Quando ho intervistato l’unico sopravvissuto della sua famiglia ad Auschwitz mi sono sentita male

Quando ho intervistato Gaetano Samuel Artale Von Belskoj Levy, l’unico sopravvissuto della sua famiglia nel campo di Auschwitz Birkenau, mi sono sentita male.

La testa cominciò a girare, mi veniva da rimettere, non sentivo più le gambe. Sono dovuta uscire dalla stanza, mi sono fumata una sigaretta, il tabacco mi ha riaccomodato lo stomaco, mi ha rimesso a posto i sensi, ma quando sono rientrata non ero più quella di quando ancora non sapevo. Sono dovuta comunque restare seduta. Non ce la facevo a stare in piedi.

Allora questa mattina l’ho detto a un’amica e lei mi ha detto: “Ogni persona al mondo dovrebbe, una volta nella vita, sentire il bisogno di “sedersi”. Solo quando senti questo bisogno significa che hai intuito il dolore fisico e morale che un altro essere umano ha subito”.

E io le ho risposto: “Schopenhauer”.

Era Schopenhauer che diceva questo. Il mio professore di Filosofia al liceo che era ebreo, sì era ebreo, ci disse una volta: “vi auguro di non capire mai Schopenhauer, perché quando lo capirete, avrete capito tutto il dolore del mondo”.

Già. E allora quando ho intervistato Samuel Artale, non ho capito il dolore, ma l’ho captato.

Era il 13 aprile 1944 quando lui venne deportato nel campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau. Samuel aveva otto anni. Ora ne ha oltre ottanta.

Otto anni quando venne preso, prelevato, e deportato in quel campo di concentramento. Venne prelevato con la sorellina. La madre gli venne abbattuta davanti.

“Una volta entrati nel vagone merci – dice Artale – i portelloni venivano chiusi, sbarrati dall’esterno. Il nostro viaggio durò tre giorni. Nei convogli eravamo ammassati come bestie. Non c’era acqua, non c’erano i servizi igienici, non c’era carta, non c’era cibo. I bisogni corporali si facevano dove ci si trovava, il fetore era terribile. A volte qualcuno moriva durante il viaggio e il corpo veniva usato come sedile perché non ci si stava. Quando raggiungemmo la stazione finale io e la mia sorellina eravamo attaccati alla mano di mia madre; mio padre e mio nonno non sapevamo dove fossero, tutt’intorno era caos. Ci staccarono da nostra madre e lei si oppose. La colpirono e lì fu abbattuta. Giunti alla destinazione le urla erano “Alle runte, alle runte”, “tutti giù, tutti giù”. Chi cadeva veniva immediatamente abbattuto se non si rialzava subito. Giunti nei campi avveniva la prima selezione: chi a destra e chi a sinistra, chi ai lavori forzati e chi subito alla morte”.

Nei campi che il regime nazista aveva istituito, in tutto 1634, con una lista di 12 milioni di ebrei da abbattere, si moriva per denutrizione, per il freddo, per il gelo, per la fatica. Si moriva per un colpo di fucile, per delle frustate. Si moriva nei forni crematori, nelle camere a gas o ci si ammazzava contro il filo spinato. Chi non ce la faceva, decideva di farla finita.

“Nei campi si moriva per un sì o per no – dice Artale – Si moriva perché si camminava svelti, perché si camminava lentamente. Ogni pretesto era pronto per uccidere. La morte sopraggiungeva ovunque, non si poteva toccare il morto, si pensava stesse dormendo. Si moriva sul ciglio di una buca, scavandola, i tedeschi colpivano gli uomini con i fucili e questi cadevano giù. Ma a volte non erano morti, venivano ricoperti di sabbia e la sabbia si muoveva. Le donne morivano sotto il rullo compressore. Dovevano passarlo e ripassarlo, quando una donna per la fatica stremava al suolo, l’altra doveva passarle sopra, senza pietà. Nelle camere a gas gli ebrei venivano trovati ammucchiati. I più forti tentavano di raggiungere il soffitto scavalcando i più deboli. Agli ebrei veniva chiesto di essere pronti per la doccia e i vestiti lasciati in ordine fuori. Una volta dentro i portelloni venivano chiusi. Poi il gas. Pochi minuti e la morte. I corpi dentro al campo di Auschwitz erano ossa, appena ricoperti di pelle. Bastava toccare il corpo con un dito che questo affondava subito sulle ossa”.

Ossa. Come quelle che ci mostrò Artale quella sera in quelle foto. Gli uomini erano pelle e ossa, sorretti da un lembo di pelle.

E tra tutte le cose che ho sentito e che mi porterò dentro, c’è una cosa che in tutto questo mi é rimasta impressa.

Il modo in cui Artale pronunciava la parola campo. Sembrava amplificato. Sembrava una realtà ancora esistente. “Mio campo”, come sé quella cosa esistesse ancora.

Perché è così. Perché è vero. Perché ancora Artale ha ancora i segni delle legnate sulla schiena, ha ancora il timbro con cui lo numerarono. Ha ancora gli occhi grigi che non hanno mai pianto. Gli occhi grigi come la cenere. Come la morte.

Come la neve. La neve di Auschwitz.

“La neve ad Auschwitz non era bianca – diceva Artale – Era del colore del grigio delle ceneri degli uomini che bruciavano. Chilometri di quel filo spinato e di neve color cenere che percorrevano il mio campo”.

Già. Il mio campo. Quel campo dove la sua famiglia venne sterminata. E quando Artale mostrò le foto, durante la conferenza, accanto a me ci stava una bimba. Una bimba che, alla vista di quelle immagini nascose il volto.

Si intrufolò sotto il braccio del padre, cercando protezione.

#sbetti

Il mondo fa sempre gli stessi errori

#Storie2020. Credo che il mondo faccia sempre gli stessi errori. Allora questa sera sono rientrata a casa. Ho acceso la televisione e su Rete 4 ci stava il Viaggio di Fanny, la storia di un’adolescente ebrea che cerca di scappare dai rastrellamenti nazisti, assieme alle sorelle e ad altri bambini.

Se ne devono andare dalla Francia occupata verso la Svizzera.

Insomma accendo la televisione, il film era già iniziato e dopo un po’ ci sta una scena dove un signore dà indicazione ai bambini per scappare. Per fuggire. Per salvarsi. “Colpevoli” solo di essere ebrei.

Allora il signore dice loro: “fate attenzione, scendete giù verso valle, poi girate a destra, poi passate di qua, poi fate attenzione al filo spinato, che è tutto intorno”. Già. Il filo spinato. Allora guardavo questa scena e mi sono venuti i brividi perché mi chiedo come nel corso della storia tutto ciò sia potuto accadere. Come sia possibile anche solo minimamente paragonare queste scene a quelle di oggi.

Poi alla fine del film ci stava quella colonna sonora di Prendimi l’Anima che mi ha fatto trasalire. Tumbalalaika. L’asilo bianco. Sabina Špil’rejn. Era lei la psicanalista russa che nel 1904 si diplomò a pieni voti, ma che poi per una grave forma di isteria venne internata nell’ospedale psichiatrico di Burghölzli di Zurigo. Qui ci lavorava Jung. E fu lei ad avere una relazione con lui. A provarci. A godere di tutta la passione.

Una delle prime donne a svolgere questa professione. Ma nell’agosto 1942 venne ammazzata. I nazisti la massacrarono assieme ad altri 27 mila ebrei e prigionieri di guerra russi.

E allora dicevo che la storia fa sempre gli stessi errori. Perché l’altro giorno sono andata a una mostra e sono rimasta sconvolta nel vedere la deportazione dei giapponesi. Sì. Ho anche provato a chiedere in giro, per vedere se qualcuno lo sapeva. Ma molti. Molti mica lo sanno. A scuola ti insegnano quel cazzo che ti vogliono insegnare. Quello che fa loro comodo. Perché non è bene parlare di alcune cose. Tipo. Perché diamine non ci avete mai parlato di foibe! Perché. Perché siete così codardi da averci insegnato solo la storia a metà. Perché ci avete privato del nostro diritto di conoscerla tutta.

I giapponesi vennero presi e deportati nel corso della Seconda Guerra Mondiale tra il 1941 e il 1944. Il presidente Delano Roosevelt aveva autorizzato l’internamento con l’Ordine Esecutivo 9066 il 19 febbraio 1942.

Dalla mostra si vedono perfettamente alcune scene. “Aprile 1942. San Francisco. Ordine di esclusione civile numero 5 titolavano i giornali: tutte le persone di origine giapponese devono essere deportate in campi di detenzione”. Dicono sia stata una risposta all’attaco giapponese di Pearl Harbor.

