
La disperazione negli occhi.
Sono piombata qui, in questo ristorante a Rossano Veneto in provincia di Vicenza e ho visto un uomo piangere.
Era l’altro giorno. Era dopo mezzogiorno.
Quando sono entrata avevo subito notato l’eleganza, la cura maniacale dei particolari, il modo premuroso con cui erano sistemate le sedie, il modo riguardoso con cui erano state posizionate le forchette, il modo con cui i camerieri ti versavano l’acqua.
Mi volto. Uno sguardo in giro. E noto i legni intarsiati, fatti a mano, le decorazioni di zucca, gli abbellimenti con i colori dell’autunno; noto le credenze, i pomelli d’ottone, i manici dorati, le sedie trapuntate di rosa, il legno che accarezza il soffitto.
Cerco con l’occhio il titolare. Lo riconosco subito. Maglione verde, occhiale rosa sulla punta del naso quando non deve leggere, sa il menù a memoria, gestisce la sala come il direttore gestisce la sua orchestra. I camerieri, i baristi, i cuochi, i lavapiatti, le cameriere, l’addetta ai conti.
E inizio a fargli qualche domanda.
Mi dice che ha problemi con le bollette. Che quest’anno sono troppo alte. Che da 1200 euro è passato a 8 mila. Che lui ha 5 dipendenti. Che altri sono a chiamata.
Che così è impossibile andare avanti, anche se alzi di qualcosina i prezzi, il rialzo non riuscirà mai a coprire il rincaro.
Lo vedo mettersi le mani sulla testa. Non riesco a dire nulla. Lo faccio parlare. Intanto mi esplode una musica di rabbia dentro.
Lascio che le parole gli escano di bocca come defluisce l’acqua sul ruscello. Carte alla mano mi fa vedere le bollette. Evidenzia per bene gli importi. Come a crocefiggersi. A farsi ancora più male. E a ogni numero era una mazzata. Un chiodo fisso che si piantava.
Mi fa vedere i frigoriferi sempre accesi. Le celle frigo. I forni. La lavastoviglie accesa 24 ore su 24. Mi fa fare il giro della cucina, mi porta ovunque. Lo vedi che un po’ alla volta si lascia andare. Mi dice che l’attività è della famiglia. Mi porta a vedere una foto, una di quelle di dove si vede il locale com’era tanti anni fa e tutti gli ampliamenti che avevano fatto negli ultimi anni. Questo è un ristorante nato per cresime, battesimi, ma lui prevede di rimanere aperto fino a Natale.
Mi porta su per le stanze del ristorante, quelle dove facevano – fanno dipende – le feste. Quelle dove ancora non c’era il covid e il mondo sembrava un’altra persona. Mica come quello di adesso che è diventato uno zoticone farabutto. Sopra nelle stanze ci vedo le sedie intarsiate, impomatate, laccate, ci scopro i bouquet antichi d’oro e d’ortensia, ci vedo i lampadari raffinati, i quadri, i ricordi, a terra ci sta ancora qualche tappo di qualche festa.
Poi. Poi scendiamo. Torniamo giù. E mi fa vedere una foto.
Lì, la musica si increspa, la sua anima anche, a me viene il nodo in gola. Gli chiedo da quando è aperto, lui mi risponde da mezzo secolo. Gli dico che è una tradizione di famiglia. Sì: “la famiglia di mio padre ha sempre fatto da mangiare”. Mi fa vedere la foto di sua madre. Di suo padre. Una di tutta la famiglia intera. Rivedo la sua mente ripercorrere alla velocità della luce la sua vita. Il suo ristorante. La sua attività. Quella che ha accudito come si accudisce una figlia. La musica si fa sempre più intensa. I violini della disperazione hanno ricominciato a suonare.
Gli chiedo che effetto gli fa vedere oggi tutto questo. E lì silenzio. I violini scendono. Rallentano. La musica si calma. Lui tira su il fiato. Gli occhi iniziano a lacrimare. Le sue mani reggono quella foto. Lo lascio fare. Lo guardo negli occhi. Lacrimano.
Avrei voluto mettergli una mano sulla spalla ma non ne ho avuto il coraggio…
Il mio reportage andato in onda su Controcorrente Rete 4 lo trovate su Mediaset Infinity
Qui sotto il link. Ripreso anche da Tg Com 24
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