Qui non c’è anima viva. Tutto avrei pensato ma non di finire su un gommone in mezzo a un fiume

Bacchiglione – dicembre 2022

Tutto avrei pensato ma mai di finire su un gommone di un metro in mezzo a un fiume…

Qui non c’è anima viva. Arrivo sul posto che è mattina presto. Attorno a me solo due anziani che si prendono per mano e iniziano la loro camminata.
Il cielo ha i colori del grigio opaco. Sembra fioco. Rauco. Roco. Velato. Ha i contorni della forza dell’acqua. Il Dio del Mare. Assomiglia tanto a Poseidone che con voce contorta e contratta ti invita a salire.
Il pulito e il cristallino della primavera andata ha lasciato spazio a una scala di grigi che si tinge dell’acquerello sporco. Si fa di nero. Di grigio. Di marrone scuro. Di blu. Di giallo verdognolo. Di violaceo. Ogni tanto qualche barlume di sole che ti salva dal freddo gelido e impertinente di una mattinata di inizio inverno.
Il click dell’accendino mi arroventa il polpastrello. La fiammella con cui accendo la sigaretta mi riscalda il volto. Sento il freddo inondarmi il corpo. Lo sento penetrarmi le ossa. Le mani. Il naso. La bocca. Lo sento scendere giù fino alle ginocchia. Mi prendi i polpacci. Le caviglie. I piedi. L’alluce è intirizzito dal lieve dolore. La temperatura in queste zone la mattina scende sotto lo zero. Le acque sono sporche. Gli alberi se ne stanno impilati come fucili nell’attesa che passi l’inverno e possano tornare a caricare le loro pallottole.
Sono fiori che nascono crescono maturano. Si gonfiano di ingordigia e godimento in un valzer rapace di fiori e frutti.
Più avanti mi aspetta un pescatore. È uno dei migliori d’Italia. Usciamo in barca. Il freddo mi si riversa addosso. Ma ascolto. Mi ci appassiono.
E non ci penso. Penso soltanto a quello che mi sta per raccontare. Il resto è un’altra storia…
Il mio servizio su Rete 4 Mediaset

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Il mio servizio lo potete rivedere su Mediaset Infinity 👇

🎥 Riprese di Carlo Brotto & Simon Barletti

Guarda “L’invasione dei pesci siluro” su Mediaset Play
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Non sento più il Natale, sarà il lercio di questi bassifondi