O le foibe per esempio. Perché mai non ci avete mai parlato di foibe. Perché mai ci avete sempre e solo insegnato quel cazzo che avete voluto, nascondendoci la storia dei nostri connazionali infoibati. Li legavano col fil di ferro uno a uno e insieme, ancora vivi, li buttavano giù nelle foibe. Erano i titini. I partigiani di Tito. Era il 1942. Ed erano italiani. Istriani. Dalmati. Fiumani.

Ma solo quindici anni fa, nel 2005, gli italiani furono chiamati per la prima volta a celebrare il “Giorno del Ricordo”, in memoria dei quasi ventimila profughi torturati, assassinati e gettati nelle foibe. Solo nel 2005. Cioè ci vollero oltre cinquant’anni per arrivare a parlare di un pezzo di storia.

Inaccettabile. Insanabile.

Perché poi.

Poi due anni fa intervistai Gaetano Samuel Artale Von Belskoj Levy. L’unico superstite della sua famiglia dai campi di sterminio nazisti. E mi sono dovuta sedere perché mi sentii male.

Lui venne deportato nel campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau il 13 aprile 1944.

Aveva otto anni. Ora di anni ne ha quasi 80. Quando mi fece vedere quelle immagini, quel timbro sulla pelle, quelle foto di quelle persone ridotte brandelli, brandelli di carne sorrette dalle ossa, dove se ci affondavi il dito uscivi dall’altra parte, ecco mi sentii male. Dovetti uscire, fumarmi una sigaretta, rientrare e sedermi.

Ma di questo vi racconto domani.

#sbetti

Le minchiate

Mentre osservo tutte le vostre minchiate proseguire, ecco mi chiedo se mai vi rendiate conto di vivere sul pianeta Terra 🌏.

E le sardine. E la manifestazione delle sardine. E lo sciopero dei pinguini. E l’orgasmo dei tulipani. E la marcia dei fenicotteri. E l’esaurimento delle oche. E la cacca negli autobus. E l’ora legale. E la tassa sugli zuccheri. E i centesimi al supermercato. E lo show dei politici. E le vostre comparsate da soubrette allo stadio.

Ecco. E mentre osservo tutto questo mi chiedo se vi rendiate conto che la storia è un’altra. Che la vita si vive sulla terra. Che la gente non ha tempo di stare a sentire le vostre pagliacciate. Le vostre innumerevoli pietose idiozie. Siamo l’unico Paese che si fa ridere in faccia dal resto del mondo. L’unico Paese che ha i giornali internazionali che deridono Venezia. Che ci fottono tutti quanti. L’unico Paese ad avere le sarde in piazze che manifestano contro l’opposizione. L’unico Paese ad avere l’opposizione dell’opposizione. L’unico Paese ad avere un esercito di incapaci che non sarebbe in grado nemmeno di gestire le capre al mercato. L’unico. Perché poi. Poi entri nei negozi dei centri storici e trovi la disperazione. Entri nei bar e trovi che da inizio anno hanno emesso 372 scontrini, il che vuol dire una media di 16 al giorno, che se ti va male sono 17 euro e 60 centesimi di caffè.

E allora tutti bravi ad andare in piazza come sardine, nemmeno sotto sale, senza sapore, insipide, inopportune, insignificanti e protestare contro qualcuno che nemmeno ci sta al comando. Tutti bravi. Ma perché? Perché non scendete in piazza a protestare per i vostri padri che vi parano il culo fino a trent’anni mentre voi poltrite sulla poltrona e sono tartassati dalle tasse? È? Perché? Perché non andate in piazza a manifestare contro le nuove imposte, contro lo scontrino elettronico, contro i centri che stanno chiudendo, contro i paesi che si spopolano? Perché? Perché giusto stamattina parlavo con un titolare di un esercizio commerciale. Ha troppe spese per mandare avanti il suo locale. Troppe. E le tasse da pagare. E le bollette. E il commercialista. E l’impianto nuovo. E l’affitto. E i rifornitori. E l’aumento dei prezzi. E i macchinari. E se ti si rompe un motore. E se ti cade la muffa dal soffitto. E la SIAE. E la tassa sui cessi. E quella sulla sui rifiuti. E quella se caghi fuori dal water. Perché! Perché non andate a protestare per queste persone?

Perché allora adesso per #Storie2020 vi racconto una storia. La storia della tabaccaia Valentina Rampado.

Giusto perché voi sappiate. Giusto perché vi rendiate conto che non viviamo ancora su Marte.

E allora l’altro giorno mi fermo dal tabacchino a Mirano #Venezia perché oltre a dover prendere le sigarette dovevo prendere una marca da bollo. Così entro. C’è un po’ di coda, una di quelle dell’ora di punta, dove tutti all’ultimo dimenticano qualcosa, ma la tabaccaia, gentile, serve tutti, sorride con garbo, con stile; quelli che conosce li chiama pure per nome. Insomma sono lì che osservo la scena quando tocca a me. Allora le dico che mi serve una marca da bollo da due euro e lei mi dice “ok”. Così attiva l’aggeggio, io intanto aspetto, viaggio con la mente su cosa avrei dovuto fare, su cosa prevedeva l’agenda, quando dalla macchinetta, quella che vedete in foto,non esce una marca da bollo, ma ne escono due.

Allora Valentina mi fa: “eh capita, da quando ci hanno cambiato le macchinette dandoci queste nuove, capita. Con quelle vecchie non capitava mai. Uno pensa che quelle nuove siano migliori e invece”. Invece pippa.

Anzi. Non solo. Mi dice anche che quelle vecchie erano gratuite e queste se l’è dovuta comprare oltre ad avere un canone annuo.

Così io le chiedo se per lei ci siano costi aggiuntivi sul fatto che esca carta così alla cazzo, e lei mi dice che no, che è carta buttata però.

“Queste nuove non funzionano”, mi racconta.

E insomma queste nuove costano la bellezza di 318 euro, più iva, ovviamente sempre più iva, sia mai, per comprare una macchinetta sputa marche che non funziona.

Anzi. Non finisce qui. Perché Valentina mi racconta che il rullo di carta della macchinetta viene fornito dall’Agenzia delle Entrate, che povera, siccome è troppo impegnata a mandare buste verdi alla gente, non si è ancora adeguata alle nuove macchinette e così manda un rullo ancora omologato per quelle precedenti. Che però è più largo, rispetto a questo. E quindi Valentina cosa fa, onde evitare che il rullo si inceppi, ecco smonta la macchinetta e con molta cautela monta il rullo a mano. Come all’età della pietra praticamente. Beata tecnologia. Già.

Non solo. In tutto questo oltre a tutte le tasse da pagare, nel calderone quest’anno ci hanno fatto pure confluire questa.

Ecco. Allora io mi chiedo una cosa. Ma me la chiedo più forte che posso. La urlo. Ve la sbatto in faccia. Ma proprio non avete un cazzo da fare che andare a cinguettare in piazza inscatolati come sardine?

#sbetti

“Se credi che la felicità sia lì, devi inseguirla”

A mezzanotte passata posso raccontarvi questa storia. Allora anche per #Storie2020 questa è la storia di un ragazzo, che c’ha sedici anni, che è nato il 30 maggio 2003, che il Novecento non ce l’ha nemmeno sulla carta d’identità e che ha un sogno nel cassetto: diventare ballerino. E magari un giorno rappresentare l’Italia nel mondo.

Quando l’ho intervistato e gli ho chiesto se non gli mancasse la quotidianità con i compagni di classe, il vivere le prime feste, i primi amori, mi ha risposto: “se credi che la felicità sia lì, allora devi inseguirla”.

Una frase che mi ha lasciato senza parole. Noi vecchi, così abituati a riempirci di sogni, a riempirci di desideri irrisolti, frustati e frustanti, che ci sfuggono di mano sotto il naso. Anzi ricordo anche che alle sue parole, sono stata zitta per circa cinquanta secondi. Stavo fumando una sigaretta e non riuscivo nemmeno a fare un tiro. L’ho lasciata consumare.

Ho allungato lo sguardo oltre l’orizzonte e ho detto: “cazzo sto ragazzo, c’ha ragione”.

Perché dovete sapere che Riccardo Giorgio Gregolin quella felicità la sta inseguendo e vivendo tutta. Oh sì. Sveglia presto tutte le mattine. Studia dove capita. In pullman. In auto. Quando ha tempo. Fa il liceo delle Scienze Applicate. Il vecchio liceo scientifico. Studia online e prepara compiti e interrogazioni studiando da privatista.

