Lettera a Luca

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La morte non ha mai senso.
Ma quella dell’addio di oggi. Quella dell’addio di oggi ancora meno.
Quella di Luca Russo morto il pomeriggio del 17 agosto sulla Rambla per mano dei terroristi islamici, ancora meno.
È una morte che non si può vedere. Che non si può pensare. Che non si può nemmeno immaginare. Eppure c’è. In tutta la sua brutalità c’è.
L’attesa a Bassano è snervante. Il funerale stesso è un’attesa.
Non si vede l’ora che passi.
L’ora che vada via. Non si vede l’ora che quel momento anche se ti tiene attaccato per l’ultima volta alla persona cara passi, passi il più in fretta possibile.
E non per egoismo ma perché è giusto che sia così.
Perché è giusto salutare una persona lasciando che al posto delle lacrime poi sgorghino i sorrisi. E in quei momenti no.
Non si può. È difficile. Tutto tremendamente difficile. Perfino piangere è difficile. Le lacrime richiedono sforzo. Fatica. Dolore. Esasperazione.
Bassano oggi é sotto choc. L’attesa che avvolge questa città così signorile ed elegante, con le due piazze unite da un fiume di persone e con i merletti della torre dell’orologio che segnano le 16.20, è snervante, asfissiante.
Asfissiante come il caldo che soffoca Bassano e snervante come il dolore che cappia il collo.
I negozi sono chiusi per lutto cittadino, il silenzio è assordante, l’aria è irrespirabile, la gente per strada cammina attonita, incredula, sbalordita.
Fiumi di persone e onde in mezzo alla piazza per dare l’ultimo saluto a Luca.
La gente si fa forza.
Una forza che forse non credeva di avere. Una forza che tiri fuori quando capisci che volevano abbatterti ma non ti hanno abbattuto. Perché Luca vive in quei sorrisi, in quei volti sfigurati dal dolore degli amici, dei parenti, dei propri cari.
La sorella di Luca precede quella bara avvolta nel tricolore con in mano un mazzo di girasoli. La bara di Luca è sorretta a spalla dagli amici, i volti degli amici sono rossi, pieni di pianto, gli occhi sono gonfi di dolore.
Le mascelle reclamano rabbia.
Una rabbia sterminata. La rabbia verso chi ha commesso questo, verso le bestie assassine, una rabbia che nonostante il caldo e la fatica fa condurre loro la bara con forza e vigore. Quello stesso vigore che ha usato Marta quando ha parlato rivolgendosi a Luca.
Lei ha letto un passo del Piccolo Principe. “Le stelle mi fanno sempre ridere e così il piccolo principe se ne andò senza fare rumore… In questo pezzo Luca era il piccolo principe anche se per me era un grande principe. Spero che guardando le stelle vi ricordiate di Luca. Auguro a tutti voi – ha detto – nella vostra vita di provare almeno una volta la metà delle emozioni che Luca ha fatto provare a me”.
Marta ha pronunciato queste parole con la forza di chi sa che ora la strada sarà mille volte in salita e che da quella salita guarderà le stelle. Una forza e un coraggio in quella ragazza che solo a sentire il timbro della voce mette i brividi.
Come quelli che ho avuto io quando ho visto i militari dell’Arma sull’attenti al passaggio del feretro. I sindaci avvolti nel tricolore con gli occhi increduli. E il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, con quello sguardo che sembrava dire: “Non si può morire così, ancora il Veneto, ancora un’altra volta noi”. Già il Veneto. Luca Russo. Valeria Solesin. Ieri finché facevo la strada dell’andata per andare a Bassano e poi quella del ritorno mi tornava sempre in mente quel viso di quel ragazzo. Con gli occhi verdi. Così sorridente, così solare. Mi batteva in testa il nome. Luca. Luca. Luca. Luca Russo. E mi batteva in testa l’immagine di quei marocchini. Di quel marocchino assassino della Rambla. Per tutta la giornata non hanno fatto altro che picchiarmi in testa due parole. Mi percuotevano come la mazza percuote la vittima. Luca Russo – terroristi. Luca Russo – terroristi. Luca Russo – terroristi.
Allora ieri finché guardavo quel feretro mi sono chiesta che senso abbia avuto.
Che senso abbia avuto morire così.
Perché vedete, mentre noi oggi piangiamo, mentre ricordiamo una persona cara che non c’è più, che non può più vivere la sua vita, i terroristi, quei tremendi cani assassini, quelle dannate bestie stanno lì fuori in attesa di colpirci ancora.
Ma un funerale di un ragazzo morto per mano dei terroristi è una cosa che non si deve vedere.
Che non possiamo permettere.
Mentre noi siamo qui loro stanno lì nel loro covo a progettare attentati, a compiere crimini, a mettere in pratica tutto il male
possibile. Se ne stanno lì con il loro sguardo assetato di sangue a mettere in ginocchio il mondo.
Ma loro non ci metteranno in ginocchio.
“Non abbiate paura” ha detto il vescovo di Vicenza ieri.
Anche Giovanni Paolo II lo aveva detto.
“Non abbiate paura”.
Allora sì. Allora basta una volta per tutte. Allora riempiamo le piazze. Viaggiamo, portiamo la nostra cultura fuori.
Riempiamo i cinema, i concerti, i bar, i ristoranti, le strade.
Riempiamo tutto quello che noi giovani possiamo riempire.
Riempiamo la vita con la vita.
Con le nostre stesse vite. Stiamo uniti nei confronti di questi maledetti.
Non facciamoci prendere dalla paura.
Non è così che va il mondo.
Non può essere così. Non potrà mai e poi mai essere così.
Viaggiare. Conoscere. Amare. Credere. Sbagliare. Divertirsi. Progettare. Fanno parte di noi. Di noi che nonostante tutto continuiamo.
Ma anche sognare fa parte di noi.
Ieri finché tornavo a casa da Bassano, Vasco Rossi cantava alla radio “E tu dormi, mentre i miei sogni crollano”.
No Marta. I tuoi sogni non crollano.
Vasco Rossi diceva anche: “Noi siamo liberi, liberi di sognare”.
Sì. Siamo liberi. Liberi. Punto.
#sbetti

