A me non piace questa vignetta. Non mi piace no. Voi che continuate a postarla con il vostro sadismo che vi scorre nelle vene. A me non piace che qualcuno usi l’immagine di un padre che abbraccia una figlia. Anzi di una figlia che abbraccia il padre per provare a impietosire. Per provare a dire che siamo delle merde. L’anno scorso sul ponte di Genova sono morte 43 persone. Siamo delle merde sì. Siamo delle merde umane. E allora non mi piace no. Non mi piace che tutto il mondo posta le foto con il culo poggiato sulla sedia e poi. Poi rimane a guardare. Non mi piace che tutti si dicono indignati. E poi un campo di accoglienza non l’hanno visto nemmeno in fotografia. Non mi piace no. Non mi piace che tutti si riempiono di belle parole. Di frasi fatte. Di costruzioni a forma di cuore. Di offese. Di improperie solo per provare a dire quanto il genere umano sia una merda. Lo sappiamo. Lo sapete. E dentro alla merda ci siete compresi tutti. E non mi piace no. Non mi piace chi parla parla parla e poi posta una foto su Facebook e commenta. Non mi piace no. Andate. Andate. Andate a parlare con queste persone. Guardatele negli occhi. Stringete loro la mano. L’altro giorno a Venezia ho conosciuto una ragazza dell’Honduras fatalità e uno di questi giorni vi racconterò di questa ragazza dell’Honduras. Io ci ho parlato per mezz’ora. Ci ho speso tempo e sarei rimasta in sua compagnia ancora. E allora abbiate il coraggio per un giorno di togliervi la vostra comodità con i vostri culi al caldo o al freddo a seconda della stagione e provare a sporcarvi delle storie degli altri. Provate. Provate per un giorno a dimenticare chi siete. A dimenticare cosa avete. A dimenticare da dove venite. Perché è sempre molto comodo. È sempre molto comodo schierarsi da una parte o da un’altra. È sempre molto comodo posare il culo, con l’aria condizionata che ti sbatte nelle palle e scrivere che non siamo umani. Che siamo delle bestie. Che siamo animali. Partite. Andate. Andate a dare una mano. Aiutate. Entrate per un giorno soltanto in un centro accoglienza e respirate il profumo dei soldi che arrivano a palate quando si parla di profughi. La Caritas. La Caritas. La Caritas, quest’anno a Treviso, siccome il bando non prevedeva servizi e siccome la quota a migrante era diminuita, ecco la Caritas non ha partecipato al bando. E ha lasciato. Ha deciso. Ha deciso di lasciare che altri 100 e passa migranti tornassero nelle caserme. Allora andateci nelle caserme. Andateci. Io ci sono stata nelle caserme. E tra poco, a settembre, uscirà anche un libro. E vi posso assicurare che non basta dire accoglienza per farla. Andate nelle caserme dove d’estate ci sono 40 gradi e la puzza di fogna e di piscio fuoriesce dalla terra. Andate nelle caserme dove i migranti dormivano (dormono) accatastati sopra materassi di legno legati tra loro con il filo di ferro. Andate. Andate nelle caserme con l’acqua putrida che ti corre accanto mentre fai il bagno. Andate nelle caserme dove sotto un tendone dormono in 300 e fanno la fila anche per pisciare. Andate nelle caserme dove le cooperative dovevano insegnare l’italiano e parli con i migranti e non capiscono mezza parola. E andate nelle caserme dove fino a pochi mesi fa c’erano persone che attendevano un permesso da anni. Senza futuro. Senza speranza. Senza nemmeno immaginazione. Cadaveri che camminano erano. Sono. Fantasmi in attesa di un posto nel mondo. Burattini nelle mani di chi con loro volendoli accogliere ci ha fatto il soldi a palate. E allora andate. Andate. Andate. Ma per favore. Per favore. Le foto lasciatele ai giornalisti. Ai fotografi. Lasciatele ai mezzi d’informazione per togliervi dalla vostra becera ignoranza. Non usatele per far impietosire il mondo. Per avere un pugno di like. Perché allora avrete fatto lo stesso errore. Quello di far parte di un mondo di merda.

