Quando ho intervistato l’unico sopravvissuto della sua famiglia ad Auschwitz mi sono sentita male

Quando ho intervistato Gaetano Samuel Artale Von Belskoj Levy, l’unico sopravvissuto della sua famiglia nel campo di Auschwitz Birkenau, mi sono sentita male.

La testa cominciò a girare, mi veniva da rimettere, non sentivo più le gambe. Sono dovuta uscire dalla stanza, mi sono fumata una sigaretta, il tabacco mi ha riaccomodato lo stomaco, mi ha rimesso a posto i sensi, ma quando sono rientrata non ero più quella di quando ancora non sapevo. Sono dovuta comunque restare seduta. Non ce la facevo a stare in piedi.

Allora questa mattina l’ho detto a un’amica e lei mi ha detto: “Ogni persona al mondo dovrebbe, una volta nella vita, sentire il bisogno di “sedersi”. Solo quando senti questo bisogno significa che hai intuito il dolore fisico e morale che un altro essere umano ha subito”.

E io le ho risposto: “Schopenhauer”.

Era Schopenhauer che diceva questo. Il mio professore di Filosofia al liceo che era ebreo, sì era ebreo, ci disse una volta: “vi auguro di non capire mai Schopenhauer, perché quando lo capirete, avrete capito tutto il dolore del mondo”.

Già. E allora quando ho intervistato Samuel Artale, non ho capito il dolore, ma l’ho captato.

Era il 13 aprile 1944 quando lui venne deportato nel campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau. Samuel aveva otto anni. Ora ne ha oltre ottanta.

Otto anni quando venne preso, prelevato, e deportato in quel campo di concentramento. Venne prelevato con la sorellina. La madre gli venne abbattuta davanti.

“Una volta entrati nel vagone merci – dice Artale – i portelloni venivano chiusi, sbarrati dall’esterno. Il nostro viaggio durò tre giorni. Nei convogli eravamo ammassati come bestie. Non c’era acqua, non c’erano i servizi igienici, non c’era carta, non c’era cibo. I bisogni corporali si facevano dove ci si trovava, il fetore era terribile. A volte qualcuno moriva durante il viaggio e il corpo veniva usato come sedile perché non ci si stava. Quando raggiungemmo la stazione finale io e la mia sorellina eravamo attaccati alla mano di mia madre; mio padre e mio nonno non sapevamo dove fossero, tutt’intorno era caos. Ci staccarono da nostra madre e lei si oppose. La colpirono e lì fu abbattuta. Giunti alla destinazione le urla erano “Alle runte, alle runte”, “tutti giù, tutti giù”. Chi cadeva veniva immediatamente abbattuto se non si rialzava subito. Giunti nei campi avveniva la prima selezione: chi a destra e chi a sinistra, chi ai lavori forzati e chi subito alla morte”.

Nei campi che il regime nazista aveva istituito, in tutto 1634, con una lista di 12 milioni di ebrei da abbattere, si moriva per denutrizione, per il freddo, per il gelo, per la fatica. Si moriva per un colpo di fucile, per delle frustate. Si moriva nei forni crematori, nelle camere a gas o ci si ammazzava contro il filo spinato. Chi non ce la faceva, decideva di farla finita.

“Nei campi si moriva per un sì o per no – dice Artale – Si moriva perché si camminava svelti, perché si camminava lentamente. Ogni pretesto era pronto per uccidere. La morte sopraggiungeva ovunque, non si poteva toccare il morto, si pensava stesse dormendo. Si moriva sul ciglio di una buca, scavandola, i tedeschi colpivano gli uomini con i fucili e questi cadevano giù. Ma a volte non erano morti, venivano ricoperti di sabbia e la sabbia si muoveva. Le donne morivano sotto il rullo compressore. Dovevano passarlo e ripassarlo, quando una donna per la fatica stremava al suolo, l’altra doveva passarle sopra, senza pietà. Nelle camere a gas gli ebrei venivano trovati ammucchiati. I più forti tentavano di raggiungere il soffitto scavalcando i più deboli. Agli ebrei veniva chiesto di essere pronti per la doccia e i vestiti lasciati in ordine fuori. Una volta dentro i portelloni venivano chiusi. Poi il gas. Pochi minuti e la morte. I corpi dentro al campo di Auschwitz erano ossa, appena ricoperti di pelle. Bastava toccare il corpo con un dito che questo affondava subito sulle ossa”.

Ossa. Come quelle che ci mostrò Artale quella sera in quelle foto. Gli uomini erano pelle e ossa, sorretti da un lembo di pelle.

E tra tutte le cose che ho sentito e che mi porterò dentro, c’è una cosa che in tutto questo mi é rimasta impressa.

Il modo in cui Artale pronunciava la parola campo. Sembrava amplificato. Sembrava una realtà ancora esistente. “Mio campo”, come sé quella cosa esistesse ancora.

Perché è così. Perché è vero. Perché ancora Artale ha ancora i segni delle legnate sulla schiena, ha ancora il timbro con cui lo numerarono. Ha ancora gli occhi grigi che non hanno mai pianto. Gli occhi grigi come la cenere. Come la morte.

Come la neve. La neve di Auschwitz.

“La neve ad Auschwitz non era bianca – diceva Artale – Era del colore del grigio delle ceneri degli uomini che bruciavano. Chilometri di quel filo spinato e di neve color cenere che percorrevano il mio campo”.

Già. Il mio campo. Quel campo dove la sua famiglia venne sterminata. E quando Artale mostrò le foto, durante la conferenza, accanto a me ci stava una bimba. Una bimba che, alla vista di quelle immagini nascose il volto.

Si intrufolò sotto il braccio del padre, cercando protezione.

#sbetti

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