La sinistra che criminalizzava gli Alpini, ora accetta i rave party

Rave Party Modena – ottobre 2022

Sono rimasta abbastanza colpita dalle immagini giunte da Seoul in occasione della festa di Halloween. Ma più che altro a turbarmi è stato il numero di morti. Impressionante.
Quasi contestualmente a questa immane tragedia migliaia di persone si sono ritrovate nella notte in un capannone abbandonato a Modena per un rave party. L’evento ovviamente non era stato autorizzato.
Subito il neo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha ordinato lo sgombero e ha mandato le forze dell’ordine.
In netta controtendenza rispetto al dormiente ministro Lamorgese che faceva controllare i moti obliqui ondulatori alle camionette delle forze di polizia. Imbarazzante.
Nonostante questo. Nonostante il nostro Paese,!ridotto ormai al macero, abbia un bisogno estremo di respirare il profumo della sicurezza, alla sinistra, a cui piacciono evidentemente degrado illegalità e incuria, il giusto polso del neo ministro dell’Interno non è piaciuto.
A colpirmi sono state le parole profuse, tra cui ci mettiamo anche quelle di Toscani e di tutta quella grancassa radical chic che suona le litanie rosse, ecco profuse da chi ha detto che in fondo non c’è niente di male se i ragazzi si trovano per sbrodolarsi di vomito e ubriacarsi e bucarsi e farsi fottere in mezzo a duemila persone e che i rave party li abbiamo fatti tutti, e che viva Dio questi “so ragazzi” e possono fare perfettamente quello che vogliono perché sono stati chiusi due anni.
Ora Toscani e i radical chic dimenticano forse che chiusi ci siamo stati tutti.
Ma non per questo le nostre dimore o i nostri garage sono diventati ricettacoli di sbandati dove praticare alcol sesso droga e rock’n’roll totalmente fuori controllo.
Tale codesta parte politica dinanzi all’ordine impartito dal ministro Piantedosi di sospendere l’evento, si è detta preoccupata dall’ escalation di questo governo autoritario. Da questo pugno di ferro.
Che con tutto quello che abbiamo subito quando non potevate nemmeno pisciare nel cesso di casa se per caso avevate l’abitazione a metà tra due province, mi chiedo quale escalation ci sia nell’interrompere un evento che rischia di fare morti e feriti e di far venire meno l’ordine pubblico.
Qualcuno ha detto che sono droghe leggere. Mettendo in dubbio anche la narrazione degli inviati che erano nel luogo della manifestazione e che vedevano con i loro occhi.
Qualche altro bernoccolo ha asserito che queste feste sono come i raduni degli Alpini. Dimostrando di non sapere un fico secco. Di non saper riconoscere una torta da una carcassa di letame e di non essere mai stato ne all’uno ne all’altro evento. I rave party con i raduni degli Alpini non c’entrano un tubo.
Ma come recentemente è accaduto abbiamo varie dimostranze di politicamente corretti che si sono sbracati per far sì che i raduni almeno per due anni non venissero più fatti. Con la motivazione che gli Alpini sono dei rozzi ubriaconi e invece i partecipanti ai rave party sono persone che arrivano lì con i fiorellini e le bottiglie d’acqua minerale da consumarsi rigorosamente a temperatura ambiente.
Chi ha attaccato i raduni volendoli sospendere per due anni, qui appoggia l’esuberanza e il fuorilegge di ragazzotti radunatisi in un covo abusivamente al solo scopo di drogarsi e bere.
Davvero non capisco perché continuiamo a ostinarci. Ragionare con chi non capisce le differenze è un’attività alquanto inutile.

sbetti

“Vivo accanto all’assassinio di mio figlio”