#sbetti

Quell’omino sotto il caldo arrancava e arrancava

Dal diario di Facebook di questa notte 27 giugno

Oggi ho assistito a una scena. Che mi è rimasta impressa. Me la sono portata appresso tutta la giornata, non trovando due minuti per evaporare la tristezza dalle dita. E allora ci sono di quelle scene che ti restano appresso. Che ti porti addosso. E ora. Ora fumando una sigaretta al caldo, sopra il terrazzo, con in mano un’acqua di ghiaccio e nell’altra una sigaretta e l’iPhone provo a raccontarvela questa scena. E allora oggi stavo percorrendo a piedi la strada che vedete qui sotto. Dovevo andare a Venezia. Saranno state le tre del pomeriggio. Faceva caldo. Era afa. Un’afa atroce. Un caldo infernale. Un’afa di quelle che ti cappia il collo e non te lo lascia andare. Un’afa di quelle che ti porti appresso. Che ti suda addosso. Che ti si schianta sul viso. Che si spalma sui vestiti. Che ti indebolisce le gambe. E allora dicevo stavo percorrendo questa strada quando davanti a me sbuca un vecchietto. Questo qui. Questo qui che vedete davanti. E allora l’avevo visto in lontananza. Ma non sono riuscita a superarlo. A sorpassarlo. Ma mica perché lui andava più spedito sapete. No. Insomma non riesco a fargli vedere che andavo più veloce. E sono rimasta indietro. E allora questo vecchietto arrancava. Annaspava. Si trascinava. Prima una gamba. Poi l’altra. Sembrava come se gli avessero messo del piombo ai piedi e lui non riuscisse a sollevarlo. A trascinarlo. Se lo portava appresso con il peso dell’afa che ti si schianta addosso. Perché oggi. Oggi. Oggi sembrava veramente che il mondo si fosse messo d’accordo e che una pompa d’aria calda sudata pompasse dritta diretta sulle pareti della Terra. La natura. Questa natura che tanto deridiamo. E allora dicevo guardavo sto vecchietto. E mi ha fatto tanta tenerezza. Sulla mano sinistra teneva un biglietto per l’autobus. Sulla destra una cartellina. E allora avrei voluto fermarmi. Ma non ho avuto il coraggio. E poi per dirgli cosa? La accompagno io? E allora mi sono chiesta cosa mai avesse di così importante da fare un vecchietto da non poter stare a casa al fresco in una giornata come quella di oggi. Sì insomma mi sono chiesta dove mai dovesse andare un vecchietto, che magari ha lavorato una vita intera, sotto il sole oggi, dove quando ho ripreso l’auto la temperatura segnava 49 gradi. Sì ok. L’auto. Sotto il sole. Ma quella esterna era 39. Sfiorava i 40. E dove c’è sto cemento era pure superiore. E poi mi sono chiesta perché questo vecchietto non avesse un figlio una figlia un nipote una nipote un qualcuno di qualcuno che lo potesse accompagnare. Che gli potesse dire: “vieni oggi ti porto io”. Cioè uno passa una vita magari a crescere i figli. A dargli da mangiare. A lavorare per mantenerli. E poi il 27 giugno alle tre del pomeriggio arranca per le strada ingabbiato dall’afa. E così. Così mi sono ricordata di una cosa. Questa mattina andando in piazza. Orario aperitivo per chi lavorando si incontra per un drink, ecco ho pensato a una madre e a due figli che mi avevano colpito. Insomma i figli si lamentavano che era caldo. Certo ora abbiamo tutto. Certo che si lamentano. Mica come quella famosa estate del 2003 dove in piena maturità studiavo senza aria condizionata. Ora ci siamo abituati. Ora abbiamo i maglioni negli uffici. Poi quando esci, è più caldo per forza. E allora dicevo. Mi é tornata in mente questa madre che a un certo punto ha detto ai figli: “pensate a lui – forse riferendosi al padre – che ora è fuori che lavora sotto il sole – e noi pensiamo a bere l’aperitivo”. Già e allora quando ho visto il vecchietto ci ho ripensato.

E così, fumando, in una calda sera d’estate sotto la luna ve lo volevo raccontare.

Fateli stare a casa gli anziani. Fateli stare a casa.

#nottesbetti

Eccola la paladina dei migranti

Oh eccola! Eccola. Eccola la nuova paladina dei migranti. Grazie, ne avevamo bisogno. Trentunenne. Tedesca. Carina al punto giusto. Sguardo duro. Vegana. Poliglotta. Crocerossina del mondo. Plurilaureata grazie ai soldi di mamma e papà. Studi naturalistici universitari nel Regno Unito. Nata nel posto giusto. Faceva la nostromo a bordo delle navi oceanografiche nel Polo Nord, per conto dell’Istituto Wegener. E ora. Ora invece fa la capitana della Sea Watch 3 e ieri è entrata in acque italiane, sfidando l’Italia. Gli italiani. E Salvini. E allora eccola la terza soubrette del mondo. Dopo la coppietta Salvini e Di Maio che giocano a togliersi i like da Instagram e postano pollicioni, mancava Carola. Insomma tre ci sta. Carola Rackele. Che alla fine ha ottenuto quello che voleva. Avere il suo momento di celebrità. Poco importa se rischia una multa fino a cinquantamila euro, quindici anni di carcere e se rischia di essere indagata per favoreggiamento dell’immigrazione, per rifiuto di obbedienza a nave da

guerra, per resistenza o violenza contro nave da guerra per il quale il codice della navigazione prevede fino a 10 anni e se rischia pure il sequestro della nave. Tanto per la capitana Findus ci pensano mammà e papà. E i soldi diciamo che non mancano. Anzi ci sta pure una colletta. Ma i soldi non mancano perché questi paladini della bontà, che sventolano la bandiera della pace, che reclamano diritti per tutti, che infrangono le regole perché chissenefrega se un vice ministro ti dice che in Italia non puoi entrare. Io ci entro lo stesso. Anzi la nostra paladina, lei così amante della globalità e nemica dei sovranisti, se n’è pure strafregata di quello che hanno detto in Europa. Come a dire: “siete una manica di deficienti. Qua ci penso io”. La Corte europea dei diritti dell’Uomo infatti ha respinto il ricorso di questi 42 migranti a bordo di questa nave. Volevano avere un’autorizzazione all’attracco e allo sbarco. Ecco dicevo i soldi non mancano perché questi paladini che fanno da volontari vengono pure pagati. Le Ong fatturano milioni di euro per dei bilanci che grazie alle donazioni crescono in maniera esponenziale. I soldi, alcuni sono per le spese di navigazione. Altri per il personale. La politica di Minniti almeno aveva messo a nudo il sistema dei fondi che gravitava e gravita intorno alle Ong. Ma nonostante questo. Nonostante questo la gente continua a credere che siano tutti volontari. Che siano tutte organizzazioni no profit. Allora. Allora. Allora.