A Magdi Cristiano Allam

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Dal diario di Facebook dell’8 settembre 2017

Sei l’unica persona che riesce a non farmi fumare per più di due ore.
Una serata fantastica quella di ieri sera con Magdi Cristiano Allam che ha firmato oltre cento copie del suo nuovo libro: “Maometto e il suo Allah” e ha parlato dei temi di attualità, davanti a una sala gremita di persone.
Un libro quello di Magdi il cui vero autore come dice Magdi Cristiano stesso è Maometto. “Non sono io che racconto la vita di Maometto, è Maometto che racconta la propria vita, attingendo da ciò che lui afferma che Allah gli avrebbe rivelato, sostanziato nel Corano, da ciò che lui ha detto e ha fatto, contenuto nella Sunna, dalla sua biografia ufficiale, la Sira. Tutti i fatti descritti sono assolutamente conformi a quanto è riportato nei testi ufficiali islamici. Sembra di leggere un romanzo. È un susseguirsi di frasi tra virgolette che riportano letteralmente le parole da lui pronunciate. Ci sono fatti realmente accaduti che si sovrappongono alla visione di una realtà inverosimile. Ma è questa la realtà in cui credono i musulmani ed è la realtà che condiziona la vita di tutti noi”.
Temi infatti che dovrebbero essere cari a tutti, se amiamo e se vogliamo salvaguardare il nostro Paese.
Una pizza condivisa in compagnia e condivisa soprattutto con una persona colta, preparata, eccezionale.
Per me davvero un grande Amico.
E nulla mi onora così tanto.
Una persona che ieri mi ha dato un grande coraggio.
Perché in fondo c’è un’ unica cosa che ci mantiene vivi: partire.
Si parte.
Ogni giorno.
E si va avanti.
Sempre.
#buonaseratasbetti

