Sopravvissuto ai Gulag, 102 anni e non sentirli

Ho conosciuto quest’uomo un giorno di marzo di due anni fa. Quest’uomo si chiama Giuseppe Bassi, ha 102 anni e vive a Villanova di Camposampiero in provincia di Padova.
Andai a trovarlo un giorno perché avevo saputo che aveva una storia interessante da raccontare, lui, uno degli ultimi sopravvissuti ai gulag russi, uno di quelli che ancora ricorda gli episodi di cannibalismo.
Allora dicevo andai a trovarlo e quando suonai il campanello mi fece capolino alla finestra. Non avevo subito capito che era lui che dovevo intervistare. Mi venne incontro giovanile e baldanzoso e frizzante ed energico che sembrava un grillo con vent’anni di meno, tanto che io rimasi sull’uscio della porta con la faccia inebetita come a dire: “mi portate da Giuseppe?”.
“Giuseppe?”
“Lui è mio padre Giuseppe”, mi fece il figlio.
Ma ancora non ci credevo. Cominciai a credere che era veramente Giuseppe quando ci sedemmo su quel divano rosso fuoco, lui si mise gli occhiali da vista e mi disse: “sono pronto, eccoci qua”.
“Cioè è lei? È lei veramente? È veramente lei la persona che devo intervistare e che c’ha cent’anni e che ha vissuto nei gulag russi?”.
“Sì, sono io”.
“Ma lei quanti anni ha scusi?”.
Mi rispose pieno di orgoglio, giovanile e baldanzoso che zombava di qua e di là per tutta casa come un grillo. “Cento!”, mi disse con un sorriso smagliante che nemmeno quelli di oggi che c’hanno vent’anni.
Ricordo anche che durante tutta l’intervista non riuscivo a tenerlo fermo. A ogni mia domanda se ne andava zufolando e saltando e correndo di qua e di là per recuperare quella foto, quel cimelio, quell’orologio, l’unico da polso, riportato dalla Russia con tanto orgoglio.
A ogni mia domanda era una gamba che partiva, una saetta che svettava, un fiore che fioriva, un sole che si alzava, una nuvola che spariva, un grillo che saltava, una cicala che cantava, un filo d’erba che cresceva.
A ogni mia domanda era un saettare di qua e di là. Un raccontare continuo, infinito, scorrevole nel tempo, perdendosi dentro le pieghe, le piaghe e il dolore di quel ricordo.
Con orgoglio rimembrava di quando si salvò dai gulag grazie a un anello. Stavano per fucilarlo. O di quando mi raccontò che grazie ai suoi disegni sulle cartine di sigarette, alcuni ora conservati nel museo del campo di Suzdal, trovarono le fosse comuni. Quattro anni di prigionia lui fece, a pane acqua zuppa e Cassia, passando per i campi di Tambov, Oranki, Suzdal, Vladimir, Odessa e San Valentino. Fu prelevato il 24 dicembre 1942 e ne uscì il 7 luglio 1946.
O quando mi raccontò di come tornò a casa. O di come lo prelevarono.
Lo sa bene Bassi cosa gli hanno fatto i comunisti.
Ricordo che quel giorno a casa sua andò a recuperare tutto.
Conobbi anche sua nipote, Benedetta. Che è la figlia di Carlo e Silvia, che compie gli anni il giorno prima di suo nonno. Il 2 febbraio di anni ne ha fatti due. Nella stessa casa ci sono due persone che c’hanno cent’anni e un giorno di differenza.
Sono parti della stessa vita. La stessa linfa. La vita che si tramanda, il legamento che non si recide, la vita che scorre, si trasforma e mai muore.
Poi. Poi ci sono dovuta tornare a intervistarlo.
Una volta non bastava. Troppe cose. Troppo subito per entrare così dentro le vite.
E così ci sono tornata. Per farne dei pezzi.
Fino a che non è arrivato il lockdown. E un giorno di marzo ci siamo sentiti su Skype. Lui era lì col figlio. Gioioso, energico.
Gli feci un’intervista perché lui è Lettore del Giornale dal primo numero. Ancora lo conserva. Alla fine di tutto gli dissi: “ma per quello che ha patito lo Stato le ha dato qualche riconoscimento?”. Mi ha detto di no.
Stamattina, dopo l’uscita del pezzo, il figlio mi ha scritto che il padre era tutto orgoglioso e mi ha ringraziato.
No. L’ho interrotto. Sono io che ringrazio.
Sono io orgogliosa di averne scritto e di aver stretto la mano a un grande Uomo.