Allora vorremmo che la nostra capitana mia capitana ci dicesse quanto guadagnano le Ong e a quanto ammontano gli stipendi di chi va in mare a salvare queste persone. Almeno di quelli che svolgono una specifica mansione. Di quelli che sono professionisti.

E vorremmo che ce lo dicesse sì.

Così avremo finito di prenderci per il culo.

#sbetti

Quella laguna, che da quassù la vedi tutta

Non avevo mai visto la laguna di Venezia dall’alto. O meglio non l’avevo mai vista, potendola respirare. Annusare. Sì insomma la vedi dall’aereo, quando parte da Tessera, ma ci stanno quei finestrini odiosi che ti ci appiccichi pure col naso, lo schiacci, lo premi contro il vetro, sei lì che vuoi fotografare. E niente. Il vetro, la laguna, non te la lascia respirare. Sì certo ci sta il Campanile di San Marco, che tanti dicono vado su e faccio una foto. Ma se ci stai sopra il Campanile, il Campanile non lo vedi. E allora. Allora all’Arsenale ci sta un posto dove se ci sali fin su in cima, la laguna la vedi tutta. Tutta. E si chiama Torre di Porta Nuova. Una torre trapezoidale alta 35 metri dove ci puoi salire con l’ascensore o con le scale. Una macchina per alberare” che svetta giusta all’ingresso della Darsena Grande. E la vedi quando arrivi dentro l’Arsenale. La vedi. Svetta in fondo alla banchina con le mura possenti. E poi. Poi quando sali lo spettacolo é incantevole. L’altro giorno ci sono rimasta sopra un’ora. E mentre ci stavo sopra a quella torre immersa nell’azzurro ho inviato una foto a mia madre e le ho scritto un messaggio: “quante cose abbiamo e quante cose ci perdiamo”.

E quindi. Quindi fare dei Tweet e dei post e li ho fatti da lì. Perché si sa che se lavori in un ambiente pieno di energia, il tuo lavoro sarà migliore. E allora da sopra la Torre l’energia ci sta tutta. E la vedi Venezia immersa nell’acqua. I tetti di mattone di tegole di coppi. Il colore del mattone riflette quel sole che splende su Venezia. E poi vedi le “mura”. Le mura dell’Arsenale. O meglio le porte. Il bianco dei merletti candidi baciati dal sole. E ti immagini di quando era presidiato. Accerchiato. Di quando ci costruivano le navi da guerra e tutti gli arsenalotti in catena di montaggio ci lavoravano. Fino a due al giorno erano in grado di produrne. Una potenza. Un colosso. E allora ti immagini di tempi antichi e lontani. E poi. Poi vedi i gabbiani passare. I canali che si incuneano dentro la terra. I campanili. Le chiese. Le cupole. I ponti. Gli alberi. I boschi che spuntano come pon pon colorati qua e là. E poi ci stanno quei tetti. Che incastonati tra di loro, chi sta sopra, chi sta sotto, chi si appoggia, chi si abbraccia, chi spunta, chi sopporta, formano un disegno perfetto. Un disegno che nessun disegnatore riuscirà mai a riprodurre. Perché Venezia è nata così. Ed è un miracolo della natura.

#sbetti

Brigate Rosso Sangue

“Era morto. Ma il suo sguardo era ancora vivo. Io l’ho visto quel corpo. Ce l’ho ancora davanti agli occhi. Era riverso a terra. Completamente in una pozza di sangue. Gli erano saliti sopra e gli avevano sparato sulla testa”.

Queste sono le parole di Fabio Ragno, militare in pensione, e testimone dell’omicidio di Giuseppe #Mazzola e Graziano #Giralucci a #Padova.

Era il 17 giugno 1974. Il primo omicidio delle Brigate Rosse. Delle Br.

73 furono gli omicidi delle Br.

Per il processo di Mazzola e Giralucci ci vollero 17 cazzi di anni. Diciassette per far venire a galla verità non tanto grazie alle indagini ma per effetto degli sconti di pena a chi forniva dichiarazioni spontanee. Confessioni.

Allora io le ho sentite le parole di Ragno ieri sera. Le ho ascoltate. Le ho incamerate. Ho visto il volto di quest’uomo mentre raccontava gli attimi in cui quel 17 giugno si trovò davanti i corpi di Mazzola e Giralucci. I due vennero giustiziati nella sede del Msi in via Zabarella.

E l’ho visto il volto di Ragno. Come raccontava. Come si esprimeva. Parole piene di vita che raccontano morte. Sangue. Orrore. Il suo volto ancora sbarrato. E ancora quel ricordo impresso in lui come fosse quel giorno.

“Lo sguardo era uno sguardo vivo – ha raccontato – era morto ma lo sguardo era ancora vivo. Sapete come é morto Mazzola? Pelli gli salì sopra e gli sparò alla testa”.

E allora dopo aver ascoltato queste parole, mi sono chiesta come si faccia ancora a poter pensare di negare la libertà di espressione.

La cultura. La storia. Cosa vogliamo nascondere. Perché non ne se possa parlare. Perché quando tenti di raccontare, o di aver un pensiero diverso e tentare di esprimerlo, ti bloccano. Ti boicottano. Ti fanno fuori. È bastato un editore di “destra” a far accendere le polemiche. Come se essere di destra sia una malattia. No. Non si può. La sinistra chiede che il fumetto non venga presentato. I professoroni parlano di ricostruzione parziale perché non tiene conto dei mali dei fascisti.

