Era un anno fa.
Ho conosciuto la moglie e il figlio di Paolo Rossi.
Essere giornalista ti apre a scenari fantastici. Ti consente di accedere a luoghi che altrimenti sarebbero proibiti. Ti permette, in un solo giorno, così per caso di scoprire una persona, e di addentrarti dentro. Ti ci scontri. Gli sbatti addosso. E la fai tua. Ti permette di conoscerla. Di raccontare una storia. Di tornare a casa e cucirla con le parole.
Paolo Rossi è il mito. Il campione eterno. Quello che quando ero piccola i miei mi ripetevano i nomi dei calciatori e poi mi dicevano: “come la Nazionale che vinse i Mondiali nell’82, nessun’altra mai”.
Ci fu un solo uomo al mondo in grado di mettere il Brasile in ginocchio nel 1982.
E quest’uomo si chiama Paolo Rossi.
Non ero ancora nata quando Paolo Rossi con una magnifica tripletta mandò i Carioca a casa, trascinando di lì a pochi giorni l’Italia alla vittoria. Ma ne ho sempre sentito parlare.
Ricordo bene il nastro di quella voce così squillante e vibrante ed euforica che echeggia nella mente “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”, ripetuto 3 volte. Me lo raccontavano i miei genitori.
E ad ogni esame all’Università me lo andavo a riascoltare. Mi metteva forza. Mi infondeva speranza. Anche quando l’Italia vinse i Mondiali nel 2006, alcuni ti dicevano “Sì, vabbè, ma come i Mondiali dell’82 mai”.
L’11 luglio 1982 l’Italia vinse contro la Germania. La sconfisse tre a uno.
Quel “Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo” fece il giro del globo.
L’Italia, mi raccontano, esplose in un tripudio di festa gioia felicità euforia. La gente inondò le piazze. Le strade. Si riversò nelle città come si riversa il vino nelle botti.
Tutto intorno era festa. Esaultanza. Spirito nazionale. Divertimento. Gioia e orgoglio, dopo i momenti difficili degli anni Settanta.
Uscito dagli anni duri, il popolo si era immedesimato nella Nazionale di Paolo Rossi. E io che sono un po’ più giovane ancora c’ho il poster di Roberto Baggio attaccato nella mia vecchia camera di quando ero adolescente.
Uno sport che unisce il calcio. Dovrebbe.
Il calcio è passione, gioco, amore, sudore, sacrificio, impegno. È avere tutti gli occhi puntati verso quel grande schermo e sollevarsi in coro quando segna la tua squadra. È stringere i pugni. Serrare i denti. Piantare il sedere. È non mangiare quando ci sono i calci di rigore. Avvolgersi nel Tricolore. Andare avanti e indietro lungo il vialetto tappandosi le orecchie perché sai che a un urlo loro è un gol perso.
Il calcio è quello sport dove nel bene e nel male sono lì tutti a soffrire con la squadra del cuore. Con la Nazionale.
Paolo Rossi è morto l’anno scorso. La notizia la diede la moglie Federica Cappelletti su Instagram. “Per sempre”. “Dopo di te il niente assoluto”, aveva scritto su Facebook.
Quanti amori nascono e poi finiscono. Quanti amori, veri amori, nascono, si trovano, e poi c’è sempre qualcosa che si mette in mezzo. Un evento che non puoi comandare. Accade negli amori più forti. Quelli veri. Quelli per i quali sono talmente intensi che ti sembra di viverli anche quando l’altro non c’è più.
Quando oggi ho visto Federica ho subito capito che era lei. L’ho vista in piazzale Roma con altre persone e aveva gli occhi così profondi, ma talmente profondi, che parlavano da soli. Le mani curate. Gli orecchini. Gli anelli. La delicatezza del volto. Alle spalle aveva uno zaino con scritto Pablito. L’emblema della maglia azzurra. Della vittoria. Della sofferenza. Della tenacia e della rinascita. Pablito era il soprannome di Paolo Rossi. Colui che univa tutti. Colui che era buono. Generoso. Colui che anche nella malattia ha saputo donarsi e darsi agli altri. Difficile pensare agli altri quando il tuo centro è sconvolto. Federica parla di lui come se fosse ancora presente. Perché lo è. Oggi a Palazzo Ferro Fini, nella sala dedicata a Oriana Fallaci, hanno presentato la mostra che martedì prossimo, 21 dicembre aprirà le porte al centro Culturale San Gaetano a Padova.
In quella sala Paolo Rossi fece la sua ultima apparizione pubblica. Era il 18 febbraio 2020. Due giorni dopo il covid avrebbe stravolto il mondo.
Venne qui con la moglie a presentare il libro scritto con lei “Quanto dura un attimo”.
Perché Paolo Rossi non era solo un calciatore. Era un sognatore. Forte. Arrivava prima degli altri. Anche quando venne coinvolto nello scandalo Calcio Scommesse, senza alcuna colpa, lui non si arrese. E quel tempo perso se lo riprese tutto. Era uno, hanno detto, che ti insegnava a combattere e andare avanti anche quando tutto sembrava perduto.
“Non c’è uno sportivo che abbia unito quanto Paolo Rossi”, hanno detto oggi. Unisce gli italiani. Così difficili da unire.
Paolo Rossi era il ragazzo della porta accanto. E la mostra curata da Sharon Ritossa si intitola “Paolo Rossi, un ragazzo d’oro”. “Era l’anno dei mondiali quelli dell’86 – cantavano Antonello Venditti e Paolo Rossi insieme – Paolo Rossi era un ragazzo come noi”. “Un ragazzo come noi” scrisse Venditti quando morì.
Già. Perché Paolo Rossi ci ha dimostrato che si può cadere e si può anche risalire. Era il ragazzo pieno di sogni. Quelli che animano la vita di tutti noi.
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