“Mamma, papà mi ha detto una bugia di 4 parole”.
“Cosa ti ha detto amore, papà?”.
“Mi ha detto che Riccardo non c’è più”.
“No amore, non ti ha detto una bugia”.
“Papà ti ha detto la verità. Riccardo non c’è più”.
Questa donna Romina Ceccato è la mamma di Riccardo Laugeni. Il ragazzo di 22 anni morto la notte tra il 13 e il 14 luglio 2019 in seguito a un incidente stradale. Lui è uno dei quattro ragazzi morti a Jesolo. L‘auto su cui viaggiavano fu speronata da una vettura guidata dal romeno Marius Alin Marinica. E per loro non ci fu nulla da fare. Morirono annegati.
Il romeno scappò e non fu possibile nemmeno sapere se fosse stato ubriaco o no.
Ho incontrato questa donna ieri mattina e ho visto una forza pazzesca.
Al collo indossa la catenina con stampata la foto del figlio. La custodia del telefono ha impressa l’immagine di suo figlio. Ogni mattina e ogni sera questa donna va in cimitero perché per lei è come fargli il letto, mi ha detto. Se non lo fa si sente in colpa.
Da quando è morto il figlio sta conducendo una battaglia pazzesca. Portata avanti con una forza che non so nemmeno dove trova. È granitica. Fiera. Dura. Piange di nascosto, non si fa vedere. Alle unghie indossa uno smalto viola. In tinta con la maglietta. Le labbra disegnano un rossetto altrettanto in tinta. Che stupenda medicina sono i colori quando dentro muori. Che stupenda medicina è fare qualcosa per gli altri quando speri di cambiare le cose. Ma le cose in Italia non cambiano. Per farle cambiare ci vuole sempre il morto. E nemmeno basta. Questa donna si trova costretta a vivere accanto all’assassino di suo figlio.
Spero che il sindaco di Musile Silvia Susanna faccia qualcosa. Il giudice che prima lo aveva messo in carcere, ora l’ha messo ai domiciliari. Perché il suo difensore ha fatto valere un errore nei termini di prescrizione. Può farlo. È la legge sciagurata che abbiamo in Italia che glielo permette. Questa donna, tanto perché qualcuno disse “giustizia è stata fatta”, ogni volta che passa il centro del paesello pensa che suo figlio è al cimitero e che lì a casa, invece, ci sta chi quella maledetta notte l’ha ucciso.
Messo ai domiciliari il 14 luglio 2019, dopo che venne trovato dagli investigatori, Marinica di anni di carcere doveva farne otto. Invece ha fatto soltanto sei giorni. Questa è la giustizia in Italia. La madre ha detto che si incatena a Roma. Questa è la giustizia che concede sconti ai delinquenti e mette in galera le persone per bene. Walter Onichini per esempio.
Per il principio per cui ogni tre mesi ai domiciliari ci sono 45 giorni di sconto di pensa, al romeno di anni gliene mancano 4. Ma la legge prevede che sotto i 4 anni la pena sia sospesa. Mettici tutti gli errori della Madonna. Il romeno è fuori. Quando l’ho sentita e le ho chiesto cosa ricordasse di quella notte mi ha risposto: “ricordo che mia figlia mi ha detto: Papà mi ha detto una bugia di 4 parole”. “Quali amore?”
“Riccardo non c’è più”.
“Papà non ti ha detto una bugia figlia mia. Papà ti ha detto la verità”.
Mi vergogno a essere italiana ha scritto questa donna. Sinceramente anche io.
La mia intervista su Libero 👇

sbetti

Libero 23 ottobre 2022

Romina Ceccato è la mamma di Riccardo Laugeni, il ragazzo di 22 anni morto la notte tra il 13 e il 14 luglio 2019, in seguito a un incidente stradale a Jesolo, nel veneziano. Morirono in quattro quella notte. Oltre a Riccardo: Leonardo Girardi, Eleonora Frasson e Giovanni Mattiuzzo. Solo una ragazza si salvò. Avevano tutti tra i 22 e i 23 anni.Rientravano da una serata quando l’auto guidata dal romeno Marius Alin Marinica speronò la loro vettura. L’auto dei giovani si capovolse e finì in un canale. Per i quattro non ci fu nulla da fare. Morirono annegati. Il romeno scappò. Ci pensarono gli investigatori a rintracciarlo. La Cassazione la settimana scorsa ha confermato la pena di otto anni per omicidio stradale ma essendo ai domiciliari dal 14 luglio 2019 – per il principio che prevede lo sconto di pena di 45 giorni ogni tre mesi ai domiciliari – di anni gliene mancano 4 e la legge prevede che possa essere sospesa la carcerazione. Il giudice aveva deciso di condurlo in carcere, ma il legale dell’investitore ha presentato ricorso per un errore nei termini di notifica dell’ordinanza di carcerazione. La procura di Venezia lo ha accolto e il romeno è stato scarcerato.