Ogni volta che fai informazione, ci stanno sempre quei quattro cagacazzi figli di padri facoltosi a cui la vita ha dato tutto senza fare niente, che subito insorgono. Che subito si sollevano. Che subito creano casini.

Quattro ragazzotti che anziché leggersi i libri di storia pisciano davanti le vetrine dei negozi. Fumano marijuana con i soldi di mami e papi e appendono la foto con stampato il tuo volto con scritto “wanted” lungo le vie della città. E allora mi sono chiesta perché. E questo l’anno scorso avevano fatto con la presentazione del fumetto: Foiba Rossa.

Un fumetto che racconta la storia di Norma Cossetto, profuga istriana, studentessa dell’Università di Padova che, per chi non lo sapesse, il suo nome sta scritto stampato sopra la scala che porta al rettorato. E allora questo avevano fatto. Avevano preso le immagini dei relatori e le avevano appese in giro per la città. Poveri dementi.

“Volevano tapparci la bocca ma non ci sono riusciti”, aveva detto Fausto Biloslavo.

E infatti. Infatti poi la presentazione del fumetto fece il botto. Un successone. Per chi avrebbe voluto vederci zitti e non c’è riuscito.

Come stasera, che a Padova di venerdì sera in un orario dove la gente fa l’aperitivo, la sala era strapiena. Fuori lo schieramento di forze dell’ordine per impedire che i ragazzotti creassero disordine. “L’idea, credere nell’idea e spendere una vita per l’idea può portare a queste tragiche cose”, ha detto l’avvocato Vinci riferendosi all’omicidio di Mazzola e Giralucci. “Io a 16 anni sono finito in questura. Non c’è la possibilità del pensiero alternativo – ha detto – L’abbiamo vissuto negli anni 70 ma siamo nel 2019”.

Già e ancora nel 2019 qualcuno ha detto che il fumetto di Mazzola e Giralucci è di Casa Pound. Come se non venisse venduto alla Mondadori. Alla Feltrinelli. Oppure magari pure su Amazon. Come se nel 2020 ancora per diffondere una storia, quella vera, dovessimo affidarci a censure o autorizzazioni.

“Inaccettabile usare questo randello dell’Uomo nero contro chiunque non la pensi in una determinata maniera”, ha detto Fausto Biloslavo ieri.

Perché poi, poi. Poi quelli cattivi siamo noi.

Noi che abbiamo coraggio.

Noi che siamo così politicamente scorretti.

Noi che abbiamo un pensiero.

Noi che raccontiamo la storia.

Noi che ricordiamo le vittime.

E noi che diamo voce a chi non ha potuto parlare. Già.

I cattivi non sono quelli che ti minacciano. Che si menano. Che pisciano davanti le vetrine. Che sboccano davanti ai vecchietti in piazza. Che si fanno di erba. Che prendono la tua foto e la affliggono per strada. Che pretendono di avere il monopolio della cultura. Che ti controllano. Che impongono il pensiero. Che vorrebbero pure controllartelo.

No, i cattivi. I cattivi siamo noi.

#sbetti

#nottesbetti

Io li ho visti bere anche dalla pioggia

Dal diario di Facebook di un anno fa. 14 giugno 2018

Ho scattato questa foto dodici anni fa. Dodici anni fa. Era novembre. Novembre 2006. Tanzania. Uno di quei giorni dal 4 al 15. Non mi ricordo bene quando. So solo che era il 4. Milano Malpensa. Quel Boeing in decollo. Allora ricordo che era freddo. Ma un freddo cane. Ma lì, lì era caldo. Un caldo infernale. Un caldo da Equatore. Allora ho ripreso in mano questa foto. Perché l’altro giorno una mia collega mi ha detto: “Sai oggi è la giornata contro lo Sfruttamento Minorile”. Già. Vero. E mentre me lo diceva questa foto cominciava a danzarmi tra le tempie. Questa. Questa che vedete qui. Uno scatto fatto per caso. Senza posa. Né aspettative. Qui mi innamorai della fotografia. Ancor di più, di quello che già fossi. E qui capii che nella vita bisogna sempre spingersi oltre. Perché non sai cosa potresti trovare dopo. Un attimo prima di svoltare l’angolo. Non sai mai cosa ci sia davanti a te se ti volti prima e torni indietro.