QUELL’UNDICI SETTEMBRE 2001 

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Io me lo ricordo quel giorno. Ero a casa.
I libri di matematica aperti sopra il tavolo della cucina mi mettevano sonno. Un sonno assurdo.
La televisione era accesa e lentamente lasciava scorrere le immagini.
Ho sempre avuto quel maledetto vizio di accendere la tv e mettere muto.
Poi quando c’è qualcosa che mi interessa alzo. Ma lo faccio da quando sono bambina.
Insomma la tv era accesa. Le immagini scorrevano lente. Forse una serie televisiva, una di quelle americane che fanno venir voglia di cibarsi di hot dog e farsi le unghie nelle camere da letto delle amiche salendo per il balcone. Ancora adesso si fa così.
Anche in Italia. Ma anziché dal balcone passiamo per la porta. Almeno io.
Insomma la tv era accesa. Le immagini scorrevano lente. La mia voglia di studiare era pari alla colonnina di mercurio nel Cansiglio d’inverno e il sole splendeva.
Nella stanza accanto stava mio padre, era in ferie e guardava la TV.
La sua però emetteva rumori. Suoni.
Io pensavo che avrei dovuto recuperare un debito in matematica di lì a pochi giorni. Ho sempre avuto il debito in matematica al liceo. Era una cosa che non digerivo. Che nemmeno capivo. Era l’unico quaderno che avrei potuto benissimo aprire al contrario tanto per me era lo stesso. Ma il debito c’era e andava recuperato. Insomma ero lì che studiavo tra un colpo di sonno e l’altro. Erano all’incirca le tre del pomeriggio e a un certo punto mio padre dal salotto gridò: “Oddio, mamma che roba. Accendi la tv. Dio cosa sta succedendo”.
Io all’improvviso alzai la testa.
E già la serie americana aveva dato spazio a una serie che di fantasia non aveva niente. Era tutto reale.
Tutto quello stava accadendo, lì, ora. In quel momento.
Un aereo si era conficcato dentro la prima torre di New York. Si vedeva il fuoco, le fiamme e il fumo fuoriuscire dalle finestre di quell’ immenso grattacielo.
Ricordo che alzai subito il volume. E la mia bocca rimase spalancata. Avevo gli occhi inorriditi. Sbarrati.
Fin da ragazzina ho sempre avuto il mito della Statua della Libertà, delle Twin Towers, di questi enormi grattacieli che grandi come titani, immensi come colossi grattano il cielo della Città di New York.
Ricordo che però all’inizio nessuno capiva bene cosa stesse accadendo.
La prima torre cominciava lentamente a incendiarsi.
Sotto le immagini che finivano in tv riprendevano le persone con il naso all’insù, la gente che urlava, la gente che scappava.
La gente che straziava.
Sembrava la fine del mondo.
Poi d’un tratto la fine del mondo veramente arrivò.
Un altro aereo in diretta televisiva, con tutto il mondo posizionato su quei canali, andò a conficcarsi dentro la seconda torre.
Allora lì il mondo ebbe la conferma. Impossibile un altro incidente.
Di attentato terroristico si trattava.
Ricordo che camminavo su e giù per la stanza, giravo su tutti i canali, ma tutti i canali davano quelle immagini. Tutto era vero. Non c’era niente di recitato. Di inventato. Di virtuale. Di fittizio.
Allora comincia ad andare dalla cucina al salotto, dal salotto alla cucina. Poi uscii in giardino e lì, i miei che ancora non sapevano che fumassi, andai sul retro e mi accesi una sigaretta. Tornai dentro.
E in diretta. In diretta. In quella stramaledettissima diretta vidi la prima torre sbriciolarsi e cadere a terra come si sbriciola una torta di pastafrolla fatta da una settimana.
Era l’orrore.
Dalla seconda torre le immagini riprendevano una persona, poi si seppe che era una donna, che si affacciò al balcone e si buttò giù.
Era l’apocalisse. L’Armageddon.
Allora arrivò la notizia che un altro aereo si era schiantato. Era caduto sul Pentagono.
Sì. Era un attentato.
Ancora però non sapevamo bene da parte di chi. Il mondo non capiva. Non sapeva. Non comprendeva.
Dopo un po’ crollò anche la seconda Torre.
E tutto intorno era caos, macerie, uomini, donne, anziani, bambini. Tutto intorno era la polvere.
In mezzo a quella polvere ci stava tutto quello che dal 2001 ancora siamo costretti a sopportare. Perché da lì è partito tutto.
Le macerie. La polvere. Gli attentati. Le grida. La disperazione. I fanatici.
La nostra sottomissione.
#sbetti

