Io li ho visti bere anche dalla pioggia

Dal diario di Facebook di un anno fa. 14 giugno 2018

Ho scattato questa foto dodici anni fa. Dodici anni fa. Era novembre. Novembre 2006. Tanzania. Uno di quei giorni dal 4 al 15. Non mi ricordo bene quando. So solo che era il 4. Milano Malpensa. Quel Boeing in decollo. Allora ricordo che era freddo. Ma un freddo cane. Ma lì, lì era caldo. Un caldo infernale. Un caldo da Equatore. Allora ho ripreso in mano questa foto. Perché l’altro giorno una mia collega mi ha detto: “Sai oggi è la giornata contro lo Sfruttamento Minorile”. Già. Vero. E mentre me lo diceva questa foto cominciava a danzarmi tra le tempie. Questa. Questa che vedete qui. Uno scatto fatto per caso. Senza posa. Né aspettative. Qui mi innamorai della fotografia. Ancor di più, di quello che già fossi. E qui capii che nella vita bisogna sempre spingersi oltre. Perché non sai cosa potresti trovare dopo. Un attimo prima di svoltare l’angolo. Non sai mai cosa ci sia davanti a te se ti volti prima e torni indietro.

Allora questo era uno di quei giorni caldi, sotto l’Equatore, in cui rientravamo dal mare. Anzi dall’Oceano. Quello grande. Quello bello. Quello Indiano. Quello che di mattina si rattrappisce, di giorno si sparpaglia e di notte si appisola. Quello che di notte fruscia come fruscia il fruscio del vento sull’acqua e quello che di notte le stelle sembrano formine giganti attaccati alle pareti scure del colore della notte. Anzi ti sembrano così talmente vicine che sdraiata a terra e fumando una sigaretta il fumo sembra quasi spegnerle. Inondarle. Quelle stelle così vicine che se alzi il braccio al cielo ti pare di afferrarle. Dio come è bello il cielo in Africa. Insomma quelle che hai perfino paura a cercare di acchiappare perché hai paura di sgretolare. Quelle che il cielo è sempre sereno e la notte pure. Quelle che, disposte in fila o in cerchio, guardando l’oceano, percepisci che la terra è tonda e tu, tu stai dall’altra parte. Allora ricordo che quel giorno tornando dal mare con in mano la macchinetta fotografica e in spalla il marsupio verde militare, ci addentrammo in un posto sperduto. La sabbia era bianca. Ma bianca che più bianca non si può. Talmente bianca che sembrava neve. Borotalco. Farina. E talmente bianca e così soffice e bella che non appena sollevavi il piede da terra, non rimaneva nemmeno l’impronta. Poi proseguendo, giù di lì. Dalla parte dell’entroterra stava un bazar. Una costruzione bianca. Con quattro pareti e un tetto fatto di legno. Una tinta colore bianco sporco. E dei merletti decoravano la facciata. E sulla parete sopra una porta chiusa stava una scritta a caratteri cubitali: “Armani”. Ancora ce l’ho quella foto. E ancora dentro di me nitido quel ricordo. Ma il bazar era chiuso e non si poteva entrare. Quei bambini invece, quei batuffoli appisolati e stanchi, con quelle maglie raggrinzite e con quegli occhioni scuri dai contorni bianco luce da guardare, se ne stavano lì, appesi agli alberi o sotto il sole. Nell’attesa di vedere venduto qualche quadro fatto a mano. Qualche tela. Qualche scacchiera di marmo. Qualche souvenir. E infatti tra i bimbi c’era chi vendeva le tele dipinte semplicemente con le dita intonse nel colore. Poi c’era chi partecipava alla contrattazione. Chi aveva le dita sporche di nero fuliggine, nero ebano. Ed erano i più tristi. Quelli che costruivano le statuette portafortuna con le loro mani e le intarsiavano con le loro unghie. Le dita erano consumate dallo sfregamento del legno. Le unghie erano appuntite per fare da coltellino. E se volevi sulle statuette ti incidevano perfino il nome. Ecco, io quelle statuette non le ho comprate. Mi sembrava brutto tornarmene a casa con in valigia una statuetta fatta da un bimbo con gli occhi neri come il carbone, i contorni bianchi come i raggi del sole e le dita appuntite come un coltellino. Sì insomma mi sembrava brutto riportare a casa un qualcosa per cui qualcuno aveva speso tempo fatica e pure gli anni dell’infanzia. Allora stasera mentre tornavo a casa la musica alla radio cantava Teach Me Again di Tina Turner ed Elisa. E all’inizio la canzone dice: “What’s it to walk on a silent road, to be thirsty and wait for the rain? What is it like? – Com’è camminare lungo una strada silenziosa? Avere sete e aspettare la pioggia?”.

Già com’è. Ecco e allora quei bambini. Io li ho visti.

E li ho visti bere anche dalla pioggia.

#nottesbetti

#buonanottesbetti 🌙✨🌙 🇹🇿

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