Come ci si sente a sapere che l’investitore di suo figlio è ai domiciliari. “Una delusione. Ci sentiamo presi in giro. Non avevamo bisogno del contentino. E poi è stato messo ai domiciliari a Musile di Piave, dove abitano le vittime”.

Come a Musile? “Sì, potrà fare richiesta di fare lavori di pubblica utilità qui in paese, auguro ai cittadini che qualora lo vedessero, provino a mettersi nei nostri panni. Spero che l’amministrazione comunale non gli faccia fare servizio qui”.

Abita vicino a voi? “In centro. Qui vicino”.

Lei lo incontra mai? “Lo vedo in terrazza. La mamma di una delle vittime ha preso degli insulti”.

Dopo che le ammazzato il figlio? “Sì. Lui abita sopra una banca, io devo andare altrove a prelevare perché lì ci abita l’assassino di mio figlio? A lei sembra normale? Come fai a continuare ad andare in centro sapendo che lì c’è chi ha ucciso tuo figlio? Mio figlio è in cimitero e lui è a casa”.

Cosa chiede? “Chiedo di essere ricevuta dalle istituzioni e se nessuno lo farà, andrò a Roma e mi incatenerò. Chiedo a sindaci, assessori, al presidente Luca Zaia se possano ascoltare questi genitori per far sì che la legge possa fare giustizia”.

Non c’è mai stata coincidenza tra giustizia e legalità. “No. Ma se qualcuno ha commesso un errore nei termini perché non deve pagare?”.

Chi ha sbagliato? “A noi è stato detto che con la scusa dei quattro anni la pena viene sospesa. È stato condannato con rito abbreviato, si rende conto?”.

Quando è finito in carcere? “Il 14 ottobre scorso e il 20 è stato liberato. Ha fatto sei giorni. Praticamente un giorno a testa per i ragazzi e per la sopravvissuta, anche lei è una vittima”.

La vita di ciascuno vale un giorno. “Sì secondo chi ha dato questa pena sì. La vita delle persone vale un pezzo di carta”.

Eppure qualcuno ha parlato di giustizia fatta.“Ma quale giustizia? Ognuno vive il proprio lutto alla propria maniera. Io vado in cimitero la mattina e la sera perché per me è come fargli il letto. Se non lo faccio mi sento in colpa. Gli incidenti poi sono sempre più”.

Come quello di Francesco Valdiserri. “Sì, chi l’ha investito da ubriaca è ai domiciliari. Stiamo scherzando?”.

Marinica era ubriaco? “Non si è nemmeno fermato. E loro sono rimasti lì ad annegare. Sa cosa significa annegare? Io vorrei chiederlo ai giudici. E se fosse stato vostro figlio?”.

Cosa ricorda di quella notte? “Mio marito è luogotenente dei carabinieri. Fu avvisato dai colleghi. Io ero tranquilla perché mio figlio mi aveva detto che andavano a mangiare la pizza da Eleonora – una delle vittime ndr. Poi in pronto soccorso ho sentito mio marito dire: “Riccardo non c’è più”. Io chiedevo è morto? È morto? Non ricordo più nulla, mi sono svegliata con i macchinari addosso. Mia figlia mi disse: “Papà mi ha detto una bugia di 4 parole”. “Quali?”, “Riccardo non c’è più”. “No, le risposi, papa non ti ha detto una bugia, è la verità”.