Asolo – dicembre 2022

Ultimamente non sento più il Natale. Non lo sento più. Non lo so. Sarà questo lavoro. Che te lo senti dentro. Che te lo porti appresso. Sarà questo tempo divorato dal tempo che passa. Questa voglia di vivere tutto. Fino in fondo. Questa voglia di mangiarci il tempo prima che lui mangi noi. Sarà questo continuo flusso di storie dolorose, problematiche, macigni dell’anima, tormenti, rabbie, ingiustizie, timori. Sarà questo lercio mestiere che ti spinge a penetrare i bassifondi, miseria, vizio, criminalità, quando sai che si può andare ancora più in fondo.
Mi sforzo anche di sentirlo questo benedetto Natale ma non ci riesco. Non ce la faccio. Sono lì che mi concentro e gli dico “Ti prego. Fammi sentire. Fammi sentire qualcosa”.
Niente. Zero assoluto. Resiste a tutto. Agli urti. Ai pugni. Ai calci. Ai sorrisi. Alle tensioni. Ai colpi. Agli scoppi.
Vorrei dirgli al Natale prendi una lametta, tagliami il braccio, fammi sentire che ci sei. Fammi il solletico. Ma fa qualcosa. Ma niente. Nemmeno la lama. Nemmeno la mano che pigia sulla schiena. Nemmeno un alluce che fa solletico sui piedi ai piedi di un letto sfatto con la valigia sul pavimento. Niente di niente.
Sarà che quando fai questo lavoro ringrazi Iddio di farlo. Non ti devi preoccupare di cosa fare l’ultimo dell’anno. Natale. Pasqua. Capodanno. Vigilia. Quando tutti si trovano e durante l’anno manco si guardano.
Così ogni anno cerco di sentirlo questo Natale che entra così prepotentemente dentro le nostre vite. Ogni anno sempre prima. Dal venti novembre siamo passati a fine ottobre perché – sai c’è voglia di muoversi – c’è stato il covid – tengo famiglia – la gente ha bisogno di fare festa – di sentire leggerezza – hashtag #aspettandomerrychristmas. Ma niente, non ci sente. Non lo sento. Gli dico di prendermi. Di afferrarmi. Di inondarmi di luci colori suoni e non si fa sentire. Passo accanto agli alberi di Natale che quasi tento di sorridere. Vedo le terrazze addobbate a festa. Vedo gli alberelli affacciarsi alle finestre.
Anche in redazione è apparso un alberello bello bello che ti sbatte lievemente in faccia che diamine suvvia il Natale è arrivato. Che aspetti sbetti. Muoviti. Con quei cioccolatini e quella bottiglia.
Sono piccoli frame che si ripetono. La prima palla di Natale. Il primo albero. Il primo fiocco di neve che ti sbatte sul volto. Il primo alberello a ricordarti schiaffeggiandoti che il Natale è alle porte. Come fossi sul ring. Come se mi prendesse e a piccole dosi me lo facesse assaporare. Come uno schiaffo. Che non fa male. Come a direi. “Dai ma come fai a non vedermi”. Pellicole già viste che si ripercuotono nel flusso della vita. E poi mi dico: “vabbè dai ogni anno sempre la stessa solfa”.
Però l’altro giorno passavo davanti una casa. E ho visto un ragazzo cresciuto, fare l’albero con il nonno. Il nonno prendea i rami e lui li avvolgea coi fili. E più lì prendeva più lì riavvolgeva. E poi le luci. Matasse di luci colorate. “Prova quelle. Prova queste. Controlla se vanno ancora dall’anno scorso”. E poi i rami. Gli addobbi. Le stelle. Il freddo che ti penetra le ossa. Ti arrossisce il naso. Ti irrigidisce i polpastrelli. Quel bambino divenuto ragazzino che quando era piccolo il nonno si accovacciava per guardarlo. Ora era lui che si accovacciava sul nonno. In una danza magica ricordandogli che “è quasi Natale”.
Quando mi sono voltata ho pensato: “Già… è quasi Natale… del resto questo è il flusso della vita…”

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Qatargate: uno schifo assurdo