Ma è bravo Riccardo. Basta soltanto guardarlo. Volteggia, si alza sulle punte, sta in volo, atterra sul palco, fisico perfetto.

Ogni giorno si allena dalle due del pomeriggio alle otto di sera.

Abita a Quarto d’Altino e studia danza nella famosa scuola di Castelfranco Veneto Il Balletto Scuola di Danza e GruppoJuniorVeneto- Castelfranco Veneto

Da Quarto d’Altino a Castelfranco ci impiega un’ora, un’ora e mezza.

Quaranta chilometri.

Quaranta chilometri avanti. E quaranta chilometri indietro. E così tutti i giorni.

Ha vinto vari premi e competizioni e ora vola a New York. Ma per andare a New York ci vogliono soldi. Le spese per il volo, vitto e alloggio sono a carico della famiglia. Il padre Michele Gregolin cerca qualche sponsor. E Riccardo qualcuno che ami il mondo della danza, anzi l’arte, e che lo possa sostenere nelle sue trasferte.

Ora su Facebook è partita una raccolta fondi – di cui vi allego il link qui sotto – e c’è già un’azienda di Rubano con l’operazione 300grammi che si è offerta.

“Il mondo della danza è un mondo costoso – ci racconta Riccardo – la mia giornata inizia la mattina presto con lo studio perché comunque continuo a studiare. Il tempo libero è limitato ma tutto questo non mi pesa perché il mio sogno è più importante di tutto il resto”. Già. Zero distrazioni. Tantissima concentrazione. E avanti sempre.

Perché come mi aveva detto un amico fotoreporter una volta, Gabriele Orlini, con cui siamo andati sotto il cavalcavia della tangenziale di Milano a raccontare di migranti, ecco mi aveva detto una frase che fa più o meno così: “perché quando senti i tuoi scarponi scricchiolare, allora è lì, è lì che devi andare”.

E questa storia la trovate sul #Giornale

#sbetti 💙🕺🏿💜

Raccolta fondi 👉 https://www.facebook.com/donate/1689675727833541/?fundraiser_source=external_url

Ve lo metto così di getto come l’ho scritto

Ve lo metto così. Di getto. Come l’ho scritto. Come l’ho scritto quel giorno quando di ritorno da Visso mi sono seduta su una sedia al mare, ho tirato fuori l’iPhone e ho scritto.

Oggi sono entrata nella zona rossa di Visso. In provincia di Macerata. Mi hanno fatto mettere il caschetto. Mi hanno preso. E mi ci hanno accompagnato. Siamo entrati. Il tempo di una manciata di metri, il tempo di superare quella vecchia caserma dei Vigili del Fuoco, dove c’è rimasta un’insegna e dove fuori se ne sta ancora un pupazzo a forma di pompiere, quando superato l’arco puntellato da trivelle e da bastioni di ferro, l’immagine e lo scenario sono devastanti.

Mi sono trovata davanti un paesaggio spettrale. Sembrava uno di quei paesi a fine guerra. Oppure uno di quei film a effetti speciali, dove l’uragano passa e lascia il vuoto. Entrare dentro il centro di Visso è stato come entrate in una bolla.

Il tempo pare fermo. Morto.

Non c’è più niente.

Non c’è un cazzo di nessuno.

C’e solo l’eco delle grida della gente. E c’è la furia della natura. L’ira della terra.

La collera di Dio. Uno non può fare a meno di pensare a come la natura da un giorno all’altro possa distruggerti. Possa prendersi tutto. Possa travolgerti. Possa devastarti. Ammazzarti.

E allora ricordo che oggi quando ho visto questa scena mi sono pietrificata. Mi sono sentita come quella pietra gettata lì a terra in mezzo al cimitero degli abbandonati.

Inerme. Impotente.

Senza la possibilità di poter fare niente.

Ricordo di non aver visto subito questa scena. No. Mi hanno fatto mettere il caschetto. Mi hanno accompagnato nella Zona Rossa, tempo una cinquantina di metri. Si attraversa l’arco e subito dopo la morte.

Non c’è più niente.

E allora mi sono chiesta come possa la natura ammazzare una città intera.

Ma soprattutto come si possa dopo tre anni essere ancora preso come se il terremoto ci fosse stato l’altro ieri.

Case sventrate. Immagini raccapriccianti. Finestre defunte. Porte semiaperte.

Il negozio di parrucchiera dentro c’ha ancora le sedie e gli specchi. Spettrale.

Il lattaio c’ha ancora il secchio con scritto “lavaggio ricotta”.

La casa c’ha ancora dentro il termosifone. I lampadari sospesi nel vuoto e mossi dal vento. Ancora ci stanno gli armadi sottosopra. Con dentro la roba. Coperte. Lenzuola. Panni non stesi ammuffiti dalla muffa. Ci sta lo stendino che spunta dalla finestra. Quel lampadario di un bambino che pende in giù e che nessuno può rimuovere e prendere perché anch’io ho provato ad affacciarmi, a espormi su quelle pietre ma basta una folata di vento e ti sembra che il palazzo crolli.

Che il muro scrostato orami sconquassato e devastato, rigonfio dalla pioggia e dal maltempo, ecco ti sembra che il muro cada giù, che ti caschi addosso. Rosoni rotti, capitelli spezzati. Insegne luminose tolte. Dove ci stava un bar una gelateria una pasticceria che poteva avere pure centoventi persone, di seicento metri quadri, che al mattino ti dava le paste buone, le brioche, e i croissant crema e cioccolato, ecco ora qui ci stanno soltanto le macerie. Macerie. Macerie. Nient’altro che macerie. Macerie in questo cumulo di morte che sta al centro dell’Italia ma che allo Stato non interessa. Perché Visso ha cinquecento voti e chi se ne fotte di cinquecento voti. Ce ne stavano milleduecento ma ora la gente sta partendo.

Il bar e la gelateria erano di un ragazzo che c’ha la mia età e che ho conosciuto e che c’ho parlato due ore. Perché quando mi immergo nelle storie, mi ci immergo veramente.

Voglio capire come fa questa gente a svegliarsi la mattina e trovare davanti agli occhi macerie. Case vuote. Chiese distrutte. Crocifissi divelti.

Voglio capire come uno non vada via di testa. Perché infatti la gente ci sta andando. Ho parlato con una signora che di anni ce n’ha sessantasette e che la casa, le hanno detto, è da buttare completamente giù.

Non c’è rimasto più niente. Se dovesse avere una casa probabilmente ce l’avrebbe tra vent’anni. Ma lei tra vent’anni c’ha 87 anni. Cioè capite. 87 anni. E non sai nemmeno se stai qua.

Gente che sa che non dormirà più sul proprio letto.

Gente che non vedrà più la propria cucina. Che non mangerà più sui propri piatti. Che non imboccherà più le proprie posate.

Gente che da due anni vive nelle casette e che da un giorno all’altro la furia del terremoto ha strappato via tutto. Tutto. Gente che non ha più una casa. Non ha più una famiglia riunita. Non ha più una piazza. Non ha più un panificio. Non ha più una macelleria. Non ha più un lavoro. Non ha più un’identità. Non ha più una biblioteca.

La storia è andata distrutta. La storia sta in quel cumulo di macerie che lo stato abbandona. Gente che non ricorda nemmeno quanti anni ha.

Sì. C’ho parlato con queste persone. Per alcuni il terremoto è accaduto un anno fa. Per altri due. La gente ha perso il conto dei giorni. Dei mesi. Degli anni. Sopravvive dentro scatole di latta nell’attesa di morire. A Visso di macellerie ce n’erano due, di panifici idem. Di parrucchiere ce ne stavano quattro e ci stava la banca che ora sta dentro un container. Ci stava l’ufficio postale che ora sta dentro un container. Ci stava un dentista. Che ora sta dentro un container. Ci stavano i bar. I negozi. I ristoranti. Gli hotel. Gli alberghi. Ora. Non è rimasto più niente. Zero. La gente prende arriva. Il turismo dell’orrore. Si fa i selfie e poi riparte e se ne va. E intanto la gente qui muore.

L’altro giorno è morta una vecchietta, mi dicono. Una nonna. E la casetta data dallo stato dov’era, quella che dopo due mesi aveva pure dovuto abbandonare perché dentro cazzo ci passava l’acqua, ci stava la muffa, ecco la casetta ora torna allo Stato. Le questioni ereditarie non sono State normativizzate. Ai figli non spetta nulla. Nessuno ha più niente. Niente. Se non il verde attorno. E allora immaginate come possa vivere una persona quando deve abbandonare la propria casa. Quando non può nemmeno andare a prendere le proprie cose.