Serenella Bettin

Sono tornati gli imbecilli

Sono tornati gli imbecilli. È accaduto che all’Università La Sapienza di Roma quattro zecche, antifascisti più fascisti dei fascisti, in occasione dell’incontro con Daniele Capezzone e il deputato di Fratelli d’Italia Fabio Rosciani, abbiano iniziato a inscenare la protesta al suon di “fuori i fascisti dall’Università”.
Una roba trita e ritrita che va di moda tra le zecche, in cui ti chiedi veramente chi siano i fascisti e chi gli anti.
Era accaduto anche a Fausto Biloslavo all’Università di Trento. Era andato lì per parlare di Libia. Per far vedere come stanno questi disgraziati dentro le prigioni e i ragazzotti di sinistra mantenuti da mammà e papà lo hanno aggredito.
Avevano appeso uno striscione all’ingresso con lo slogan “fuori i fascisti dall’università”. E fatto girare un volantino con la foto di Fausto a testa in giù.
Ieri invece hanno cercato di irrompere dentro al convegno regolarmente autorizzato che si stava svolgendo all’interno della facoltà di Scienze Politiche. Ci sono stati scontri tra polizia e studenti. Manganellate. Qualche pugno sui denti. Una ragazza ha preso una manganella sul volto.
E come al solito passa il messaggio che la polizia è brutta e cattiva è che invece quattro facinorosi antifascisti possano impedire lo svolgimento del convegno perché lor signori non sono d’accordo col governo DEMOCRATICAMENTE ELETTO. Roba da far venire i brividi. Fosse stato il contrario, ossia che facinorosi di destra avessero impedito un convegno di sinistra, sarebbero arrivati come minimo l’esercito, i caschi blu, la NATO, l’FBI. Invece siccome sono i ragazzotti dei centri sociali, puoi anche lasciarli fare perché deve essere garantita la libertà di opinione. La loro. Soltanto la loro.
Ora voi capite che siamo in presenza di una massa di cretini e dementi. Compresi quelli che ci vanno dietro.
Gente altamente spostata di testa. Che piscia sulle vetrine degli industriali mentre la madre va in giro con la pelliccia di visone. Questo credono che l’Università sia roba loro, che si possano prendere il lusso e permettere lo sfregio di impedire un dibattito. Di interrompere la circolazione di idee. Di negare libertà di parola. Di pensiero. Di espressione. Del resto io la conosco sta gentaglia. Vai bene fino a quando sei come loro. Tutti quelli che escono dal seminato, chiunque non si allinea al loro pensiero, alla propaganda del main stream è un insetto da eliminare.
Fino a che vi va bene.