Questa roba del Qatargate è una roba di uno schifo assurdo.
Ma unico proprio.
E non mi meraviglio nemmeno che venga da una parte politica che sempre si è lavata la bocca difendendo i diritti di tutti e poi piantandola sul deretano alle persone per bene.
Del resto conosco questa gente. Ci sono passata. Questa è gente che difende i diritti di tutti, degli ultimi, degli oppressi, dei migranti, che davanti ti fa vedere una cosa e dietro ne fa un’altra. (A proposito tra poche ore su La Verità c’è un mio pezzo sul prete che fa soldi).
Insomma è accaduto che la procura federale belga, a luglio scorso, abbia dato avvio a un’indagine chiamata QatarGate appunto, nome liberamente ispirato allo scandalo Watergate, e che abbia smascherato un giro di soldi assurdo fatto solo per rabbonire l’immagine del Qatar nei confronti dell’Ue.
Lo scandalo è stato definito uno dei peggiori scandali nella storia del Parlamento Europeo.
Le accuse formali sono di associazione a delinquere, riciclaggio e corruzione. E la procura sospetta che a “persone dentro al Parlamento Europeo siano state pagate grosse quantità di soldi o abbiano ricevuto regali significativi per influenzare le decisioni del Parlamento Europeo” riguardo al Qatar.
Cioè il Qatar avrebbe detto: “noi vi diamo tot soldi. E voi non ci rompete i coglioni”.
Il Qatar, a differenza di quanto crede la sinistra che si indigna solo se la sottoscritta intervista James Bolsonaro, infatti non è che sia così clemente con i diritti di tutti. Compie già sistematiche violazioni dei diritti umani soprattutto sui lavoratori migranti che hanno costruito grattacieli e stadi per i Mondiali. Inoltre ha da sempre problemi col riconoscimento dei diritti delle donne e del mondo Lgbt.
Ai nostri europarlamentari di sinistra avrebbe detto: “chiudete un occhio che altrimenti qui ci fanno il culo”. Ed è qui che arriva lo schifo.
La sinistra che tanto si lamenta dell’Italia omofoba è razzista e che si prodiga per gli ultimi e che piange per i profughi, avrebbe accettato la richiesta in cambio di mazzette ed è così che il Qatar diventa lo Stato più buono del mondo, anche più dell’Italia.
Il 21 novembre scorso, infatti la parlamentare belga Maria Arena – ma ce ne sono tanti altri – molto legata a Panzeri, eletta col Partito Socialista belga, aveva elogiato il Qatar per i progressi ottenuti negli ultimi anni nel rispetto dei diritti dei lavoratori. Minchia.
Ma come abbiamo visto con la vicenda Soumahoro dove, mentre i migranti venivano trattati come polli, la signora Soumahoro era impegnata con le chiappe per aria sfoggiando le borse di marca, ecco come abbiamo visto qui il principio che governa queste associazioni così caritatevoli e altamente sinistroidi e Ong e compagni, è in realtà uno solo: fare soldi. A palate. Non importa come. Non importa se passi sopra i migranti con un paracarro basta portare a casa il cash.
Vi siete mai chiesti, infatti, perché tutte queste cooperative tenute in piedi per la maggior parte da gente improbabile sfigata che ha sempre provato ad arrancare nella vita, di colpo con l’accoglienza siano diventate società per azioni, vere e proprie gallinelle dalle uova d’oro?
Nel mirino del Qatargate ci sono deputati del Pd, socialisti, gente che scappa con i soldi, persone con mazzette dentro gli appartamenti.
Uno schifo allucinante che coinvolgerebbe almeno 60 persone ma potrebbero essere di più. Il punto è che qua non sento il coro di gallinelle e galli che si indignano dinanzi a questi scandali.
Sento sempre le solite pagliacciate. Ma una cosa l’abbiamo capita.
Come dicono a Roma: va bene tutto purché se magna.

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Nei locali notturni tra sesso e droga – Parte Prima

Questo il primo minuto del mio servizio andato in onda su Controcorrente Rete 4 mercoledì 7 dicembre.

Per rivederlo tutto 👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/droga-del-sesso-in-discoteca_F311547501050C09

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“Campioni del mondo. Campioni del mondo. Campioni del mondo”

Era un anno fa.

