro un container. Ci stava l’ufficio postale che ora sta dentro un container. Ci stava un dentista. Che ora sta dentro un container. Ci stavano i bar. I negozi. I ristoranti. Gli hotel. Gli alberghi. Ora. Non è rimasto più niente. Zero. La gente prende arriva. Il turismo dell’orrore. Si fa i selfie e poi riparte e se ne va. E intanto la gente qui muore.
L’altro giorno è morta una vecchietta, mi dicono. Una nonna. E la casetta data dallo stato dov’era, quella che dopo due mesi aveva pure dovuto abbandonare perché dentro cazzo ci passava l’acqua, ci stava la muffa, ecco la casetta ora torna allo Stato. Le questioni ereditarie non sono State normativizzate. Ai figli non spetta nulla. Nessuno ha più niente. Niente. Se non il verde attorno. E allora immaginate come possa vivere una persona quando deve abbandonare la propria casa. Quando non può nemmeno andare a prendere le proprie cose.
Enrico quello della pasticceria, mi racconta che ci è andato con l’ascia a prendere le cose per il padre che sta alto un metro e novantaquattro e non c’aveva un cazzo da mettesse. Ecco dicevo pensate come possa vivere una persona che deve abbandonare la casa. Che forse riesce a portar via le sue cose. Che l’armadio per un anno diventa il baule della macchina. “La valigia del terremotato”, lo chiamavano quel sacco da immondizie nero. Gente che per un mese non si è lavata. Gente che c’aveva la barba da fare. Gente deportata in casa come si chiamano loro, che non ha dormito per giorni. Che a ogni piccolo movimento borbottio o rigurgito della terra, tremava di terrore.
E allora oggi io li ho visti gli occhi di quelle persone. Occhi spenti. Ancora sconvolti. Occhi freddi. Rigidi. Immagazzinati da una divisa. Occhi che ne hanno viste di tutte i colori. Che hanno visto le pompe di benzina esplodere. Che hanno visto i tombini ribollire. Occhi che non sanno che fare. Dentro le casette si vive come se si stesse un un grande villaggio. Ma non è casa. Non è casa loro. È una cosa, casa, come cazzo se chiama, temporanea. Temporanea che dura all’infinito. Terribile no. Terribile sapere che per tutta la tua vita dentro casa tua, non ci entrerai più dentro. Che quella è la tua terra. Il tuo paese. Ma che se vuoi ripartire te ne devi andare.
I ragazzi se ne stanno già andando.
Enrico per andare in palestra fa settanta chilometri. Il cinema poi vicino sta a Tolentino. A cinquanta chilometri. “Per noi è diventato normale – mi racconta – fare 50 chilometri per andare al cinema. Uno pensa in minuti poi non in chilometri. E ci metti più tempo a deprimerti che non a prendere la macchina e andare al cinema”.
Già.
Ma le persone sono devastate.
“Immagina che ricostruisci questa struttura che ti dà lo Stato – mi dice Enrico – e che ci porti dentro quelle tue poche cose che riesci a salvare. A un certo punto resisti fino a un certo punto. Ma quanto dura il carico di un cervello. In fisica c’è un punto di rottura. Qui qual è il punto di rottura? Il fatto di aver smosso le abitudini e di non avere riferimenti ti sconquassa. Molto non ricordano nemmeno l’età. Non si ricordano quanti anni sono passati dal terremoto”.
Gente che viveva su quattro piani e che ora vive su sessanta metri quadri. Ma le casette andavano bene per villaggio vacanza. Non per viverci. Qui ora ci è entrata pure la muffa. Le porte si aprono al contrario. Non ci sta un ripostiglio per la scopa. E tra poco qui scende pure il freddo. Freddo cane. Gelo. Neve. “Vogliono spopolarci”, mi dicono, così uno prende e va fuori. Noi lo sappiamo che questo centro non sarà mai ricostruito.
Il novanta per cento delle case è inagibile. Sarà buttato. Giù, la finestra del sindaco c’ha ancora la tenda di fuori.
Il Comune è stato messo dentro alla vecchia piscina comunale.
“Cosa ci è rimasto – mi chiede Enrico? / Siamo un popolo sperduto in mezzo alle montagne che non conta un cazzo. Ci è rimasto il verde. Le nostre montagne. Perché Visso era uno dei borghi più belli d’Italia. E per me lo è ancora. Ha il coraggio sfacciato di mostrarsi così. E la sede del parco naturale dei Monti Sibillini.
Visso va rimesso in piedi. E va rimesso subito.
Non molliamo!”.
Per #Storie2020
Dal diario #sbetti
Agosto 2019
#dovelaterratrema
Bello ✨
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