#sbetti

Otto anni per aver ucciso 4 vite. Ma quale giustizia

Capite perché l’ Italia è un Paese completamente finito. Ridotto con le pezze al culo.
Hanno poco i giornali del mainstream da scrivere: “Giustizia è stata fatta”. Ma giustizia di cosa?
L’altro giorno apprendo una notizia che mi lascia alquanto perplessa. Ma sto zitta. Non dico niente. Era talmente grossa che mi pareva na balla. Non avendo tempo di indagare perché presa da altri servizi, la metto in un cassetto.
La notizia riguarda l’incidente avvenuto tre anni fa a Jesolo in cui sono morti quei quattro poveri ragazzi.
Era la notte tra il 13 e il 14 luglio 2019.
Me lo ricordo quel giorno. Dio se me lo ricordo. Morirono in quattro. Riccardo Laugeni, Leonardo Girardi, Eleonora Frasson e Giovanni Mattiuzzo. Solo una ragazza si salvò.
Avevano tutti tra i 22 e i 23 anni.
Rientravano da una notte passata nei locali della movida jesolana. Come è tipico di tutti i giovani.
Mentre facevano ritorno a casa, un’auto guidata dal romeno Marius Alin Marinica speronò la loro vettura.
La travolse facendola finire fuori strada contro un palo della luce. L’auto dei giovani si capovolse e finì nell’acqua di un canale.
Per i quattro non ci fu nulla da fare.
L’investitore Marinica non si fermò. E scappò.
A maggio dell’anno scorso la difesa del romeno Marius Alin Marinica chiese di portare la condanna a sei anni con le attenuanti generiche. Le attenuanti.
Anche di quel giorno mi ricordo. E me lo ricordo perché assistetti a un altro incidente, complici l’alta velocità e la distrazione. Mi chiesi come la giustizia potesse permettere a una persona che avesse ucciso quattro ragazzi di chiedere uno sconto di pena.
Nessuno sconto invece per quei genitori che giungono nei luoghi degli incidenti a cui manca la terra sotto i piedi. La loro vita in quell’esatto istante cambia totalmente. Nulla sarà mai come prima.
Quante volte ho visto quelle vite a terra. Quei genitori piangere sopra quei corpi. Gli strazi sono impossibili da descrivere.
Ora. È notizia dell’altro giorno che Marius Alin Marinica è stato condannato a 8 anni di reclusione per omicidio stradale.
La Cassazione ha confermato la sentenza. Otto anni. Otto.
Otto anni per aver ammazzato 4 persone in un solo colpo. Cioè la vita di ognuno di loro vale due anni della sua.
Ma la tragedia, oltre a quella già avvenuta della perdita, è che colui che ha investito i ragazzi, questo tale Marinica, forse non farà un giorno di carcere. Orbene.
Condannato a otto anni, ed essendo ai domiciliari, i domiciliari capite, i domiciliari, dal 14 luglio 2019 – in virtù del principio che prevede lo sconto di pena di 45 giorni ogni tre mesi ai domiciliari – a Marinica di anni gliene mancano 4. Quattro.
E quando la pena è inferiore a quattro anni, la legge prevede che possa essere sospesa la carcerazione. Non è finita.
Stamattina apro i giornali locali e leggo che l’investitore invece è stato condotto in carcere. Qualcuno tratta la notizia come Alleluia. Alleluia. Quando di “Andate in pace” non c’è proprio niente. Vero sì che l’investitore è stato condotto in galera, ci mancherebbe altro, ma ci è finito dentro tre anni dopo. E quel calcolo per cui potrebbe anche uscire non è una balla. Il suo avvocato potrebbe anche decidere di farlo valere.
Checché se ne dica e venga fatto sembrare come “giustizia è stata fatta”.
Ora scusate. E qui chiudo. Ma la mia mente in queste ore va a Walter Onichini. Walter Onichini è quel macellaio che il 22 luglio 2013 sparò al ladro che gli era entrato in casa, ferendolo. Poi lo caricò nella sua auto e lo abbandonò in un campo.
Lo fece per difendere la famiglia.
Dopo anni di processi e torture mediatiche Onichini ora è in carcere condannato a 4 anni e 11 mesi. Il ladro in questione è vivo. E latitante.
La moglie Sara Scolaro lotta e combatte ogni giorno.
L’investitore invece che ha ammazzato questi quattro giovani potrebbe anche uscire dal carcere.
Questa è la giustizia in Italia.
Paese totalmente irriformabile.

#sbetti

Un processo per un petto di pollo 🍗

Mi piace vivere nel Paese dei polli.
Questa mattina apro i giornali e apprendo dalla cronaca locale veneziana che il tribunale di Venezia si starebbe occupando di un caso riguardante il furto di un petto di pollo da parte di un romeno. La vicenda risale alla primavera del 2015, sette anni fa, quando l’imputato, un 37 enne di nazionalità romena, al supermercato rubò una confezione di pollo per il valore di tre euro. Pollo che nel frattempo in sette anni ovviamente è andato a male.
Ora stamattina, lì per lì, quando ho letto questa tragica notizia mi è venuto da sorridere.
Poi però ho provato un certo imbarazzo nel sapere che la giustizia italiana, con tutte le magagne che abbiamo in Italia appunto, impieghi tempo risorse e denaro per imbastire un processo riguardante un petto di pollo.
Non so manco se il pollo sia assunto come teste. Ma al di là dell’ironia, questa faccenda finita in cronaca paesana fa riflettere, perché denota l’andamento macchiettistico a tratti commediante dello Stato in cui viviamo.
La Procura aveva deciso infatti coscienziosamente di chiudere il caso, ma la difesa dell’imputato ha presentato opposizione. E si sa che la legge, fatta da chi nei tribunali non ci ha mai lavorato, va rispettata.
Allora mi chiedo, ma con tutti quei casi che meriterebbero essere conclusi o riaperti una volta per tutte. Con tutte quelle vittime che attendono giustizia. Con tutti quei delinquenti che abbiamo in giro e che fanno ben peggio che rubare un petto di pollo, con gli stupratori liberi, i delinquenti veri ai domiciliari, con i rom a cui il nostro Stato ha con benevolenza e magnitudine concesso la percezione del reddito dei poltronari, con i tribunali in carenza di personale, con le lungaggini delle cause e dei processi, con i processi che non sono mai equi ma più legali che giusti, con i palazzi di “Giustizia” dove chiunque può entrare e chiunque può uscire, con i corridoi pieni di faldoni sul pavimento, ecco la legge consente che si instauri un processo su un petto di pollo.
Che come è tristemente noto, ormai, conserva solo gli ossi.