Ho conosciuto la moglie e il figlio di Paolo Rossi.
Essere giornalista ti apre a scenari fantastici. Ti consente di accedere a luoghi che altrimenti sarebbero proibiti. Ti permette, in un solo giorno, così per caso di scoprire una persona, e di addentrarti dentro. Ti ci scontri. Gli sbatti addosso. E la fai tua. Ti permette di conoscerla. Di raccontare una storia. Di tornare a casa e cucirla con le parole.
Paolo Rossi è il mito. Il campione eterno. Quello che quando ero piccola i miei mi ripetevano i nomi dei calciatori e poi mi dicevano: “come la Nazionale che vinse i Mondiali nell’82, nessun’altra mai”.
Ci fu un solo uomo al mondo in grado di mettere il Brasile in ginocchio nel 1982.
E quest’uomo si chiama Paolo Rossi.
Non ero ancora nata quando Paolo Rossi con una magnifica tripletta mandò i Carioca a casa, trascinando di lì a pochi giorni l’Italia alla vittoria. Ma ne ho sempre sentito parlare.
Ricordo bene il nastro di quella voce così squillante e vibrante ed euforica che echeggia nella mente “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”, ripetuto 3 volte. Me lo raccontavano i miei genitori.
E ad ogni esame all’Università me lo andavo a riascoltare. Mi metteva forza. Mi infondeva speranza. Anche quando l’Italia vinse i Mondiali nel 2006, alcuni ti dicevano “Sì, vabbè, ma come i Mondiali dell’82 mai”.
L’11 luglio 1982 l’Italia vinse contro la Germania. La sconfisse tre a uno.
Quel “Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo” fece il giro del globo.
L’Italia, mi raccontano, esplose in un tripudio di festa gioia felicità euforia. La gente inondò le piazze. Le strade. Si riversò nelle città come si riversa il vino nelle botti.
Tutto intorno era festa. Esaultanza. Spirito nazionale. Divertimento. Gioia e orgoglio, dopo i momenti difficili degli anni Settanta.
Uscito dagli anni duri, il popolo si era immedesimato nella Nazionale di Paolo Rossi. E io che sono un po’ più giovane ancora c’ho il poster di Roberto Baggio attaccato nella mia vecchia camera di quando ero adolescente.
Uno sport che unisce il calcio. Dovrebbe.
Il calcio è passione, gioco, amore, sudore, sacrificio, impegno. È avere tutti gli occhi puntati verso quel grande schermo e sollevarsi in coro quando segna la tua squadra. È stringere i pugni. Serrare i denti. Piantare il sedere. È non mangiare quando ci sono i calci di rigore. Avvolgersi nel Tricolore. Andare avanti e indietro lungo il vialetto tappandosi le orecchie perché sai che a un urlo loro è un gol perso.
Il calcio è quello sport dove nel bene e nel male sono lì tutti a soffrire con la squadra del cuore. Con la Nazionale.
Paolo Rossi è morto l’anno scorso. La notizia la diede la moglie Federica Cappelletti su Instagram. “Per sempre”. “Dopo di te il niente assoluto”, aveva scritto su Facebook.
Quanti amori nascono e poi finiscono. Quanti amori, veri amori, nascono, si trovano, e poi c’è sempre qualcosa che si mette in mezzo. Un evento che non puoi comandare. Accade negli amori più forti. Quelli veri. Quelli per i quali sono talmente intensi che ti sembra di viverli anche quando l’altro non c’è più.
Quando oggi ho visto Federica ho subito capito che era lei. L’ho vista in piazzale Roma con altre persone e aveva gli occhi così profondi, ma talmente profondi, che parlavano da soli. Le mani curate. Gli orecchini. Gli anelli. La delicatezza del volto. Alle spalle aveva uno zaino con scritto Pablito. L’emblema della maglia azzurra. Della vittoria. Della sofferenza. Della tenacia e della rinascita. Pablito era il soprannome di Paolo Rossi. Colui che univa tutti. Colui che era buono. Generoso. Colui che anche nella malattia ha saputo donarsi e darsi agli altri. Difficile pensare agli altri quando il tuo centro è sconvolto. Federica parla di lui come se fosse ancora presente. Perché lo è. Oggi a Palazzo Ferro Fini, nella sala dedicata a Oriana Fallaci, hanno presentato la mostra che martedì prossimo, 21 dicembre aprirà le porte al centro Culturale San Gaetano a Padova.
In quella sala Paolo Rossi fece la sua ultima apparizione pubblica. Era il 18 febbraio 2020. Due giorni dopo il covid avrebbe stravolto il mondo.
Venne qui con la moglie a presentare il libro scritto con lei “Quanto dura un attimo”.
Perché Paolo Rossi non era solo un calciatore. Era un sognatore. Forte. Arrivava prima degli altri. Anche quando venne coinvolto nello scandalo Calcio Scommesse, senza alcuna colpa, lui non si arrese. E quel tempo perso se lo riprese tutto. Era uno, hanno detto, che ti insegnava a combattere e andare avanti anche quando tutto sembrava perduto.
“Non c’è uno sportivo che abbia unito quanto Paolo Rossi”, hanno detto oggi. Unisce gli italiani. Così difficili da unire.
Paolo Rossi era il ragazzo della porta accanto. E la mostra curata da Sharon Ritossa si intitola “Paolo Rossi, un ragazzo d’oro”. “Era l’anno dei mondiali quelli dell’86 – cantavano Antonello Venditti e Paolo Rossi insieme – Paolo Rossi era un ragazzo come noi”. “Un ragazzo come noi” scrisse Venditti quando morì.
Già. Perché Paolo Rossi ci ha dimostrato che si può cadere e si può anche risalire. Era il ragazzo pieno di sogni. Quelli che animano la vita di tutti noi.