sbetti

Ph sul divano Niccolò Cambi

Link Giornale 👉 https://www.ilgiornale.it/news/sopravvissuto-ai-gulag-e-soldato-nel-cuore-sempre-col-1957438.html

Il cimitero dei morti dimenticati. L’impresa di un uomo

Lui è Vito Surdo, è di Salemi (Trapani) ed è l’ex primario di Ortopedia dell’ospedale di Mirano (Venezia). C’ho fatto un pezzo sul #Giornale.
L’ho conosciuto una mattina per caso.
Mi ero fermata al bar a fare la rassegna stampa quando ho sentito Vito che parlava con un uomo di un cimitero dei morti dimenticati. Di fosse comuni.
Mi ha subito incuriosito e quatta quatta ho ascoltato tutto il discorso.
Mi ero fatta prendere poi da quel suo accento che amo tipicamente del vento del sud che evoca enormi prati e mari sconfinati, brezza marina, mare calmo e in tempesta, sole, profumi, agrumi, intere distese dorate di oro sabbia e tramonto.
Mi ero fatta prendere.
E così quando il suo amico se n’è andato, quatta quatta mi sono avvicinata.
E gli ho detto: “senta scusi, io ho ascoltato tutto, sono una giornalista”.
Quello che viene dopo lo trovate nel pezzo.
Vi racconto di una fosse comune dei morti di colera. Degli scavi per riesumarli. Vi racconto di come venivano seppelliti questi morti. Di come venivano gettati. Di come venivano separati tra una gettata di cemento e una manciata di terra.
Ma soprattutto vi racconto dell’impresa di un uomo che è riuscito a portare alla luce questa storia, a recuperarla, a riconciliarsi col passato, col presente e il futuro.
Se ora quei morti sono ricordati è grazie a lui e a chi in lui ha creduto.
Perché come ha scritto il sindaco di Salemi Domenico Venuti nella prefazione del libro di Vito: “Il tempo non può e non deve cancellare la memoria”.
Vito è la prima citazione nel mio libro che uscirà tra poco.
Quando Vito ha inziato a richiedere i permessi per realizzare il suo progetto mai avrebbe immaginato che il suo libro uscisse proprio durante l’anno del covid…

#sbetti

LEGGI IL PEZZO sul Giornale
👉 https://www.google.it/amp/s/amp.ilgiornale.it/news/cronache/fosse-comuni-dei-morti-colera-1956113.html

I paesi deserti, le piazze vuote

C’è stato un tempo in cui abbiamo vissuto tutto questo. Mirano, Venezia, primo lockdown

#sbetti

Quante Saman ancora? Quante?