Allora questo era uno di quei giorni caldi, sotto l’Equatore, in cui rientravamo dal mare. Anzi dall’Oceano. Quello grande. Quello bello. Quello Indiano. Quello che di mattina si rattrappisce, di giorno si sparpaglia e di notte si appisola. Quello che di notte fruscia come fruscia il fruscio del vento sull’acqua e quello che di notte le stelle sembrano formine giganti attaccati alle pareti scure del colore della notte. Anzi ti sembrano così talmente vicine che sdraiata a terra e fumando una sigaretta il fumo sembra quasi spegnerle. Inondarle. Quelle stelle così vicine che se alzi il braccio al cielo ti pare di afferrarle. Dio come è bello il cielo in Africa. Insomma quelle che hai perfino paura a cercare di acchiappare perché hai paura di sgretolare. Quelle che il cielo è sempre sereno e la notte pure. Quelle che, disposte in fila o in cerchio, guardando l’oceano, percepisci che la terra è tonda e tu, tu stai dall’altra parte. Allora ricordo che quel giorno tornando dal mare con in mano la macchinetta fotografica e in spalla il marsupio verde militare, ci addentrammo in un posto sperduto. La sabbia era bianca. Ma bianca che più bianca non si può. Talmente bianca che sembrava neve. Borotalco. Farina. E talmente bianca e così soffice e bella che non appena sollevavi il piede da terra, non rimaneva nemmeno l’impronta. Poi proseguendo, giù di lì. Dalla parte dell’entroterra stava un bazar. Una costruzione bianca. Con quattro pareti e un tetto fatto di legno. Una tinta colore bianco sporco. E dei merletti decoravano la facciata. E sulla parete sopra una porta chiusa stava una scritta a caratteri cubitali: “Armani”. Ancora ce l’ho quella foto. E ancora dentro di me nitido quel ricordo. Ma il bazar era chiuso e non si poteva entrare. Quei bambini invece, quei batuffoli appisolati e stanchi, con quelle maglie raggrinzite e con quegli occhioni scuri dai contorni bianco luce da guardare, se ne stavano lì, appesi agli alberi o sotto il sole. Nell’attesa di vedere venduto qualche quadro fatto a mano. Qualche tela. Qualche scacchiera di marmo. Qualche souvenir. E infatti tra i bimbi c’era chi vendeva le tele dipinte semplicemente con le dita intonse nel colore. Poi c’era chi partecipava alla contrattazione. Chi aveva le dita sporche di nero fuliggine, nero ebano. Ed erano i più tristi. Quelli che costruivano le statuette portafortuna con le loro mani e le intarsiavano con le loro unghie. Le dita erano consumate dallo sfregamento del legno. Le unghie erano appuntite per fare da coltellino. E se volevi sulle statuette ti incidevano perfino il nome. Ecco, io quelle statuette non le ho comprate. Mi sembrava brutto tornarmene a casa con in valigia una statuetta fatta da un bimbo con gli occhi neri come il carbone, i contorni bianchi come i raggi del sole e le dita appuntite come un coltellino. Sì insomma mi sembrava brutto riportare a casa un qualcosa per cui qualcuno aveva speso tempo fatica e pure gli anni dell’infanzia. Allora stasera mentre tornavo a casa la musica alla radio cantava Teach Me Again di Tina Turner ed Elisa. E all’inizio la canzone dice: “What’s it to walk on a silent road, to be thirsty and wait for the rain? What is it like? – Com’è camminare lungo una strada silenziosa? Avere sete e aspettare la pioggia?”.

Già com’è. Ecco e allora quei bambini. Io li ho visti.

E li ho visti bere anche dalla pioggia.