Enrico quello della pasticceria, mi racconta che ci è andato con l’ascia a prendere le cose per il padre che sta alto un metro e novantaquattro e non c’aveva un cazzo da mettesse. Ecco dicevo pensate come possa vivere una persona che deve abbandonare la casa. Che forse riesce a portar via le sue cose. Che l’armadio per un anno diventa il baule della macchina. “La valigia del terremotato”, lo chiamavano quel sacco da immondizie nero. Gente che per un mese non si è lavata. Gente che c’aveva la barba da fare. Gente deportata in casa come si chiamano loro, che non ha dormito per giorni. Che a ogni piccolo movimento borbottio o rigurgito della terra, tremava di terrore.

E allora oggi io li ho visti gli occhi di quelle persone. Occhi spenti. Ancora sconvolti. Occhi freddi. Rigidi. Immagazzinati da una divisa. Occhi che ne hanno viste di tutte i colori. Che hanno visto le pompe di benzina esplodere. Che hanno visto i tombini ribollire. Occhi che non sanno che fare. Dentro le casette si vive come se si stesse un un grande villaggio. Ma non è casa. Non è casa loro. È una cosa, casa, come cazzo se chiama, temporanea. Temporanea che dura all’infinito. Terribile no. Terribile sapere che per tutta la tua vita dentro casa tua, non ci entrerai più dentro. Che quella è la tua terra. Il tuo paese. Ma che se vuoi ripartire te ne devi andare.

I ragazzi se ne stanno già andando.

Enrico per andare in palestra fa settanta chilometri. Il cinema poi vicino sta a Tolentino. A cinquanta chilometri. “Per noi è diventato normale – mi racconta – fare 50 chilometri per andare al cinema. Uno pensa in minuti poi non in chilometri. E ci metti più tempo a deprimerti che non a prendere la macchina e andare al cinema”.

Già.

Ma le persone sono devastate.

“Immagina che ricostruisci questa struttura che ti dà lo Stato – mi dice Enrico – e che ci porti dentro quelle tue poche cose che riesci a salvare. A un certo punto resisti fino a un certo punto. Ma quanto dura il carico di un cervello. In fisica c’è un punto di rottura. Qui qual è il punto di rottura? Il fatto di aver smosso le abitudini e di non avere riferimenti ti sconquassa. Molto non ricordano nemmeno l’età. Non si ricordano quanti anni sono passati dal terremoto”.

Gente che viveva su quattro piani e che ora vive su sessanta metri quadri. Ma le casette andavano bene per villaggio vacanza. Non per viverci. Qui ora ci è entrata pure la muffa. Le porte si aprono al contrario. Non ci sta un ripostiglio per la scopa. E tra poco qui scende pure il freddo. Freddo cane. Gelo. Neve. “Vogliono spopolarci”, mi dicono, così uno prende e va fuori. Noi lo sappiamo che questo centro non sarà mai ricostruito.

Il novanta per cento delle case è inagibile. Sarà buttato. Giù, la finestra del sindaco c’ha ancora la tenda di fuori.

Il Comune è stato messo dentro alla vecchia piscina comunale.

“Cosa ci è rimasto – mi chiede Enrico? / Siamo un popolo sperduto in mezzo alle montagne che non conta un cazzo. Ci è rimasto il verde. Le nostre montagne. Perché Visso era uno dei borghi più belli d’Italia. E per me lo è ancora. Ha il coraggio sfacciato di mostrarsi così. E la sede del parco naturale dei Monti Sibillini.

Visso va rimesso in piedi. E va rimesso subito.

Non molliamo!”.

Per #Storie2020

Dal diario #sbetti

Agosto 2019

#dovelaterratrema

Scene di ordinaria follia: registro elettronico

Ma come siamo ridotti. Come.

Allora un collega oggi a pranzo mi ha detto: “quando cambiai liceo perché non mi trovavo bene, ho conosciuto persone e non insegnanti”.

E allora adesso per #Storie2020 vi racconto una storia. Una di quelle storie di questa Italia ridotta a scheletri. Manichini. Dilaniati dalla burocrazia e piegati dal servilismo.

Perché io rimango allucinata. Rimango basita. Provo frustrazione per queste insegnanti. Provo frustrazione per questi docenti. Provo frustrazione per i presidi.

Provo frustrazione per gli alunni.

Allora l’altra sera, per caso, capito a casa di una insegnante. Sta facendo il registro elettronico. Così le chiedo in cosa consista questo registro elettronico esattamente. Come funziona e lei mi guarda e molto gentilmente mi fa: “prego accomodati, ti faccio vedere”. Così mi siedo.

Mi offre un caffè e osservo.

Allora mi fa vedere dove si inseriscono i voti. I giudizi comportamentali. Dove si inseriscono le note. I programmi. Per ogni materia ci sta una casella. Per ogni classe ci sta una tabella. Ogni alunno c’ha riservata una riga. E per ogni assenza ci sta un quadratino.

Tutti incasellati dentro a dei tabulati, tutti catalogati come numeri umani. Tutti perfettamente messi in ordine, dove il calendario dei turni per pulire il cesso dei condomini è più dinamico.

Allora le chiedo come funziona. Cosa ci deve fare con sto registro elettronico. E lei mi dice. Vedi. Ti connetti al sito. Vai su registro. Digiti il tuo nome utente. La password. Poi se sei fortunato accedi. Se non sei fortunato il sistema ti dà errore. E ti dice che devi stare attento, che se per caso apri due pagine contemporaneamente i dati potrebbero cancellarsi e faresti meglio a contattare la segreteria.

Allora io curiosa le dico se possiamo provare. E lei. Lei mi dice: “certo, guarda”. Allora prende. Accede. Digita la password senza che io la potessi vedere. E il sistema si blocca. Cominciamo bene.

Così ci riprova. Ma niente. Si blocca ancora. Allora chiudi tutto. Spegni. Riaccendi. Riavvia. Riconnettiti. E iniziamo.

Iniziamo col terzo alunno della lista. I primi due li ha già fatti e ci ha messo due giorni.

Insomma per ogni alunno che sta in lista, devi metterci il voto. Il voto individuale. Per ogni materia. E il giudizio globale. Quello complessivo. Quello che una volta era formato dal cuore delle maestre che ancora con la penna biro scrivevano se eri stato bravo, buono, se eri asino, intelligente, se “si applica ma può fare di più”, se eri socievole, se “passa molto tempo a pensare come se si annoiasse”, all’anima facevate sempre le stesse cose, sono arrivata in prima elementare che sapevo già leggere e scrivere, e per quattro anni mi avete parlato dei punti cardinali. Ma insomma dicevo. Ecco per ogni alunno poi devi indicare quante assenze ha fatto. Se è stato bravo. Se è stato buono. Se ha mangiato. Se ha cagato. Se ha avuto il cagotto. Se ha mangiato risotto. Proteine. Carboidrati. Grassi. Calorie. Se ha bevuto abbastanza acqua. Se si è idratato. Se è andato in bagno. Se si è lavato le mani prima di impiastricciare le dita dentro alla merendina. Ecco e eccetera. Eccetera. Eccetera.

Poi però devi anche dare un giudizio. Un giudizio comportamentale e qui apriti Cielo. Qui si apre un mondo. Qui praticamente ogni studente deve stare dentro a delle caselle. Sì, cioè non può essere che tuo figlio sia sopra p sotto le righe, dentro o fuori i puntini, nel mezzo o nell’esterno delle virgole, no. Il sistema non lo permette. Tutti infilati come salami. Con giudizi terribilmente uguali.

Insomma un modo per limitare la scrittura delle insegnanti che di cose ne avrebbero da dire. Ma si sa che preferiamo gli esseri zitti. Senza pensiero. Che fanno esattamente quello che il sistema richiede. Cioè se tu vuoi scrivere che tuo figlio sta sì buono, che è tanto caro, che manda i bacini alle maestre, che divide la merenda con i compagni ma che in classe non sta seduto composto, che dice qualche parolaccia, che manda a fanculo le insegnanti ecco non lo puoi fare. Non sai come farti capire perché devi scegliere tra le varie opzioni possibili.

E così. Così mi metto a leggere e rimango sconvolta.

Perché allora per la categoria “attenzione e osservazione”, ecco si passa da: è in grado di confrontare i dati, è in grado di ordinare i dati, è attento ed è in grado di raccogliere i dati, presenta attenzione discontinua e tempi brevi di concentrazione fino a non è attento e mostra difficoltà di concentrazione che tradotto sta per: non capisce un cazzo di quello che dicono le maestre.