Questa è Bruxelles

22090025_10214335003588411_7152690249096369088_nScrivo da un taxi.
Sono all’incirca le sei di sera del 25 settembre 2017.
Benvenuti a #Bruxelles, la capitale europea credo con la più alta concentrazione di musulmani.
Almeno a vederli. Almeno a incrociarli.
Almeno a ritrovarseli. Ovunque.
Almeno a ritrovarseli davanti: nelle strade, nei bar, nelle piazze, nei ristoranti, dentro i taxi, lungo le vie, seduti sui sedili del treno.
Spuntano. Spuntano ovunque.
Spuntano dappertutto e non te ne accorgi. Spuntano come le immagini di un videogioco che fa apparire e scomparire i nemici che ti potranno colpire.
Uno non fa nemmeno in tempo a vederli che scompaiono, ricompaiono e ne appaiono altri. E la maggior parte, la maggior parte, dall’aspetto discutibile: barbe lunghe e incolte, turbanti in testa, tonache lunghe, volti coperti e sguardo minaccioso.
A sedici minuti dal quartiere di Molenbeek, nel pieno cuore di Bruxelles, gli islamici compaiono in ogni dove.
Una stazione alla radio di quel taxi guidato da un arabo sembra dire: “Benvenuti a Bruxelles, la capitale più islamica d’ Europa”.

Gli islamici sbeffeggiano le donne occidentali, parlano lingue incomprensibili e le donne passeggiano con ventitré gradi all’ombra con il velo che affanosamente ricopre loro la testa, con quel vestito lungo fino ai piedi, con sotto i jeans e con quelle scarpe stramaledettamente coperte.
È questa la Bruxelles. La parte islamica.
Quella che si insinua e si incunea nella parte occidentale fino ad arrivare a schiacciarla.
Appena ci si avvicina al Parlamento Europeo una scritta ci colpisce “The future of Europe”, il futuro dell’ Europa, poi poco più in là sta un cartello: “Expo Islam”.
Un evento dal 15 settembre al 21 gennaio 2018.
Cioè a Bruxelles. La nostra Bruxelles.
La capitale dove siede il Parlamento Europeo, dove ogni giorno giovani di tutte le nazionalità entrano dentro quel contenitore di progetti, di sudore e di sputare sangue, e dove ogni giorno escono alle nove di sera, mangiando insalata e bevendo Coca Cola Zero da una scrivania, lì a pochi metri dal cuore della capitale più capitale sta un cartello per indicare che l’islam è arrivato.
Qui, per guadagnarsi un posto ai comandi del mondo che conta.

Perché Bruxelles fa paura. Fa davvero paura. E io davvero, paradossalmente, mi sentivo più sicura a Pristina.
Centinaia e centinaia di tunisini, marocchini, bengalesi, pachistani e Dio solo sa chi altro ancora.
Fiotti di persone che si riversano nella Piazza Centrale di Bruxelles, definita come la piazza più bella del mondo.
E che forse lo è. Lo è davvero.
Finora, di quelle che ho visto, quella di Bruxelles le batte. Le batte tutte. Solo la piazza della mia Ascoli Piceno sta ancora in cima.
Ma in quella piazza, nella Grand Place di Bruxelles, in quella piazza definita da tutti, la piazza più bella del mondo, non ci sono i tanto conclamati new jersey, messi perfino per la fiera degli asini di un paesino di campagna. No.
Non ci sono i tanti controlli e mitra spianati, e non ci sono nemmeno le tanto acclamate misure di sicurezza.
Almeno a guardarsi attorno. Non ci sono i controlli in una calca di persone che poco ci mette a trasformarsi in un delirio.
Non ci sono.
Solo all’una di notte vediamo a mala pena due agenti girare per le strade.
Strade piene di giovani, di gente che si ritrova per bere una birra, strane piene di occidentali che vivono la loro vita tranquilla mentre accanto stanno sospettosi e minacciosi i musulmani.
Ecco questa é Bruxelles con i kebabari aperti fino alle sei del mattino. Con i locali stracolmi, che traboccano di islamici, e che al solo pensiero del Bataclan, mettono tanta, tanta voglia di andarsene.
Questa è Bruxelles dove i negozi che spuntano e proliferano sono quelli degli islamici. Questa. Terribilmente questa è Bruxelles.