Ah l’aggravante della violenza è aver strappato la placca anti taccheggio che nei polli non ho mai visto.

Dalla giustizia lagunare è tutto.

#sbetti

La disperazione negli occhi

Servizio andato in onda su Controcorrente Rete 4

La disperazione negli occhi.
Sono piombata qui, in questo ristorante a Rossano Veneto in provincia di Vicenza e ho visto un uomo piangere.
Era l’altro giorno. Era dopo mezzogiorno.
Quando sono entrata avevo subito notato l’eleganza, la cura maniacale dei particolari, il modo premuroso con cui erano sistemate le sedie, il modo riguardoso con cui erano state posizionate le forchette, il modo con cui i camerieri ti versavano l’acqua.
Mi volto. Uno sguardo in giro. E noto i legni intarsiati, fatti a mano, le decorazioni di zucca, gli abbellimenti con i colori dell’autunno; noto le credenze, i pomelli d’ottone, i manici dorati, le sedie trapuntate di rosa, il legno che accarezza il soffitto.
Cerco con l’occhio il titolare. Lo riconosco subito. Maglione verde, occhiale rosa sulla punta del naso quando non deve leggere, sa il menù a memoria, gestisce la sala come il direttore gestisce la sua orchestra. I camerieri, i baristi, i cuochi, i lavapiatti, le cameriere, l’addetta ai conti.
E inizio a fargli qualche domanda.
Mi dice che ha problemi con le bollette. Che quest’anno sono troppo alte. Che da 1200 euro è passato a 8 mila. Che lui ha 5 dipendenti. Che altri sono a chiamata.
Che così è impossibile andare avanti, anche se alzi di qualcosina i prezzi, il rialzo non riuscirà mai a coprire il rincaro.
Lo vedo mettersi le mani sulla testa. Non riesco a dire nulla. Lo faccio parlare. Intanto mi esplode una musica di rabbia dentro.
Lascio che le parole gli escano di bocca come defluisce l’acqua sul ruscello. Carte alla mano mi fa vedere le bollette. Evidenzia per bene gli importi. Come a crocefiggersi. A farsi ancora più male. E a ogni numero era una mazzata. Un chiodo fisso che si piantava.
Mi fa vedere i frigoriferi sempre accesi. Le celle frigo. I forni. La lavastoviglie accesa 24 ore su 24. Mi fa fare il giro della cucina, mi porta ovunque. Lo vedi che un po’ alla volta si lascia andare. Mi dice che l’attività è della famiglia. Mi porta a vedere una foto, una di quelle di dove si vede il locale com’era tanti anni fa e tutti gli ampliamenti che avevano fatto negli ultimi anni. Questo è un ristorante nato per cresime, battesimi, ma lui prevede di rimanere aperto fino a Natale.
Mi porta su per le stanze del ristorante, quelle dove facevano – fanno dipende – le feste. Quelle dove ancora non c’era il covid e il mondo sembrava un’altra persona. Mica come quello di adesso che è diventato uno zoticone farabutto. Sopra nelle stanze ci vedo le sedie intarsiate, impomatate, laccate, ci scopro i bouquet antichi d’oro e d’ortensia, ci vedo i lampadari raffinati, i quadri, i ricordi, a terra ci sta ancora qualche tappo di qualche festa.
Poi. Poi scendiamo. Torniamo giù. E mi fa vedere una foto.
Lì, la musica si increspa, la sua anima anche, a me viene il nodo in gola. Gli chiedo da quando è aperto, lui mi risponde da mezzo secolo. Gli dico che è una tradizione di famiglia. Sì: “la famiglia di mio padre ha sempre fatto da mangiare”. Mi fa vedere la foto di sua madre. Di suo padre. Una di tutta la famiglia intera. Rivedo la sua mente ripercorrere alla velocità della luce la sua vita. Il suo ristorante. La sua attività. Quella che ha accudito come si accudisce una figlia. La musica si fa sempre più intensa. I violini della disperazione hanno ricominciato a suonare.
Gli chiedo che effetto gli fa vedere oggi tutto questo. E lì silenzio. I violini scendono. Rallentano. La musica si calma. Lui tira su il fiato. Gli occhi iniziano a lacrimare. Le sue mani reggono quella foto. Lo lascio fare. Lo guardo negli occhi. Lacrimano.
Avrei voluto mettergli una mano sulla spalla ma non ne ho avuto il coraggio…