Poi invece passiamo per la categoria “socializzazione” a: eccellenti progressi, notevoli progressi, regolari progressi, alcuni progressi, pochi progressi, irrilevanti progressi. Partecipa in modo adeguato, ha fatto registrare alcuni progressi, non è attento, comunica in modo organico ed efficace, la sua preparazione risulta complessivamente in via di miglioramento. Insomma parole senza senso. Usate ad cazzum. Che rendono gli studenti animali da laboratorio. E le insegnanti frustrate perché se già i genitori non capiscono con le parole semplici, figuriamoci con le frasi che messe insieme dicono l’uno il contrario di tutto.

Ma la cosa peggiore sapete qual è?

È vedere queste insegnanti che da anni e anni sono abituati alle relazioni umane, che ai computer preferiscono le chiacchierate, che ai tablet preferiscono le cartine geografiche, che alle chat su whatsapp preferiscono il caffè al bar, che alle telefonate preferiscono i ricevimenti, e che alle tastiere preferiscono gli occhi.

Ed é vedere queste insegnanti che fanno una fatica enorme per compilare un registro. Che fanno da segretarie, che tra poco fanno pure da bidelle, che ogni giorno vengono svuotate di quello che hanno e che fanno fatica a ributtare dentro, perché i rapporti umani dopo un po’ se non li coltivi muoiono su se stessi, senza acqua né luce né linfa vitale.

Ed è vedere queste insegnanti, queste persone, oberate dalla burocrazia e dalle incombenze, che finiscono con l’odiare il proprio lavoro e che per fare da segretarie non vedono l’ora di andare in pensione.

Ecco l’Italia che state creando. Quella fatta di tanti piccoli manichini, che rispondono ai vostri comandi. Ribellatevi.

#sbetti

AAA Cercasi clienti

Cercasi scontrini elettronici.

AAA cercasi clienti anche senza esperienza. Qualcuno ci aveva letto: “cercasi personale anche senza esperienza”. Ed era pure entrato, chiedendo se assumevano. E invece. E invece qui Jessica Norbiato cerca clienti. Anche senza esperienza. Allora questa notte per #Storie2020 vi voglio raccontare questa storia. Insomma no. Insomma. Insomma passo per Mirano, sono lì con la testa piena trivellata di cose da fare, di agende da seguire, di persone da chiamare, sono lì con la mente avvolta nella nebbia mentre fumo la mia sigaretta e penso a cosa fare, a come organizzarmi, quando all’improvviso non so perché alzo lo sguardo e vedo questo cartello. “AAA cercasi clienti anche senza esperienza”. Allora mi colpisce. Devo scrivere due tre cose, e mi viene in mente un post di Mariangela Semenzato che dice che quando sei in panne l’unica soluzione è il caffè, che prendo ed entro. Mi siedo. Appoggio le mie cose. Tiro fuori il computer, quando dal banco spunta una ragazza con un cappellino e una divisa. È giovane penso. Non sarà lei la titolare. Così ordino. Prendo il mio caffè americano -Quando ho più da fare, solo l’americano e la sigaretta mi salvano – accendo il computer e aspetto. Ma tempo pochi secondi, il caffè è pronto. La ragazza mi aveva chiesto se lo volessi con l’acqua a parte e io avevo risposto sì. E quando il caffè è arrivato, non avevo inteso come fosse a parte. Insomma una tazza gigantesca, da caffè americano davvero, da caffè americano vero, e sopra la tazza ci stava la teiera dell’acqua, quella da sganciare e da versare. Insomma una tazza di acqua bollente, da versare sul caffè, così lungo come piace a me. Bello. Nero. Bollente. Così non ho resistito. E vista la semplicità e la simpatia della ragazza, che c’ha gli occhi neri neri ma neri brillanti che si vede che fa un lavoro bello, ecco dicevo vista la genuinità della ragazza ho preso e gli ho chiesto. “Perché avete scritto Aaa cercasi clienti senza esperienza?”. E lei. Lei si mette a ridere. E mi fa: “ho preso spunto da un’altra parte, avevo quello spazio da riempire, e volevo qualcosa che fosse originale”. Ma dai! Le ho detto.

Bello! Bravi. Così le chiedo. Ma è tuo il locale? E lei: “sì è mio”. Io sgrano gli occhi e le dico: “ma sei giovanissima”. E lei: “in realtà ho l’età giusta per farlo”. Già. Perché Jessica di anni ne ha 33 e sta inseguendo un sogno. Una passione. Quella che ti fa svegliare tutte le mattine e cominciare alle sette. Quella che le sere d’estate ti fa chiudere a mezzanotte. Quella che c’hai solo un giorno libero, quello di chiusura, dove lo impieghi per andare dal commercialista, per fare la spesa, per andare in posta, per andare in banca, per risolvere qualsiasi magagna che ti sia capitata durante la settimana, per stirarti la roba da vestire, per pulire, e insomma chi più ne ha più ne metta. Così poi le chiedo: “ma clienti? Quelli senza esperienza ce ne sono?”. E lei, mi guarda e mi fa: “ci sono giornate dove ne abbiamo, altre un po’ meno, così così”. Perché è ancora. Ancora presto. E gli abitudinari non li scrolli sempre dai soliti posti. Quelli che muoiono dentro vanno sempre dentro lo stesso posto. Vittime del più potente dei veleni. Il non cambiamento. Il piantare il culo dove si sta comodi.

Così poi le chiedo altre cose, se è facile, se è difficile, e lei mi fa: “a volte è fatica, perché anche lo Stato non è che ti aiuta, ti toglie l’entusiasmo, tu fai le cose anche ma ti passa la voglia a volte di farle”.

Perché? Perché c’hai l’INPS da pagare, le tasse, la casa, le bollette, l’affitto, la linea del telefono, il commercialista, i fornitori, gli elettrodomestici, la tassa sui rifiuti, tasse tassine tassette tazzette, che pendono tutte sopra la tua testa, quando vai a letto la notte. E poi. Poi come se non bastasse adesso pure lo scontrino elettronico! Lo scontrino elettronico!

Cioè capite! In un bar di una ragazza di 33 anni, che prova a farcela da sola, che prova a inseguire una passione, a far del bene, perché qui ci sta anche il panino per colazione, cioè praticamente il primo Burger Croissant 🥐 d’Italia! Ecco qui, qui dove anche i bambini possono giocare e colorare, qui si teme l’evasione fiscale! L’evasione fiscale. “Per lo Stato siamo tutti evasori – dice Jessica – Ma cosa vuoi evadere qui? Alla fine non sono i piccoli che evadono le tasse”.

Già. No. Infatti. Ma lo Stato se ne fotte. E vi fotte. Perché ne ho visti sapete. Ne ho visti. Ne vedo. Ne vedo di imprenditori o liberi professionisti che pagano in contanti. Soprattutto tra tutti i contadini arricchiti che qui piacciono tanto. Ne vedo. La gente tira fuori pezzoni da cinquecento come se piovesse. Una volta uno si è presentato a una transazione, visto con i miei occhi, tornato dalle Maldive, c’aveva soldi perfino dentro le mutande, continuava a tirare fuori soldi dagli indumenti, come i maghi tirano fuori i foulard dai cappelli, peccato che poi, poi i maghi li usano per far venire fuori i conigli e finito lo spettacolo tornano a casa, quelli che veramente evadono continuano sempre a fotterci tutti, con il benestare dello Stato che con i soldi non ti pulisce nemmeno il culo.

#sbetti

Tieni traccia del passato, fase uno

Stamattina leggevo una cosa, passatami sotto il naso per caso. La cosa faceva così: “tieni traccia del Passato, ordina il Presente, progetta il Futuro”. Una frase che oggi mi serviva. E non so perché le cose capitano sempre quando ne hai bisogno. Già. Sì. Qualcosa che ti frulla per la testa. E che fatalità arriva la frase giusta. La dicitura. La persona. La notizia. Vuoi perché ci convinciamo. Vuoi perché accade così per caso, ma fatto sta che stamattina queste parole sono state per me salutari. Tieni traccia del Passato. Quante volte stupidamente diciamo di voler cancellare il passato, di voler ripartire da zero, di voler resettare, cancellare, annullare, svuotare le mente, cancellare via tutto; non capendo, non capendo che se tieni traccia del Passato avrai più cognizione del Presente. Non capendo che se tieni traccia del Passato avrai più la forza per andare avanti, che il Passato è memoria, tradizione, storia, famiglia. Che il Passato, quello che vuoi conservare, è l’unica cosa che ti fa sentire a casa. Un po’ come quella famiglia di cui vi parlavo stanotte per #Storie2020. Sì proprio quella. Quella c’ha il ristorante ultracentenario. Mai si chiederebbe di cancellarne il passato.