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“Mi faccio una striscia di coca e scopo fino a mattina”

Magre fitte incavate. Vedo due ragazze uscire fuori dal locale.
C’avranno all’incirca 20 anni. Belle. Bionde. Secche. La più bella ha il caschetto ai capelli.
L’eyeliner che le riga gli occhi come se la pelle fosse un foglio macchiato con l’indelebile nero. Quello che non va più via. Nemmeno col bianchetto. Non esiste un correttore per gli screzi della vita.
La bocca opaca di rossetto.
Il vestito che la copre tutta e a tratti ne lascia intravedere una parte. Quella sui fianchi. Si vedono le ossa. La pancia che si incurva all’interno. Hanno tutte quell’aria così incavata. Indentro. Affossata. Le ossa. Le mani. Le dita. Il seno.
L’altra è piena di tatuaggi. Alle mani. Alle falangi. Al collo. Alla spalla. Ha i capelli sbarazzini. Gli orecchini. Lo stesso eyeliner che le riga il volto. Anche lei gli stessi disaccordi. Conflitti. Contraddizioni. Si somigliano quasi. Lei la bacia. L’altra la stringe. Cominciano un gioco di una danza imperfetta.
Le luci partono. I suoni le avvolgono. Allucinazioni. Suoni psichedelici. L’esaltazione della percezione del momento.
Entro dentro. Chiedo da bere. Ci sta uno che mi vuole scopare. Chiedo cosa prende per farlo. Dice che con la droga regge meglio. Dura più a lungo. Viene dopo. Lo dai senza rendertene conto. Per ore scopi com’è un ossesso. Così. Come viene, con chi ti capita. Che manco te ne accorgi. Duri tantissimo. Gli chiedo dove procurarmi la roba. Se lui ne ha per me. Ho gli occhi e la pancia incavati: non dovrebbe accorgersi che sto fingendo.
Mi dice che maria, ectasy, cocaina, ce ne sono dappertutto. Basta chiedere una pastiglia. Ma che c’è un altro tipo di droga “che ti fa scopare come un mulo per 24 ore”. E lì servono i fornitori giusti. Lui ce l’ha. Non si fida. Mi chiede se sono della Digos. Vuole conoscere i miei amici. Servono contatti. Conoscenze.
Poi esco. Devo prendere aria. Quella roba me la sento addosso. Nella testa. Dentro il collo. La musica mi rimbomba sulla cassa toracica incavata di ossa.
Un ragazzo mi dice che prende la pasticca. Viene prima. Una scopata veloce. Quando senti che stai per venire ma non vieni. Ti fai una sniffata e ci dai sotto. Ci dai dentro. Va bene anche la prima che passa. Prenderesti anche un termosifone. Una pecora. Incontro una ragazza. Mi dice che lei per scopare deve bere e ubriacarsi. Perde i freni inibitori, non ci pensa.
E scopa bene. Poi mi prende da parte – Incredibile quanto e quando diventi un tutt’ uno con loro – È stata stuprata. Per lei non esiste il sesso con amore. Il sesso non è un sentimento.
Mi accendo una sigaretta. Arrivo a casa . È quasi l’alba. Apro Facebook e mi compare una frase: “Non morire senza aver provato la meraviglia di scopare con amore”. Al diavolo tutti. Spengo la luce. Vado a letto.
A breve in televisione.