Il mio reportage andato in onda su Controcorrente Rete 4 lo trovate su Mediaset Infinity

Qui sotto il link. Ripreso anche da Tg Com 24

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/il-paesino-che-muore-di-crisi_F311547501041C01

👉 https://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/veneto/il-paesino-che-muore-per-il-caro-bollette_55983785-202202k.shtml

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Lo “sparaletame” è l’arma preferita di chi non ha niente da dire

Rula Jebreal

Sinceramente le vaccate speravo di averle udite tutte in questa squallida campagna elettorale. Invece evidentemente mi sbagliavo.
Erano rimasti ancora dei colpi in canna, ultimi scampoli da spalmare in faccia.
È infatti noto come lo “sparamerda” sia stata l’arma più potente di tutto il periodo pre elettorale in una lotta continua fatta solo per infangare e denigrare l’avversario.
I perdenti fanno così. Quando sentono che stanno per perdere e i risultati sono ormai decisi, anziché costruire e proporre soluzioni alternative, tendono a sfottere l’avversario, calpestarlo, prenderlo per i capelli, tendergli la mano e buttarlo direttamente giù dal burrone.
Detto ciò i tiratori di letame sono tornati in auge.
Insomma che è accaduto.
È accaduto che Rula Jebreal, divenuta icona simbolo dei radical chic e di tutta quella gente perbenista che se può tirarti giù dal burrone ti ci tira, ha espresso in un tweet tutta l’infamia che una donna – le donne sono l’asso di coppe per queste cose – possa partorire.
Attaccando il video dello stupro condiviso da Giorgia Meloni ancora un mese fa – meglio tardi che mai – ha scritto: “Durante la sua campagna elettorale la nuova premier italiana ha diffuso un video di stupro insinuando che i richiedenti asilo siano criminali che vogliono sostituire i cristiani bianchi.
Ironicamente, il padre della Meloni è un noto trafficante di droga/criminale condannato che ha scontato una pena in un carcere spagnolo”.
Bam. Senso del discorso? Zero.
Ora non si capisce bene il senso di inveire contro una donna e di andare a tirare fuori dal cestello dei panni sporchi cose vecchie, di una infanzia sofferta, mai vissuta, e per di più di famiglia.
Detto soprattutto da una persona che si erge a paladina dei diritti di tutti.
Dove sono finiti i principi di non colpevolezza? La responsabilità penale è personale? Lo Stato di diritto? Il principio di legalità? Il famoso: “i figli non paghino le colpe dei padri”.
Ma soprattutto mi chiedo, con tutta quella gente che accogliamo qui in Italia e che ne combina di tutti i colori, dobbiamo assistere agli attacchi misogini della stampa estera.
La Meloni ovviamente ha palesato la querela. E Rula insiste: “Il giorno dopo che Meloni ha minacciato di farmi causa per un tweet, i media hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino”.
Io veramente non capisco chi sia il razzista e il misogino. Vedo solo tanta tristezza.

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