continua…

LETTERA A CLINT EASTWOOD

Quando il 16 agosto scorso ho visto #Clint #Eastwood a #Venezia, mi sono chiesta se veramente fosse lui l’uomo che riempiva i miei pomeriggi invernali da bambina, quando con mio nonno nelle Marche guardavo la tv.
Se veramente fosse lui l’uomo con il cappello da cowboy che guardavo da ragazzina.

Se veramente fosse lui quel cowboy con lo sguardo così intenso di “Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più” o “Il buono, il brutto, il cattivo”.

Mi sono chiesta se fosse lui con la sua sigaretta tenuta tra quelle fine labbra che riempiva le mie domeniche pomeriggio prima di Natale quando ancora si viveva il presente e i ricordi erano appannaggio dei vecchi.

Ma soprattutto mi sono chiesta se fosse lui quello che ha riempito le mie serate al cinema, quando i ricordi avevano preso il sopravvento, e quando basta un film per non pensare.

Così come mi sono chiesta se fosse lui “l’Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo”. O se fosse lui, lì davanti a me, a mezzo metro da me, in grado di partorire e far nascere capolavori come Hereafter, American Sniper, Million Dollar Baby o Invictus.

Ma soprattutto mi sono chiesta se quella persona lì davanti a me ieri, con il panama beige, la camicia a maniche corte e le scarpe da trekking fosse la stessa che è riuscita a generare una pellicola come Gran Torino. Per me l’apoteosi del cinema.

L’unico film che mi ha fatto piangere per mezz’ora abbondante. E chi era con me lo può confermare. Ricordo che quel giorno al cinema, alla fine, le lacrime scendevano come fiotti senza arrestarsi. Inondavano quella sala come l’acqua scorre sulle grondaie.

Un film che a chiamarlo film è poco. Perché Gran Torino è un’opera d’arte.

Vi giuro che ieri quando mi sono trovata davanti Clint Eastwood, l’uomo che ha partorito una così simile creatura cinematografica, mi stavo sentendo male.

Le gambe hanno cominciato a tremare. Ero incredula. Avrei voluto cominciare a piangere ma non l’ho fatto. Solo i brividi ho lasciato che corressero lungo le gambe e le braccia. Poi mi sono guardata attorno. Ho guardato il sole. Ho pensato ad altro per trenta secondi e ho riposato lo sguardo su di lui.

E allora sì. Mi sono resa conto. Era lui. Lui. Davanti a me. A mezzo metro da me. Lui in carne ed ossa. Quel volto, quello sguardo, quegli occhi così vispi e attenti. Quel passo così felpato e atletico. Quel portamento così signorile. Quella voglia di cominciare a lavorare sul set che gli si leggeva in faccia, quella capacità di essere elegante anche in scarpe da ginnastica, quel portamento e quel fisico che avevo sempre e solo visto nei suoi film, quell’uomo che guardavo da bambina e di cui ero e sono innamorata da donna, era lì davanti a me. Mi si era materializzato davanti.

All’inizio era impossibile crederci.

Il giorno che al cinema vidi Gran Torino, me ne andai da quella sala pensando che avrei voluto Clin Eastwood in quel momento per poterlo abbracciare.

Poi quando tornai in me, dopo le lacrime, i singhiozzi e i pianti, mi resi conto che mai lo avrei abbracciato, mai lo avrei incontrato.

Mai lo avrei soprattutto visto. Ecco. Ieri una cosa l’ho capita: che se un giorno ti capita di pensarlo, un altro giorno potresti addirittura ritrovarti a farlo, perché alcuni sogni e desideri, prima o poi, si avverano.

#buonanottesbetti