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“Non è che ti stuprano. Tu lo vuoi alla fine”

C’è una cosa che mi ha lasciato sconcertata sul mio reportage tra sesso e droga girato all’interno dei locali notturni.
Al di là delle droghe che si sa, ne esistono di tutti i colori e di tutti i tipi. Quando mi sono avvicinata a questi ragazzi per chiedere loro cosa facessero, dove trovassero la droga, in che modo avrei potuto procurarmela io, mi hanno risposto che alcune sostanze stupefacenti sono le stesse che ti infilano dentro al bicchiere quando vogliono portarti a letto. Si sa.
Ma alla mia domanda: “E ti stuprano?”, più di uno mi ha risposto: “Cioè no… non è che ti stuprano. Alla fine vuoi. È che non ti ricordi niente. Cioè non ti stuprano con violenza…”.
La frase “non ti stuprano con violenza”, ha continuato a rimbalzarmi in testa per tutta la notte e anche il giorno dopo. Difficile dire quando lo stupro sia con violenza. Quando sia senza. Nelle aule di tribunale, nel corso di questi processi, i giudici, per ovvie ragioni, di certo non lesinano con le domande alle vittime. Spesso si sente chiedere: “Ma lei sapeva che salendo a casa sarebbe andata incontro a delle avances?”. “Ma quindi quando la penetrava non ha opposto resistenza?”. “Ed è vero che l’imputato nella persona di… non avrebbe usato contro di lei atteggiamenti violenti?”. “Le risulta che la afferrava per un braccio e la conduceva in camera da letto nel tentativo di consumare un rapporto?”.
Ecco quella notte, di tutta la ciurma lì presente che ha sentito dire che alla fine “tu ci stai, lo vuoi, ma non ti ricordi niente”, non ce n’è stato uno che abbia detto: “Guarda che alla fine è uno stupro”.
Tutti convinti che se uno ti droga e poi ti porta a letto, alla fine non è violenza sessuale perché tu, sotto effetto di stupefacenti, non opponi resistenza. Che sarebbe come dire a uno che ammazza una persona che non è omicidio perché quell’altro non si è difeso e allora quasi voleva essere ammazzato.
Ma nei rapporti così sciatti e blandi e liquidi e multiformi di tutti i colori del mondo, nei giovani che un giorno si sentono maschi, un altro giorno donne, si è inanellato il pensiero, arricciandosi su se stesso e contorcendosi in derive pericolose, tale per cui se non opponi resistenza perché non ti stai rendendo conto di quello che ti stanno per fare, non è violenza. È una violenza pacifica. Senza armi pari. Questo pensiero retrogrado ma tragicamente barbaro e moderno è anche il risultato delle forme di comunicazione che abbiamo. Ossia non ce n’è. Le persone non comunicano.
Manca il rispetto. La tolleranza. L’attesa. Il sapere aspettare. Tutti presi da questa ansia che ci attanaglia. L’essere così sempre reperibili, disponibili, online, connessi, ha fatto di noi esseri raggiungibili tramite semplici oggetti. Non esistono più i silenzi. Le pause. Le attese. Il rispetto delle reciproche volontà. Diventa tutto dovuto. Tutto subito. Tutto altamente commerciabile. Disponibile. E trombabile. Diventa che se per caso sali a casa di qualcuno allora diventa ovvio che tu ci stia. Che è come dire, scusate il paragone spiccio, che se entri in un negozio allora è ovvio che tu debba comprare. Ovviamente non è solo questo.
La droga dello stupro è sempre esistita. E ci sono tanti altri fattori, ahimè familiari, educativi, sociologici, che incidono sul perché una persona arrivi a pensare che alla fine se sei drogata e qualcuno ti penetra non è violenza.
In tutti questi pensieri c’è il nostro futuro. E il nostro ahimè presente.