Ordina il Presente poi. Quante volte così disordinati, con le vite sregolate che corrono a mille, perdiamo il presente per proiettarci sul futuro. Il futuro che se non sei presente non si progetta nemmeno. Il futuro che se non sai dove stai andando, non lo percepisci nemmeno. Il futuro che se non sei qui ora non si costruisce nemmeno. E allora, allora stamattina di queste frasi ne avevo bisogno, perché ogni tanto quando hai troppe cose da fare, quando hai troppe persone da sentire, quando sei piena fino al collo, ecco ogni tanto si inceppano gli ingranaggi, ti si arrugginiscono i meccanismi. E tu sei lì che provi a svitare e svitare e svitare ancora, sei lì che provi a ruotare l’ingranaggio giusto, a girarlo, a svitarlo, a farlo roteare su se stesso, a dargli l’olio; sei lì che provi a cercare di scioglierlo, ad avvitarlo dall’altra parte, ma niente, il rumore è sempre quello. Sempre lo stesso. Quello di un marchingegno che cigola, che scricchiola, che digrigna i denti. E così. Così c’è bisogno di staccare. Di prendere un po’ d’aria. Di immergersi nell’atmosfera…

e da qui mi sono rigenerata 💙🌳☘️🍄

#sbetti

Puffele: nove abitanti e oltre cent’anni

Questa notte per #Storie2020 vi voglio raccontare di un posto, un posto nel mondo, che c’ha oltre cent’anni.

Se ne sta su, sull’Altopiano di Asiago, a 1058 metri sul livello del mare. E lo vedi mentre percorri la strada che porta ad Asiago. Per arrivare ci stanno tredici tornanti, tredici tornanti che ogni volta ci devo andare con la mia auto perché se salgo al posto del passeggero o di dietro, apriti Cielo.

Allora tredici tornanti, poi, poi tutt’a dritta, ci vai a naso. E la vedi la strada che ti si apre davanti. Panorami pazzeschi. Strapiombi inverosimili. Viste mozzafiato. Colori pastello. Tramonti dorati. Albe rosate. Alberi impilati come cannoni che tagliano l’aria il cielo e il bosco. Ti scorrono davanti correndo a intermittenza che nemmeno te ne accorgi. Sembrano quasi riprodurre quel suono sull’autostrada dove ogni trenta secondi l’auto sobbalza. Tu tun tu tun tu tun tu tun fa la macchina lungo le autostrade di tutta Italia.

E qui.

Qui tronchi riposti, riposti per bene, tronchi accatastati, tanto verde, interi prati, montagne che ti svettano davanti, paesetti agglomerati, campanili piccini piccini che sovrastano un’altura, preti con le tonache che passeggiano per strada, bambini che fanno visita alle caprette.

Panifici, alimentari, piccoli bar, punti ristoro, perfino una spa, allevamenti, cavalli, case diroccate, luci, abeti, arbusti.

Ogni paese sembra un piccolo presepe.

Un presepe nel bosco.

Accanto a questo posto nel mondo che c’ha oltre cent’anni.

Allora questo posto sta a Puffele. Una frazione che c’ha nove abitanti. Nove abitanti e tanti turisti. Tanti commensali. Tanta storia. Parlo con Alessio Segalla, fuori dal locale, mentre fumo una sigaretta. Io ancora senza calzamaglia, me la sarei messa dopo in bilico davanti la porta del bagno del ristorante, col Woolrich la sciarpa e il berretto ancora c’ho freddo.

Perché qui stamattina erano meno nove gradi sotto lo zero.

Ecco e allora qui, qui all’Osteria da Puffele, dove una volta c’avevano pure le camere, ecco qui ci sono passati tutti. Abitanti, turisti, cittadini, curiosi, buone forchette, qui è tutto un via vai di gente, un porto di mare, un incontro di lingue, un crocevia di regioni, un incrocio di dialetti. Qui ci trovi il bassanese, ci trovi il veneziano, ci trovi il padovano, il trevigiano, l’asolano, qui ci trovi il tedesco, il francese, perfino l’inglese che scende dalle piste degli scii e affamato si ferma a mangiare.

Perché appena si entra in questo posto, in questo posto perduto nel mondo, che c’ha oltre cent’anni, si vieni catapultati in un nido magnifico. Sensazionale. Ancestrale. Un nido che sa di casa, che sa di amore, che sa di amore per la tavola, per la cucina, per la roba genuina; un nido che sa di quelle persone instancabili, che portano avanti una tradizione, una storia, un impegno, una lunga memoria.

Perché i gestori di questo locale, in affitto qui da vent’anni hanno una grossa responsabilità: portare avanti il nome del ristorante. Quel ristorante che trae il nome da una strada. Via Puffele per l’appunto.

Ora gestito dalla famiglia Segalla, il padre Alessio, che se ne va in pensione, sta pensando di affidarlo alla figlia Giada. Anche il fratello Andrea qui dà una mano. Oltre a due dipendenti. E la vedi Giada che c’ha 27 anni, servire ai tavoli.

Il loro segreto è proprio questo: la conduzione familiare. La famiglia. L’abbraccio. L’amore. Tutti caratterizzati da una simpatica e forrrrmidabile R moscia, servono con la forza e la voglia che una passione richiede. Girano per i tavoli, prendono gli ordini, corrono, portano da mangiare, da bere; sempre disponibili, sempre cortesi, segnano, annotano tutto, se vuoi la carne ben cotta, se la vuoi poco, se vuoi metà patate al forno, metà verdura cotta, se vuoi il piatto vegetariano, se vuoi la selvaggina, se vuoi la carne di cervo, se vuoi la bistecca, se vuoi l’antipasto, il primo, il secondo. Se vuoi la frutta.

Perché qui, qui dove i crauti sanno di un gusto squisito, immensamente delizioso, qui dove i crauti sanno di un leggero tocco dorato, quasi che pizzica, ecco qui, qui si mangia come si deve mangiare. I formaggi vengono tutti da Asiago. Le verdure dal mercato ortofrutticolo di Bassano. Le carni da una macelleria di fiducia. Alessio Segalla poi e la moglie Nives stanno ai fornelli, cucinano; Giada e altri due servono in tavola e prendono le ordinazioni. Un lavoro per certi aspetti pesante. Cominciano la mattina alle otto. Con le colazioni. Poi ci stanno gli aperitivi. Quelli belli, quelli pure dei motociclisti. Poi ci stanno i pranzi quelli dove la gente arriva affamata, che uno stinco dopo la fatica della montagna non basta.

Al pomeriggio alle quattro e mezza, ancora c’hanno gente che se ne deve andare. Tra chi noi.

Poi. Poi tempo una partita a carte e subito si riparte. Si preparano le tavole per la sera. Il menù. I piatti. Si fanno i carichi. Si guarda se manca qualcosa. Si pulisce. Si corre. Ci si adopera. Tutti i giorni. Tranne il giovedì. Per tutti. Tutti i mesi dell’anno. Anche a dieci gradi sotto zero. Ma dentro, dentro il caminetto è sempre acceso e fa un caldo bellissimo.

Ecco, e allora questa è la storia di un ristorante che c’ha oltre cent’anni e che in mezzo all’Altipiano in un borgo di nove abitanti, resiste. Perché qui dentro. Qui dentro. Qui dentro è sempre pieno zeppo di gente.

Qui dentro, a mezzogiorno, ci stanno più persone che abitanti nel borgo.

#sbetti

Perasto: pietra dopo pietra. Montenegro 🇲🇪 ancora scontri

Dal diario di Facebook – 11 gennaio 2019

Sto studiando la storia di Perasto da una stanza d’albergo.

L’altro giorno mi hanno scritto dalla Serbia dicendo che il Parlamento del Montenegro ha approvato una legge che limita la libertà religiosa e che ci sono scontri e manifestazioni. Manifestazioni anche a 15 gradi sotto lo zero. Scontri anche a fuoco.

Vogliono togliere le proprietà delle chiese ortodosse ai serbi e creare una chiesa montenegrina che si governi da sé. I serbi ortodossi sono molto arrabbiati. Ancora una volta scendono in piazza. Ancora una volta la religione che si antepone all’essere umano.