#nottesbetti

#buonanottesbetti 🌙✨🌙 🇹🇿

Eccoli i figli della protezione umanitaria

44990478_10217692561445259_7967017214270242816_n

Acqua e zucchero mentre moriva, “poi quando hanno visto che stava diventando cianotica l’hanno messa su un divano, dopodiché moriva”. Questi sono gli ultimi attimi di Desirée. Gli ultimi spiragli di vita, di una vita finita troppo presto. Drogata. Stuprata. Violentata a turno. Si erano messi in fila per dilaniare il corpo di lei. Per usarlo come sfogatoio. Per sfregiarlo. Per usarlo.
Per farne quello che volevano.
Poi quando hanno visto che non dava più segni di vita l’hanno lasciata lì, agonizzante a morire.
Vi basta o dobbiamo continuare? Allora anime belle mi chiedo dove siete. Dove siete in questi giorni dove non si fa altro che parlare di questo orrore? Dove cazzo siete?
O spuntate come i funghi solo quando dovete dire che l’Italia è un paese razzista, che è un paese di merda e che gli italiani sono tutti quattro razzisti? Dove siete?
Dove siete con la vostra foga che vi contraddistingue quando dovete dire al mondo che gli italiani sono pieni di odio e violenza? Dove siete? Perché qui sapete, in questo racconto dell’orrore, l’odio e la violenza ci sono tutti. Tutti.
Desirée non doveva essere lì. E questi quattro figli della protezione italiana cosa ci facevano qui? Loro dovevano essere lì? Loro dovevano essere qui? Perché questa gente era ancora in Italia? Perché?
E allora ve li presente adesso questi figli della protezione umanitaria che l’Italia accoglie.
Ve li presento questi figliastri a cui l’Italia che non dà protezione nemmeno alle donne vittime di abusi, concede la protezione a quattro migranti irregolari.
Ecco ve li presento sì. Gara Mamadou senegalese 26 anni, Minteh Brian senegalese 43 anni, Alinno Chima nigeriano 46 anni, Yusif Salia ghanese 32 anni.
Gara Mamadou che per darsi un tono ha detto anche che con Desirée aveva una storia, aveva un permesso di soggiorno scaduto. Dopo aver venduto borse contraffatte, spacciava. Sopra la sua testa pendeva pure un provvedimento di espulsione firmato dal prefetto di Roma il 30 ottobre 2017. Un anno fa. Ma era ancora qua.
Brian Minteh: irregolare pure lui. Ad agosto 2017 aveva chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari. In attesa di un rinnovo mai emesso, continuava a spacciare e viveva in una roulotte.
Alinno Chima aveva un permesso di soggiorno per motivi umanitari, uno di quelli che ti danno se per caso ti presenti davanti al giudice con la letterina dell’amico gay, rilasciato dalla questura di Roma e scaduto il 13 marzo 2018. Irreperibile pure lui. Si manteneva con lo spaccio.
Yusif Salia invece quando l’hanno trovato, aveva dato un nome falso agli inquirenti e si era pure tagliato i capelli per rendersi irriconoscibile. Lui era titolare di un permesso di soggiorno per motivi umanitari rilasciato da Questura di Napoli nel 2012 e scaduto quattro anni fa. Lo hanno trovato con droga una pistola giocattolo e Dio solo sa cosa.
Ecco questo sono i figli di quell’Italia che accoglie e che pretende di fare accoglienza lasciando la gente in mezzo alle strade a spacciare violentare stuprare dormire per terra. Ma non è questione di essere stranieri sapete. Il Mostro del Circeo era italiano. Quello che quest’estate ha ammazzato la moglie finendola a botte era italiano. Quello che avrebbe fornito la droga a questi quattro presunti assassini era italiano.
Qui il problema è che non si è in grado di garantire una sicurezza degna di questo Paese. Il problema è che ci sono pene misere per quattro stupratori che non meriterebbero nemmeno un ergastolo. Qui il problema è che sono arrivati tutti, che ci avete lucrato, ci avete fatto i soldi, per poi metterli sulle strade. L’Italia è diventata la terra di nessuno dove tutti possono arrivare e chiunque è libero di uscire, di passare, per poi un giorno scoprire che qualche terrorista che si è fatto saltar per aria era transitato per Venezia.
Qui il problema sono le nostre città con interi ghetti che finiscono nelle mani di irregolari, di clandestini, di spacciatori, di delinquenti.
Questo è il problema. E lo squallore è che mentre voi vi preoccupate di twittare, di fare i post su Facebook, di dire l’ennesima stronzata che vi passa per la testa per guadagnare migliaia su migliaia di euro al mese, la gente fuori muore. I ragazzini vengono lasciati allo sbando perché con la vostra dittatura li volete ignoranti, le famiglie si sfasciano anche perché non arrivano nemmeno più a fine mese, i giovani con il vostro concedere tutto li avete messi allo sbando in una società che non è in grado nemmeno di dare da mangiare ai gatti o ai cinghiali, figuriamoci di proteggerli e di garantire e far maturare loro dei valori solidi e duraturi. E poi questi migranti irregolari, che voi non avete saputo gestire. E che ora sono qui a girare per le strade. Qualcuno con vari precedenti penali a carico, qualche altro con decreti di espulsione usati come carta igienica per pulircisi il culo. Qualche altro con qualche bel permesso scaduto usato come cartina per sniffare la coca.
Allora adesso dove siete quando vi preoccupate dei migranti che muoiono di fame e non dei nostri ragazzi che muoiono perché la vita non ha saputo dar loro quello di cui avevano diritto? Dove straminchia siete?
#nottesbetti 

#sbetti ù

 

 

 