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Ischia: no, questo non è il tempo del silenzio

Giacomo Pascale, sindaco di Lacco Ameno

Manco i morti. Manco le preghiere. Nemmeno un Atto di Dolore. Sono immersa in un servizio ma riemergo qualche istante.
Mi hanno molto colpito le parole del sindaco di Lacco Ameno, Giacomo Pascale, che intervenendo a Zona Bianca domenica sera ha detto che “questo è il momento del silenzio, non dei processi mediatici. Questo è il momento della preghiera… Questo è il momento della solidarietà”. Aggiungendo poi che è stufo di sentire che se una tragedia accade al Nord è colpa del cambiamento climatico. Se accade al Sud è colpa dell’abusivismo.
No sindaco no.
Questo non è il momento del silenzio.
Il silenzio ha già fatto troppi morti. Morti. Merda. Macerie. Rovine. Polveri. Alluvioni. Sotto quelle macerie, sotto quella lava di fango e melma che colava a picchio sul mare mentre la terra inghiottiva altri essere umani, è morto un neonato di 21 giorni. Ventuno giorni. Ventuno. Manco il tempo di realizzare di essere venuto al mondo. Manco il tempo di dire “mamma”, “papà”, “eccomi sono tra voi”. Manco il tempo di rendersene conto. La sua vita è stata una folata di vento tradita dalla sciatteria degli esseri umani.
Cos’è una creatura di ventun giorni? Se non batuffolo di lana che esplode di vita venuto alla luce per dirti che la vita continua, nasce, cresce, si rigenera. E trova la morte sotto un cumulo di macerie. La foga dell’acqua. La furia della tempesta. L’esplodere del pressappochismo. Il lasciare fare. Il buttare lì che tanto andrà tutto bene. Il voltare la testa dall’altra parte. Il non volersi assumere colpe. Poi quando ci sono i morti, la gente si fa scudo col dolore dei vivi in questo cimitero di superstiti che cercano defunti.
Si estraggono corpi, macerie, vestiti, bambini con ancora i pigiami addosso.
Le ho viste quelle scene di gente piegata dal dolore. Terrorizzata dall’incertezza della natura che non sai che fare fino a quando non ti ricapita addosso. Le ho viste le case quando vengono sventrate e distrutte dai terremoti. Le ho viste nelle Marche. La zona rossa. La tua vita che non sarà mai più la stessa. Le tende che ancora sventolano da una finestra ridotta brandelli. Le porte che ancora stanno in piedi con senza niente attorno. I calcinacci. Le abat-jour sospese nel vuoto. I giochi dei bambini in bilico sui detriti. Riecheggiano ancora le urla, le grida, la disperazione. Gente che tenta di mettersi in salvo e non ci riesce. I terremoti. Le alluvioni. Il ponte Morandi. La Marmolada. La morte in faccia. Quell’onda di fango e melma che travolge tutto verso il mare in una ondata di morte. La vita che scompare. La morte nascosta sotto tonnellate di fango. Quel fango che non lascia scampo e restituisce cadaveri.
Questo non è il tempo del silenzio. Con Conte che cavilla su condono sì. Condono no. “Non era un condono. Era una procedura per accelerare le pratiche”. Ma i sindaci dov’erano quando si chiedeva di regolarizzare qualcosa che non andava. La procura di Napoli ha aperto un fascicolo per frana colposa. A Ischia le richieste di condono prima del 2018 erano oltre 27 mila. Praticamente è tutto abusivo. Circa 600 invece le case abusive colpite da una ordinanza di abbattimento. Ma le amministrazioni comunali ? I sindaci? De Luca che tanto spara addosso a Zaia. Il sindaco di Lacco Ameno in una intervista a un sito locale commentando il risultato delle elezioni ha detto che “la politica è lontana dalla società” e che “bisogna avere maggiore rispetto per quanti hanno votato i 5 Stelle”, “perché loro parlano ancora di temi sociali, ambientali, si battono per la disuguaglianza che si è creata. Hanno una visione di paese, hanno una visione di attività politica, che svolgono a stretto contatto con gli amministratori locali, a partire dai sindaci, dai consiglieri comunali ai quali offrono la possibilità di interloquire, direttamente, attraverso un rapido Whatsapp”.
Già. Peccato che qui siano serviti a poco.
Manco i morti. Manco le preghiere.
Solo il silenzio della morte.