Studio di Souad Sbai

Quante Saman ancora? Quante?
Allora sono entrata dentro allo studio di Souad Sbai e appena ci sono entrata mi è salito il cuore in gola. Appena entri, appese alla parete ci stanno le immagini di quelle donne morte ammazzate seviziate stuprate da mani e occhi che le vedevano troppo occidentalizzate. Prese e ammazzate da chi ha abusato di loro e poi le ha lasciate lì agonizzanti a morire. Le ha tagliate a pezzi. Le ha fatte fuori. Ha squarciato loro il ventre come si squarciano gli animali.
Pamela Mastropiero è stata ammazzata da un nigeriano il 30 gennaio 2018, il suo corpo venne ritrovato mutilato in due valigie.
Desirée Mariottini, 16 anni, drogata, stuprata, violentata a turno. Si erano messi in fila per dilaniarle il corpo. Poi quando hanno visto che non dava più cenni di vita l’hanno lasciata lì agonizzante a morire.
Rachida Radi, 35 anni, uccisa a colpi di martellate dal marito nel 2011 perché viveva all’occidentale e voleva avvicinarsi al cristianesimo. Lui le ha sfondato il cranio.
Hina Saleem, classe 1985, pachistana, ammazzata dai parenti a coltellate l’11 agosto 2006 perché non voleva adeguarsi agli usi tradizionali della cultura d’origine. Venne sgozzata e sepolta nell’orto di casa a Brescia. Con la testa rivolta verso la Mecca e il corpo avvolto in un sudario.
Sanaa Dafani a Pordenone è stata accoltellata a morte dal padre in un bosco, mentre era in compagnia del fidanzato, un italiano. La tradizione non consente di vivere con un uomo senza sposarsi.
Souad Alloumi invece è scomparsa nel 2018.
E ce ne sono tante altre. Sono ragazze belle, solari, radiose, con quegli occhi luminosi e raggianti.
Le loro colpe: rifiutarsi di indossare il velo islamico, vestire all’occidentale, fumare qualche sigaretta, indossare jeans, frequentare amici cristiani, avere amici non musulmani, studiare o leggere libri “impuri”, ascoltare musica o suonare, voler divorziare, essere troppo indipendenti emancipate.
Rukhsana Naz a Londra, ancora nel lontano 1998, è stata uccisa perché aveva rifiutato un matrimonio combinato. Aveva 19 anni.
In Svezia Fadime Sahindal è stata uccisa a colpi di pistola perché si era avvicinata alla cultura occidentale. È stata uccisa dal padre dopo essersi segretamente incontrata con la madre e le due sorelle più piccole, alle quali era stato vietato di vederla. Era stata espulsa dalla famiglia quattro anni prima per una sua relazione con un giovane svedese-iraniano. Ci hanno fatto un libro.
Anche a Heshu Yones, curda irachena, molto bella, hanno tagliato la gola perché aveva un fidanzato cristiano. Aveva 16 anni. La figlia secondo il padre era diventata troppo “occidentalizzata” e aveva intrattenuto una relazione contro i suoi ordini.
Sohane Benziane è stata torturata e bruciata viva il 4 ottobre del 2002 in Francia. Le hanno dato fuoco con un accendino. La gente in diretta assisteva alla sua morte. Aveva 17 anni.
E ancora a Londra qualche anno fa, un padre, di origini pachistane, bruciò vive la moglie e le sue quattro figlie dopo averle chiuse in casa. Non accettava il fatto che la figlia volesse diplomarsi o rifiutasse il matrimonio combinato.
Perché nel nome della Sharia le donne quando crescono devono rimanere segregate in casa.
Per non parlare di tutte quelle vergini che si ammazzano prima.
O di tutti quei padri padroni di cui ci arrivano i comunicati stampa da parte delle forze dell’ordine. Il mostro che le tiene segregate in casa. Che le violenta. Che le picchia. E che poi si scopre che aveva origini di chissà dove e non accettava che la moglie vivesse all’occidentale.
Allora in tutto questo orrore.
In questo oceano di croci mi chiedo dove siano quelli che scendono in piazza per rivendicare i diritti dei migranti. Dove sono quelli che scendono in piazza quando a sparare sono gli italiani.
Dove?
Perché come al solito ci indigniamo per quello che ci fa comodo.
Ma per queste donne non una parola.