“In Montenegro – mi dicono – un paese in cui è al potere l’ultimo regime comunista in Europa e che vuole essere membro dell’UE, vengono perseguitati gli oppositori politici, arrestati parlamentari e i cittadini di etnia serba. Questo governo comunista dittatoriale vuole confiscare i templi della Chiesa ortodossa serba al fine di creare la propria chiesa”.

Già. E allora oggi ero all’inaugurazione della mostra degli ex voto del santuario della Madonna di Perasto, nella chiesa Torresino di Cittadella, una mostra aperta fino al 26 gennaio 2020 che vi consiglio di andare a visitare.

Perasto infatti è un centro abitato del Montenegro che se ne sta all’interno delle Bocche di Cattaro. Conta 360 abitanti. Che ogni anno, il 22 luglio, fanno la spola per riempire di sassi un’isola e farla più grande.

Mai conquistata dagli Ottomani, Perasto lasciò il segno perché fu l’ultimo territorio a marchiare il nome Serenissima: anche dopo la fine della gloriosa Repubblica Marinara, i vessilli della Repubblica di San Marco, sventolarono qui per altri tre mesi, fino all’arrivo degli austriaci nell’agosto 1797.

Nel periodo veneziano la città ebbe un incredibile sviluppo economico, politico e militare. Quattro cantieri navali, diciotto chiese, di cui sedici cattoliche e due ortodosse.

E secondo un’antica tradizione la chiesa della Madonna dello Scarpello risale al 22 luglio 1452.

All’interno della chiesa, sopra affissi al muro ci sono oltre 2000 ex voto; sono icone incise dai marinai per ringraziare la Madonna per avercela fatta anche stavolta, per aver superato una mareggiata, le insidie del mare, il terremoto, una calamità, un naufragio.

Mica come oggi che distruggono le chiese e appiccano il fuoco ai villaggi.

Insomma un modo per prestare un voto per chi è credente.

La leggenda vuole che la Madonna dello Scalpello sia un’isola nata grazie all’opera dell’uomo. Cioè si narra che il 22 luglio 1452, venne rinvenuta un’immagine di una Madonna col bambino. Questa venne portata da due marinai nella chiesa di San Nicola ma nella notte, l’icona scomparve e venne trovata il giorno dopo sempre sullo scoglio.

Gli abitanti di Perasto quindi decisero di costruire un luogo di culto dedicato alla Madonna e di ritorno da ogni viaggio in mare, lanciavano dei sassi sullo scoglio in modo da farlo diventare più grande.

Da allora, ogni 22 luglio, sempre rigorosamente al tramonto, gli abitanti di Perasto vanno via mare nell’isola. Lanciano sassi e l’isola aumenta. Così.

Così. L’hanno costruita loro. Partendo dalle basi. Pietra dopo pietra. Sasso dopo sasso.

#sbetti

#Storie2020

Pronti a scioperare 👊

#Storie2020. L’altro giorno mi hanno chiamato. E mi hanno detto: “sono tre mesi che non ci pagano. I pagamenti arrivano in ritardo. La tredicesima doveva arrivare a Natale, ma siamo a gennaio e deve ancora arrivare. Non sappiamo che fare. Qua è un tutto un caos. Abbiamo paura un giorno di arrivare e di trovare i sigilli. I cancelli chiusi. Dopo anni abbiamo tanta paura”.

Allora ho letto il messaggio. L’ho riletto. E la persona ha continuato: “è ora di far sapere veramente cosa accade da noi”.

Così mi sono accesa una sigaretta e ho pensato. Ma come è possibile. Come è possibile mi sono detta che una realtà così bella, (la foto che posto premetto che non c’entra nulla) che era così bella, che era così cara, che era così cuore, che era così sintonia, amore, che era così tutto quello che cercavi, sia ridotta allo sfascio. Al catafascio. Allo sbando.

Anni e anni in cui è andata bene. In cui era un impero. In cui era professionalità. Gusto. Eleganza. E poi. Poi la desolazione. Poi la paura. Poi la povertà.

Allora ho preso e sono andata a fare un giro in questa realtà. Ho voluto rendermi conto. Ed è vero. Nelle cose ci devi essere se vuoi raccontare. Devi vedere. Annusare. Respirare. Utilizzare tutti i cinque e i sensi per fare un bel lavoro. Usare il sesto per fare un lavoro armi perfetto. La perfezione non esiste.

Allora dicevo è un’azienda di questo immenso Veneto. Del territorio. Un’azienda bella, conosciuta. Un’azienda che si prepara a uno dei più tristi scioperi che ci possano mai essere. Quelli dei lavoratori che incrociano le braccia. Quelli dei lavoratori che restano fuori. Che fermano la produzione. Che attaccano striscioni. Che fermano le auto. Che chiudono tutto. Sì. Perché così, così non è più possibile continuare. “Ci prendono per il culo – mi dicono – e la gente ha paura”.

“Stiamo ancora aspettando la tredicesima – mi dice una dipendente – siamo tutte un po’ incazzate, ci prendono per il culo e ci raccontano cazzate per i ritardi”. “Negli ultimi due tre mesi – mi racconta un’altra – hanno cominciato a tardare con i nostri stipendi. Purtroppo c’ è un aria pesantissima e molti temono ripercussioni e quindi tacciono, a noi dicono di portare pazienza, che non sono tenuti a darci spiegazioni…e molto altro…”. “Ma le persone hanno paura”. Già. Paura. Paura che i soldi non possano mai arrivare. Paura che le saracinesche chiudano per sempre. Paura che quel sogno su cui avevi risposto il tuo presente e il futuro possa svanire.

Perché per molti, per molto il lavoro diventa una famiglia. Per molti il lavoro diventa una spinta. Una spinta a fare sempre meglio, a migliorarsi, a crescere, a reinventarsi. Per molti il lavoro diventa un ambiente dove condividere le paure, le insicurezze, le gioie, i dolori. Quante amicizie nascono al lavoro. Quanti amori.

Ma poi. Poi la gente inizia a licenziarsi. Poi la gente inizia ad avere malumori. Rancori. E quando si spezza un ramo. Poi. Poi se ne spezza un altro. Poi un altro ancora. Poi ancora ancora e ancora. Rimane il tronco. Da solo. Brutto. Senza foglie. Senza fiori. Né frutti.

E infatti.

Infatti dicevo sono andata per rendermi conto. E ho visto la desolazione totale. Dove prima c’era un sorriso, ora c’è uno sbuffo. Dove prima c’era una stretta di mano ora c’é un vaffanculo. Dove prima c’erano i colori ora ci sono gli striscioni. Dove prima c’erano le storie, ora c’è la fame.

“Cosa vuoi – mi dice una dipendente – eravamo una grande famiglia”.

Così. Così inizio a scavare un po’ sulla cosa. E scopro: sanzione. Tasse da pagare. Stipendi in ritardo. Licenziamenti. Indagini. Conti alla cazzo. Un caos totale che non si capisce. Non si capisce niente.

Allora oggi. Oggi andando a Venezia ho fatto dall’auto frettolosamente questa foto che con questa storia non c’entra niente.

Ero di fretta, ero pure in ritardo, ma il tiranno del tempo non riesce a frenare la mia tiranna curiosità, ci prova anche, nel ring la combatte, ma poi, poi vince la curiosità, il tempo passa lo stesso.

E allora dicevo ho fatto questa foto, e in lontananza si vede un po’ la punta di Porto Marghera. Uno dei porti commerciali più grandi d’Italia. L’emblema dell’Italia che lavora. L’emblema dell’Italia che si fa in quattro.

Già. E allora mi sono chiesta come siamo arrivati a tanto. Come siamo arrivati a veder distruggere le aziende. A non poter fare niente. A prendere persone che non si sa che interessi hanno. A fare di tutto per ridurci allo sfascio. A giocare sporco. A fare i nostri interessi. Come siamo diventati a essere così cialtroni. Come.

Perche molte volte, molte volte non è sempre colpa di questo sciagurato Governo che toglie una tassa e te ne infila nel culo quattro.

No, molte volte, è colpa di chi non ha amore per il proprio lavoro, di chi vuole fare i soldi sulle schiene degli altri, di chi vuole fare i propri interessi sempre a scapito di qualcun altro.

Molte volte è colpa di chi antepone la propria soddisfazione personale al bene delle persone. Di chi non capisce. Di chi non comprende. Di chi non si abbassa.

Di chi non si abbassa i pantaloni nemmeno per pisciare, ma se li abbassa quando deve dire “sì signore”.

Ecco di chi è colpa.