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Nemmeno il gemito di un orgasmo benedetto

È da giorni che sono sul fronte prostituzione e il mio telefono brulica di messaggini di tette, culi, patatine al vento, capezzoli, piedi, curve mastodontiche lineari che se fossi un uomo sarebbero da mozzare il fiato. Ma per me che sono una donna mi causano un lieve sussulto.
Come fosse occluso da una enorme bolla che gorgoglia e produce il rumore, discontinuo e sommesso, di un liquido dentro intento a fuoriuscire in completa ebollizione.
Sul fronte della prostituzione c’è tutto un sottobosco che trombare è diventato più facile di andare a prelevare. Ci sono intere agenzie che scortano e snocciolano escort che Dio manco te le immagini. Basta connettersi al sito. Selezionare la zona di tuo gradimento giusto per non fare tanta strada perché trombare costa soldi. Ognuna mette le proprie foto e il proprio falso nome ed è facilmente contattabile sia chiamando e pigiando il tasto “chiama”, sia su whatsapp pigiando il tasto verde. Lì parte un messaggino già precompilato che dice così: “Ciao … ( nome ) ho visto il tuo profilo su … e vorrei fissare un appuntamento con te”. Le risposte arrivano quasi subito: “Ciao Amo”, “Ciao Teso”, “Ciao bello”, “Anche ora vuoi venire?”, “Vuoi venire tra mezz’ora?”, “Dimmi tu Amo, io sono in zona stazione”, “Ciao tesoro, mio servizio: massaggio sex, bacio alla francese, doccia insieme, pompino, sperma sul corpo. Possiamo fare diverse posizioni, 69, alla pecorina Ho un vestire sexy o lingerie, tacchi)
30 min con me 150 euro // 1h 200 euro. A che ora vuoi venire?”. Un’altra mi ha scritto: “Sono vaccinata. Ma eviterei bacio con la lingua. Se vuoi chiamami che ci mettiamo d’accordo. Io sono molto occupata e mi sposto in continuazione”. Infatti queste ragazze molte delle quali non parlano italiano – di quelle italiane con cui e ho parlato, alcune sono persone estremamente intelligenti che sanno fin dove possono arrivare – si spostano da una parte all’altra dell’Italia coordinate da un tutor che le sballotta di qua e di là a seconda delle richieste. Da chi venga pagato il tutor non si sa. Vivrà di pubblicità.
Sopravvive chi è così talmente abile da farsi una sua clientela e gestirsela da solo. Ma la cosa che mi ha colpito è stata la celerità con cui queste persone ti rispondono anche solo per farti un pompino. Chiedono 150 euro per mezz’ora. 200 per un’ora. Seicento per una serata. Mille per una notte. Se uno sta attento guadagna 600 euro al giorno.
A una ho detto che sono bisex e che io e il mio compagno andiamo in cerca di avventure. Erano le seitte di sera. Mi ha detto senza conoscermi: “Vieni alle 19.15. Sarò il vostro paradiso”. La celerità dei rapporti. Il mordi e fuggi. Il troppo sesso dappertutto e il non farlo mai veramente. Distratti. Annoiati. Assorti. Stanchi. Disorientati. C’è così talmente sesso in questo mondo senza sesso senza amore che a fine giornata ero ubriaca a forza di sentirne parlare. Se ne parla troppo e lo si fa sempre meno. Sì è sfondato il mito. Il tabù. Il sesso non interessa più a nessuno. Non è l’uomo che tratta la donna come oggetto ma è la donna che in cambio di una prestazione chiede tot soldi.
La passività poi delle giovani generazioni così talmente oberati di sesso online, influencer, video porno che ha finito col partorire una generazione bulimica di spettatori e non attori. Un gesto meccanico. Freddo. Quasi chirurgico. Elettrico. Una scossa e passa tutto. Passa la paura. La solitudine. L’angoscia. Il non sentirsi all’altezza. Pronti. Sciolti. La prepotenza con cui il sesso è entrato nelle nostre vite. E l’abulia con cui se ne va. Senza dire niente. Senza fare rumore. Nemmeno il gemito di un orgasmo benedetto.

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