#sbetti

Saman è vittima di chi predica integrazione

Ma quale integrazione. Ma quale. Ma non ci credete nemmeno voi alle nullaggini che dite.
Ma Letta poi. Letta. Enrico Letta
Letta che tanto si è prodigato per indossare la maglia della Open Arms, perché stavolta non spreca mezza parola e indossa la maglia con il volto di Saman?
Perché?
Perché non lo fa?
Mi chiedo se chi predica integrazione, sappia mai cosa predicano queste persone e come vivono. Per chi aderisce alla Sharia, la legge del Corano, quelli dell’islam violento, ecco per questi la Sharia è considerata legge fondamentale. Non esiste altra legge superiore. Non esistono le nostre leggi.
Non esiste deroga. Non esiste eccezione. Non esiste concessione.
Chi si ribella muore. “Sposati con chi ti dico io o t’ammazzo”.
Ma soprattutto mi chiedo se chi predica così tanta integrazione e si straccia le vesti per migranti e navi umanitarie finanziate da buonisti, Anpi, talebani dell’accoglienza e quant’altro, abbia mai veramente parlato con queste persone, con quelli del fanatismo religioso, se sia mai stato in mezzo a loro.
Se abbia mai provato a vedere gli occhi di quelle donne e vederle che non spiaccicano mezza parola perché a 19 anni “non potevo imparare la lingua”. Perché appena vedono che ti stai formando. Che stai crescendo, prendono e ti rinchiudono.
Devi stare dentro al perimetro delle regole del loro fanatismo religioso e sposare i i rami del loro albero genealogico.
Ci sono i padri che vanno ai colloqui con i professori perché le madri non ci possono andare. Se una donna tenta di vivere all’occidentale come aveva detto Saman al suo fidanzato, “la soluzione è farla fuori”.
Saman l’hanno fatta sparire perché si era opposta a un matrimonio combinato. Uno di quei duemila l’anno che combinano queste famiglie per le loro figlie. Sono ragazzine di quindici anni date in spose ai cinquantenni.
Quando nasci sei già predestinata a qualcuno. Avevo conosciuto una bambina una volta. Era cresciuta qui in Italia. Quando era diventata matura l’avevano rispedita in Bangladesh perché doveva sposare un ricco del Paese. Era tanto carina. Bellina. Aveva anche il bindi stampato in fronte. Rosso come il fuoco. Rosso come l’amore. Rosso come il dolore che provava quando se n’è dovuta andare. “L’hanno data in sposa”, ti diceva la gente del paese. Orribile.
Saman Abbas era tornata forse a casa perché rivoleva i suoi documenti. Quei documenti le sono stati fatali. È stato forse lo zio a strangolarla. Mentre altri due la tenevano ferma. I cugini. Tutti indagati per concorso in omicidio.
Un’esecuzione che porta il nome dei suoi stessi cari.
Nel video si vedono tre uomini. Uno con una pala. Uno con un piccone e uno con dei sacchetti di plastica. Finito tutto, il cugino in una chat avrebbe scritto: “abbiamo fatto un buon lavoro”.
Il buon lavoro probabilmente è Saman morta. Il buon lavoro forse è Saman morta ammazzata. Il buon lavoro è Saman che non si trova. Il buon lavoro forse è Saman interrata nei campi. Forse a pezzi. Come fosse mangiare per gatti. Un rifiuto. Un essere da eliminare.
Se sei donna e vesti all’occidentale ti guardano come se fossi un insetto da schiacciare. Una volta mi ero intrufolata in una moschea. C’era da avere paura.
Saman aveva provato a ribellarsi. Aveva provato a denunciare. Ma non c’è stato verso. In queste cose, complice un sistema che tradisce queste donne e le fa arrivare in Italia e poi le abbandona, e complice un sistema ipocrita e razzista tale per cui se denunci queste cose passi dalla parte del torto perché islamofobo o chissà che altro, ecco complice queste cose ci deve sempre scappare il morto. Del resto troppo per loro. Selfie, facebook, foto davanti lo specchio, jeans strappati e rossetto.
Ma in tutto questo.
In tutto questo mi domando. Letta, le femministe tutte, tutti quei buonisti che predicano integrazione giocando con la vita degli altri, dove sono?
Dove?
Del resto. Non puoi biasimare qualcuno per la mancanza di spessore e fibra morale.

#sbetti