Vi aggiorno.

#sbetti

Amici miei 🍷

Questo il mio pezzo per Venetoeccellenze.com. Mi hanno chiamato e mi hanno chiesto se volevo collaborare con loro. Se avete altre storie per il mio #Storie2020 scrivetemi. Messaggiatemi. Whatsappatemi. Fate segnali di fumo. Fate qualcosa. Non state nell’ombra. Uscite allo scoperto. E credete in voi stessi sempre.

Perché questa é la storia di Amici Miei. Miei. Miei. Amici miei è la storia di un amore. La storia di una passione. La storia di un amore condiviso. Condiviso a tavole. Tra le tavole ricamate. Tra le ostriche dorate. Amici Miei è la storia di chi non si è arreso. E nella vita ha fatto quello che voleva fare. Mangiare. Dar da mangiare. Studiare. Approfondire. Scrivere. Conoscere.

Perché lui Michele Florentino di 80 anni e la moglie Violetta, di storie ne hanno da vendere. Il loro ristorante Amici Miei per l’appunto che sta a Montecarlo e sta al Port de Fontvielle ha visto ai propri tavoli nomi importanti. Vip, personaggi politici, famosi cantautori, cariche istituzionali.

Li incontro una mattina di dicembre in centro a Mestre. Un ristorante. Un amico che ci mette in contatto. E ne nasce un pranzo. Fuori piove. Ma poco importa. Faccio domande e Michele Florentino inizia a raccontare.

Lui dall’altra parte per portare il meglio dell’eccellenza veneta. È stato lui a importare nel suolo francese piatti come la pasta e fagioli, il fegato alla veneziana o il famoso ben amato tiramisù. I francesi. I francesi non sapevano manco esistesse il tiramisù.

La pasta e fagioli.

Poi. Poi un bel giorno mi dice: “sai ho scritto un libro, vieni tu a presentarlo in Consiglio regionale?”. Io gli dico certo. E così. Così ne nasce una bella presentazione. Fatta di racconti. Di testimonianze. Di vite vissute.

Fatta di tutte quelle storie di donne e vini che Michele racconta nel suo ultimo libro. Un libro elegante. Dove la donna diventa protagonista. Dove la donna si fa in quattro per mandar avanti aziende di famiglia. Cantine. Per studiare nuovi sapori. Nuovi odori. Nuove fragranze. Vini pregiati. Champagne. Rossi. Bianchi. Vini creati e pensati con le loro mani. Con la passione. E così sono storie un po’ nate per caso, quando ti ritrovi con l’azienda di tuo padre in mano e devi dar da mangiare a figli e nipoti. La porti avanti. Crei lavoro per altre famiglie. Assumi. Sperimenti.

Perché l’Italia in fondo è stata sempre questa. Un popolo di eccellenze. Un popolo di lavoratori.

Scrivetemi. Da qualunque parte voi siate.

Pure su Marte.

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https://venetoeccellenze.it/amici-miei-storia-di-un-viaggio-lungo-una-vita/

#sbetti

La morte dei paesi. Per gli italiani non c’è posto

L’altro giorno ho salutato una persona a me molto cara. Parte. Torna all’estero. Dove c’è lavoro. Ci siamo incontrati in un bar poco prima della sua partenza verso l’aeroporto e ci siamo salutati. Vado a trovarlo tra un mese. Allora ci siamo incontrati in questo bar e il suo volto aveva il velo di chi non vuole partire. Di chi non vuole lasciare. Di chi è costretto ad abbandonare.

Gli occhi tristi, gli zigomi che formavano dune di sabbia rivolte verso il basso, e nell’aria quella triste atmosfera, che tanto odio, di quando devi salutare qualcuno e non vorresti andartene. Quell’aria di quando sta tutto sospeso e speri che il momento del decollo arrivi il più presto. Il più preso possibile. Quando senti che le guance sanno di caldo, sudano rosso, le mani sono fredde e la testa ti martella. E ho capito che questo mio amico aveva freddo, quando anziché ordinare un caffè o uno spritz, aveva bisogno di un tè. Un tè caldo. Uno di quelli che ti fanno sentire calore quando stai per abbandonare la terra.

Così ci siamo salutati. E lui è ripartito.

Poi passano le ore e tutto diventa più facile. Ci si ambienta. Ci si camaleontalizza. Se così si può dire. Si continua la vita di sempre.

Poi.

Poi oggi parlavo con una ragazza. Una ragazza che sta in un paesino del centro Italia. Una di quelle persone conosciute per caso, quando meno te lo aspetti, ma di cui senti che puoi fidarti, che nasce un’amicizia, che si costruisce qualcosa.

Mi ha detto che quella che fa non è vita, che non è vita starsene in un paesello. Che non è vita per andare al cinema prendere la macchina. Per andare a teatro prendere la macchina. Fare cinquanta chilometri. Per andare a divertirsi prendere la macchina. Che lei vorrebbe farsi una famiglia ma che nei paesi di montagna non ci sono sbocchi. Non ci sono servizi. Non c’è prospettiva. Eppure. Eppure la prospettiva se vai su, su un altura è alta. Se ti sporgi è ancora più emozionante. Se ti arrampichi. Ancora più avvincente. Eppure. Eppure come ha scritto il mio collega Vittorio Macioce oggi sul #Giornale, in questi paesi che sono un “buon posto per arrampicarsi a mani nude, o perdersi nei sentieri di montagna”, ecco in questi paesi lo Stato si comporta da lobotomizzato. Completamente sconnesso dalla realtà. A Podenzoi, nelle Dolomiti Bellunesi, che conta una strada, una chiesa, quella per le vittime del Vajont, e 500 abitanti, l’ultimo e unico alimentari, punto di riferimento per il paese, punto di incontro, punto di scambio, ecco l’ultimo e unico alimentati chiude. Basta. Si cambia nastro. Si toglie il registro. Lo si taglia del tutto. E il motivo è l’obbligo dello scontrino telematico. Quello che ti connette all’Agenzia delle Entrate. Quello che il Fisco sempre al tuo fianco ti controlla. Ti sfinisce. Ti lancia calci. Ti affonda.

Troppo per un Paese che ancora si sveglia con la luce del sole e va a letto con l’ombra della luna. Troppo.

Ma tanto. Tanto per lo Stato siamo tutti uguali. Tutti evasori. Tutti non fiscali. Tutti fiscalizzabili. Tanto per lo Stato, per questo stramaledetto Stato che ti mette il bavaglio e ti strozza nel denaro, contano solo gli immigrati. Solo chi nasce da un’altra parte ha diritto a rimanere in Italia. Gli italiani. Gli italiani no. Questo diritto non ce l’hanno.

Solo per chi nasce da un’altra parte “è opportuno considerare il paese da cui proviene, la sfortuna che ha avuto a nascere in un paese dall’altra parte del mondo”. Per chi nasce in Italia invece conta solo che sei italiano E non me ne vogliate se vi sembrerò bigotta, ma sono un’eterna e perversa amante della libertà. Anche quella di restarsene a casa propria.

Perché allora poi ieri, ieri scrivevo sul Giornale di quel paese marchigiano dove ci stanno più tombe che abitanti, dove nel 2019 ci sono stati 13 nati e 30 decessi, e dove anche qui sono arrivate le misure sciagurate di questo Governo e ora il sindaco Fabio Polini lotta per impedire lo spopolamento. Ci vorrebbero dei regolamenti per questi paeselli, perché “cosa vuoi evadere in un paese come Podenzoi”, scrive Macioce, già, cosa?

Quello dove “per collegarti con l’Agenzia delle Entrate, devi arrampicarti a mani nude”. Un po’ come quei piedi nudi di Castignano, quel paese dove ancora ci si prende per mano.

Perché allora. Allora poi oggi il sindaco mi ha chiamato. E mi ha detto: “lo sai che qui ci sono coppie giovani che hanno il problema che se fanno un figlio e decidono di vivere qui, ti chiedono se poi a Castignano ci sarà la prima elementare? Ma noi siamo la soluzione. Non possiamo essere il problema”.

Già sì. Ma questo Stato. Questo Stato non ci sente. Questo Stato non capisce. Questo Stato che tu nasca a Roma, a Trento, a Bolzano, a Milano, in un paesino sperduto dell’Italia centrale, a questo Stato non interessa un cazzo.

Perché per gli italiani. Per gli italiani non c’è posto. Non c’è speranza. Non c’è soluzione. Gli italiani migrano dentro la loro terra. O scappano all’estero. In cerca di un posto nel mondo.

#sbetti

#Storie2020

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