Questo Paese di coglioni, che rivendicano le pisciate negli autogrill

62308495_10219515083327167_9091451411983499264_n

Allora adesso volevo dire una cosa a questo Paese di malati convinti, che rivendicano pure la paternità delle pisciate in autogrill.
E allora vi volevo dire cosa sì.
E vi volevo dire cosa ho imparato da queste campagne elettorali.
Allora la settimana scorsa riflettevo. E riflettevo. Riflettevo ma non trovavo le parole. Il modo per dirlo.
Ma oggi il mare, il mare ha permesso che i miei pensieri prendessero una forma. Che si allineassero. Che funzionassero come quegli album da colorare per bambini dove unisci i puntini e vieni fuori il disegno. E così lì sul lungo mare l’ho lasciato formare. Ho lasciato che si formasse. Poi, poi l’alcol ha preso il sopravvento. Gli amici. Il tabacco. La musica. La festa. La salsa. La playa. E non c’ho più pensato. Ma ora.
Ora che è tutto più delineato. Che l’alcol ha lasciato sfogare la gioia, ecco ora vedo ancora più nitido di come lo vedevo prima. Il disegno non solo ha unito i puntini. Anzi lo ha perfino colorato. E allora dicevo.
Allora seguendo queste campagne elettorali ho imparato che si può lavorare bene. Che si può lavorare in squadra. Che ci sono belle persone che meritano fiducia. Che hanno voglia di fare. Dei progetti da realizzare. Dei sogni da soddisfare. Delle idee da portare avanti, dei piani da portare a termine. Poi ho imparato che ci sono belle persone, che sono quelle che ti stanno accanto, che non ti mollano, che ti aiutano, che ti sostengono, che ti dicono: “non la mollo, lei non la mollo”. Che anche alle due di notte quando tutto è finito sono lì ancora a fare il tifo per te.
Insomma quelle che ti fanno vedere che nonostante gli impedimenti ci sono. Nonostante la salute. Nonostante tutte le cose che la vita può mascalzonamente metterti difronte.
E poi ho imparato che ci sono persone che ci credono. Che si mettono in prima linea, che ti sostengono, che lavorano, che fanno il lavoro dietro le quinte e che ci credono veramente. Passano ore a far fumare il cervello con qualche idea, proposta, qualche immagine, qualche slogan. Credono in quello che fanno e in quello che fanno metterebbero tutti loro stessi.
Poi ho imparato che ci sono le persone che amano la cultura. L’arte. La vita. Ho sempre ammirato le persone che si informano, che ascoltano, che hanno sete di conoscenza e voglia di imparare. Le persone che si pongono dubbi. Che fanno domande. Che condividono. Poi ho imparato che ci sono persone che per il loro paese, per il posto dove sono nati,
per far crescere bene i loro figli, darebbero l’anima, senza chiedere nulla in cambio. Sono volontari. Organizzano feste. Montano, smontano palchi. Mangiano tutti assieme e condividono le cene.
Ma poi. Poi ho anche imparato ed è la parte più triste, che la gente se vuole sa essere cattiva. Senza senso. Becera. E gretta. Attacchi personali. Video che non farebbero ridere nemmeno i polli castrati. Vignette che mio Dio apriti cielo se questo è il sarcasmo buttiamoci da un ponte, attacchi all’interno delle stesse liste. Delle stesse coalizioni. Prese per il culo da una parte all’altra con post su Facebook, millantate asfaltature elettorali, offese gratuite, illazioni su programmi copiato, idee prese da chi, da chissà chi, e ancora il meglio di chi. Come se in un paese nessuno pensasse di mettere le aiuole in fiore, i libri in biblioteca, le aule studio negli antichi rustici, i posti letto negli ospedali, i parcheggi nei parcheggi cazzo, e gli appartamenti in mezzo alle piazze. Sono anni che nelle campagne elettorali le proposte sono sempre quelle. E sono anni che c’è sempre qualcuno che tenta di attribursi la paternità dell’idea. Qui in questo mondo di coglioni che rivendicherebbero la pisciata perfino dentro i cessi degli autogrill. E poi. Poi. Sono anni che assistiamo a campagne pietose. Cagacazzi. Senza smazzi. Amministrazioni che realizzano lavori gli ultimi tre mesi del mandato. Gente che cinguetta come le cicale che non sanno cantare. Figli di padri insoddisfatti dalla vita. Gente avida di potere. Bramosa del trono. Foriera del lancio di spade. Gente che accompagna gli elettori al voto. Gente che fa campagna elettorale perfino nei cessi delle scuole. Gente che se qualcosa non va bene, chiama la stampa, la controlla. Personaggi senza palle che pur di entrare rinnegherebbero pure la loro madre. Gente che non ci crede. Che non si sa perché lo fa. Che non si perché è là. Chi ce l’ha messa. Chi gliel’ha fatta. Come straminchia avrà fatto mai a prendere voti.
Ma poi.
Poi mi sono accorta di una cosa. Ed è ancora più triste della più triste. La più grave. Ed è quella del sotto scacco. Del tenere la gente come cazzo pare a te. Del non rispetto. Della mancanza di tatto. Qualche volta perfino del ricatto. “Se non fai come dico io, ti rovino”. “Allora tiro fuori le cose”.
E qui parlo in generale.
Perché allora sapete a me non ricatta un cazzo di nessuno. Nessuno. Ma proprio, proprio nessuno. E quando hanno provato a ricattarmi, non hanno mai vinto.
Però volevo dire una cosa a chi sta leggendo e si sente coinvolto.
Che questa azione così ignobile e meschina, prima o poi finirà. Perché non è che sia una buona cosa. Sì insomma la pratica del: “se non è come dico io, io parlo male di te, io ti prendo per il culo”, non mi sembra sia un comportamento corretto.
Ma prima che corretto non mi sembra nemmeno sia un comportamento lecito. Lecito dal punto di vista della legge.
Ve ne siete dimenticati?
O avete bisogno di un ripasso di diritto?
Vi auguro tante belle notti.
Sogni d’oro.
#sbetti

Santa Maria di Sala c’è! Giro d’Italia

Dal diario di Facebook del 30 maggio 2019

🏁💪 È il mondo che esplode in un’energia pazzesca. E io ho ancora i brividi. #SantaMariaDiSala c’è!

Santa Maria di Sala c’e! Allora oggi a Santa Maria di Sala #Venezia è arrivato il Giro d’Italia. Sì il Giro d’Italia. Quel Giro dove i ciclisti corrono lungo lo stivale e arrivano stremati a fine corsa. A fine tappa. E oggi, per la 18 esima tappa, la Valdaora – Santa Maria di Sala, era un’esplosione pazzesca. Fotografi allineati. Tribune anche. Tecnici. Giudici di gara. Ammiraglie. Squadre. Direttori di gara. Direttori sportivi. Meccanici, medici, mister. Massaggiatori. Tutti pronti in prima linea per un evento storico. Epocale.

Il signore che vedete in foto, quello completamente a sinistra, tale Bruno Carraro, ha lottato anni per portare l’arrivo di una tappa del Giro qui. E alla fine c’è riuscito! Eccome se c’è riuscito. E oggi, oggi il paese era invaso di gente, musica, giornalisti, Tv, televisioni, conferenze stampa, interviste, dichiarazioni dell’ultima ora, elicotteri in sorvolo. Poliziotti spianati. Tutta Italia oggi collegata ha visto l’arrivo della 18 esima tappa. Riprese dall’alto, inquadrature, cameraman. E poi, poi le autorità il sindaco di Santa Maria di Sala Nicola Fragomeni che arriva sgargiante e sorridente come non mai. Il Governatore del Veneto Luca Zaia, che perfino i bambini lo fermano per strada per chiedergli un selfie. “Guarda guarda quello è il presidente del Veneto – fa un bimbo – io voglio una foto! Papà aspetta la foto con Zaia!”. E poi il sindaco della Città Metropolitana Luigi Brugnaro che saluta tutti. Tutti camminano trionfanti verso il palco. Dietro sta il codazzo di fotografi, addetti stampa, collaboratori, portavoce, guardie del corpo. Si corre a più non posso. Perché manca poco. Manca poco a questo arrivo così tanto atteso da anni. E allora ci si comincia a tenere in contatto. Con chi controlla la gara dall’altra parte. Mancano 60 chilometri. Mancano 20 chilometri. Mancano 10 chilometri. I messaggi su whatsapp iniziano ad arrivare. Sono a Moniego. Sono a Noale. Manca poco. Massanzago. San Dono. Manca poco. 450 metri. La musica che va. Lo speaker che parla. Italiano. Inglese. Duecento metri all’arrivo. I politici schierati sul palco. I fotografi in prima linea. La macchina di “inizio corsa” in lontananza. Le bandierine che sventolano. La polizia che avanza. Le sirene. I lampeggianti gialli. La gente che inizia ad animarsi. A farsi strada, a guardare, ad aguzzare la vista. Le motociclette che arrivano. Sorpassano il traguardo. Tutto è ripreso dai maxi schermi su sfondo rosa. Tutta Italia sta guardando. Le ammiraglie che arrivano. Lo scatto. La volata finale. Mancano solo loro. Gli atleti. La gente che inizia a fare il tifo. E poi lui. Il primo, Damiano Cima, che taglia il traguardo in un crescendo di energia! E allora sì! Santa Maria di Sala c’è! Santa Maria di Sala oggi più che mai!

E allora avanti sempre! Spingersi fino in fondo! Oltre il traguardo!

E complimenti a tutti!

#sbetti

#chiudetequellecazzodiporte

Poi accade sempre qualcosa. Sempre. E allora ci sono dei giorni che pensi che forse non sei fatta. Che non fa per te. Sì insomma che la scrittura, questa compagna così assoluta e indivisibile, sebbene parte di te, non faccia per te. Capita. A chiunque. Solo gli stupidi non si pongono dubbi. Capita sapete. Mica sempre. Mica spesso. Ma qualche volta capita. E tutte le volte che mi è capitato, c’è sempre stato qualcosa che tornava a prendermi. E allora stamattina mi hanno chiamato. Ma ero in doccia e non ho sentito. Dovevo preparami. Allora esco dalla doccia e vedo quella chiamata. Così mi sono detta: intanto mi vesto, poi richiamo. Ma tempo mezzo minuto su whatsapp mi arriva un video. Lì per lì non ci faccio caso. Sembrava uno di quei video che la gente gira così alla cazzo. Con qualche satira. Freddura. O chissà cosa. Tanto che a chi me l’aveva inviato rispondo: “non posso ora, devo andare. Dopo guardo”. Non avevo capito fosse un video vero. Una cosa reale. Una tragedia sfiorata. Non avevo capito che quello che trasmetteva il video era appena accaduto a Venezia. Anzi. Era ancora in corso. Ma poi. Poi mi scrive un contatto e mi avvisa del caos. Tutto il mondo sapeva. E allora lì. Lì è un attimo. Mi ero messa a bere caffè seduta sul tavolo con i piedi piantati sul banco della cucina. Balzo dal tavolo. Avviso la redazione. Capisco che la cosa è seria e annullo tutti gli impegni della giornata. Quando hai una priorità devi concentrarti e andare avanti dritta solo su quell’obiettivo. Taccio tutti i gruppi whatsapp. E comincio. Qualcuno mi scrive “ma dove sei?”. Ma io non posso. E allora. Allora inizio a seguire questa storia. Queste Grandi Navi. Questa tragedia sfiorata. E da lì è un crescendo. Vigili. Soccorsi. Forze di polizia. Sommozzatori. Carabinieri. Polizia locale. La gente che urla. Che impazza. Qualcuno che piange. La gente che grida. La sirena che tuona. Il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Il Governatore del Veneto Luca Zaia. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli. Quello dell’Ambiente. I testimoni. I racconti. Le testimonianze. Le notizie che si accavallano. Forse è successo perché. No è successo perché così. No perché colà. La Lega che dà la colpa ai Cinque Stelle. I Cinque Stelle che danno colpa alla Lega. È tutto un crescendo di battute a suon di post. Di tweet. Di madonne. Di #cazzoapritequellecazzodiporte. Un crescendo di ultime novità. Di aggiornamenti. Di vertici. Di incontri. Feriti. Come stanno. Quanti sono. Le Grandi Navi. La Giudecca. Le polemiche. Malamocco. E così. Così dopo aver preso giù tutto. Studi. Accendi il pc. I dati. I numeri. La stazza della nave. I passeggeri. Le persone. L’altezza. La lunghezza. Il peso. E poi. Poi ti butti. I pezzi. Il lavoro di squadra. E si comincia a scrivere. Prima una parola. Poi un’altra. Poi un’altra ancora. E giù via come all’infinito. E allora ti chiedi se fa ancora per te. Se fa ancora ancora e ancora per te. Gli amici ti chiamano. Dove sei? È pronto il pranzo. Ma mentre scrivi e le parole scivolano via come l’acqua scandendo le battute a suon di sigarette, ti dici che sì. Che questa vita fa ancora per te. Perché dal giornalismo e da questi racconti di vita, ti senti ancora viva. Semplicemente viva.

E oggi, tra poche ore per chi ancora non dorme, ci trovate sul #Giornale.

#sbetti