Costruire

Questo è uno dei tanti giorni. Una delle tante domeniche. Una delle tante notti. Questa é una delle tante domeniche passate a studiare, ad approfondire, a cercare, a ricercare, a migliorare. A migliorarsi. A fare. Una delle tante domeniche passate a costruire. A costruire il presente. Progettando un futuro. Una delle tante giornate passate con la testa china sopra il computer. Con il cellulare che impazza. Con le dita che strimpellano sulla tastiera. Con le mail da leggere. Con i whatsapp che riempiono i telefonini. Quelle giornate passate con i pugni che battono sopra i tavoli, con gli scontri, con gli incontri, con i punti di vista, le opinioni. E questa è una delle tante domeniche passate a confrontarsi, a parlare, a cercare soluzioni, una delle tante domeniche prima di partire e incontrare il mondo fuori. Una di quelle tante giornate di quando pranzo in piedi in mezzo alle persone, di quando prendi un caffè al volo, di quando ceni a mezzanotte. Quando torni a casa la sera e stremata lanci le scarpe sul balcone. Una delle tante domeniche passate tra i fogli, i desideri, le carte, le angosce, i sogni, i pezzi e le parole, tra la musica, i caffè, le sigarette, una delle tante notti stremate con gli occhi stanchi, passate a mettere in fila i pezzi per comporre un puzzle. Il più bel puzzle del mondo. E allora c’è una cosa che ho imparato in questi mesi. Una cosa che nella mia vita ho sempre fatto fatica a mettere in pratica. Il restare. Il rimanere. Con il mio lavoro poi, quando finisci una cosa e sei già su quella dopo, quando sai le cose prima che accadano, quando succede qualcosa e non fai in tempo a correre che succede già quella dopo, e quando stai per finire un progetto e pensi già a quello successivo.

Con il mio lavoro che a volte ti porta a stare e a passare da una stella cadente a un’altra, portandoti dietro pesi gioie dolori degli altri, ansie desideri paure e preoccupazioni ma anche soddisfazioni, energie, forze, carichi di energia pura.

E allora c’è una cosa dicevo che sto imparando. Ed è un verbo. Uno di quelli che finisce in Ire. Uno di quelli snob che se ne stanno chiusi in un angolo di un libro ormai stanco. Di quelli quando arrivi a fine anno e per gli ultimi argomenti non c’è mai tempo.

E allora alle elementari amavo, ma avevo soggezione dei verbi in ire. Sentire. Udire. Venire. Soffrire. Li vedevo distanti. Freddi. Nobili. Ricchi. Con questa i magra secca allampanata. L’unico verbo che mi piaceva e che appena lo sentivo mi immaginavo un aereo con le alette blu in volo era partire.

E poi odiavo verbi in ere. Cadere. Rimanere. Contenere. Soggiacere. E mi creavano ansia quelli in are. Amare. Stare. Fissare. Programmare. E quindi dicevo c’è un verbo che non avevo mai considerato ed è costruire. Costruire. Erigere qualcosa. Cercare di tracciare il solco della vita. Una parola che non avevo mai preso in considerazione.

E allora in questi giorni sto imparando che nella vita si può costruire.

E che i sogni se vuoi prendono forma.

#nottesbetti

#sbetti

Venezia come una puttana

Dal diario di Facebook del 25 maggio 2018

Allora guardoni di Facebook di tutto il pianeta. Allora. Mi avevate criticato in tutte le salse, in tutte le lingue, in lungo e in largo, quando mi ero permessa di dire che chi piscia, sì cari, chi letteralmente piscia, sopra le gondole di #PiazzaSanMarco, in mezzo al #CanalGrande, è un incivile. Un barbaro. Un cafone. Anzi qualcuno mi aveva pure detto che “sì”, che “si fa così” perché “se a #Venezia non trovi un bar per fare pipì la puoi anche fare lì”, sì insomma lì, in mezzo a dove capita, pure in mezzo alla testa di qualche statua che spunta da un palazzo dell’Ottocento.

Anzi “vorrei vedere te se ti scappa”, mi aveva detto qualcuno. E il caso riguardava quella turista ripresa a far pipì in mezzo a una gondola, tale per cui “Venezia non è un cesso”.

Così come ero stata attaccata quando avevo detto che Venezia dai turisti e pure dagli italiani è trattata come una puttana, che ci pisciano, ci mangiano, ci bevono, ci dormono, ci fanno a pugni, a cazzotti e poi non tirano nemmeno l’acqua.

O come ero stata attaccata quando dissi che #Firenze, Firenze era stata trattata come una puttana, sì quel giorno quando i migranti spaccarono le fioriere, le panchine, scaraventarono gli scooter. Qui addirittura mi si diede della razzista. Quando mi ero limitata a riportare i fatti. Ma basta pronunciarla la

parola migranti, che subito ti additano.

Poi razzista. Io. Che ho amici ovunque. Che uno dei miei migliori amici è ghanese.

Allora vedete oggi, quando ero a Palazzo #FerroFini, nella sede del Consiglio regionale del #Veneto, dove sono stata invitata per raccontare la mia assurda storia, davanti la sede di quel palazzo, accendendomi una sigaretta, mi sono voltata, dalla parte di dove non tirasse il vento, e cercando l’accendino ho alzato gli occhi al cielo e ho visto questo spettacolo. Davanti a me la Basilica della #MadonnadellaSalute, che accarezza il cielo e fa l’amore con l’acqua.

E davanti a me questi gerani, così belli, così colorati, con i colori dello smalto di noi donne appena laccato. E poi davanti a me queste briccole così colorate, così lucide, così dipinte con i colori dell’arancio, dell’argento e del blu. Quello oltre mare.

E davanti a me quella cupola, e quella basilica, con i suoi merletti e i suoi capitelli, con i suoi marmi scultorei e le sue colonne. Con la sua possenza e la sua forza. Con la sua Salute.

E davanti a me quel veloce fruscio di barche e quel lento ondeggio di gondole che va su e giù, su e giù, su e giù. Senza fermarsi mai. Se non per accostare. Se non per lasciar passare. Così come davanti a me quella brezza nell’aria e quel volteggiare di gabbiani.

Allora con questo spettacolo della natura davanti a me, dentro di me mi sono chiesta come una persona potesse arrivare mai, a pisciare, calandosi le braghe, in mezzo al Canal Grande, in bilico su una gondola.

Come. Così come mi sono chiesta come fanno i turisti a Venezia a fare di tutto. A non capire che Venezia è così fragile e bella che sembra di cristallo.

Vetri incastonati tra gli infissi di una basilica. Mosaici sulle pareti di palazzi ottocenteschi. Tessere dorate appese al muro dove sbatte l’acqua. Finestre agghindate con i fiori della primavera. Colonne che svettano come titani marcite dal continuo sbattere delle onde del mare. Statue. Dipinti. Affreschi. Cupole. Campane. Campanili. Mattonelle incastrate alla perfezione. Gondole. Angoli. Scorci. Scale. Negozi. Botteghe. Calle, callette, canali e pure i ponti. Già i ponti.

Allora non ho capito come si fa a trattare Venezia come una puttana.

Perché vedete in questa città così fragile e bella, ci fanno veramente di tutto.

Un parco acquatico, più che una città d’arte. Senza nemmeno pagare il biglietto.

I soli biglietti che pagano sono quelli dei taxi. Degli autobus, dei treni, degli aerei e dei vaporetti. E molte volte nemmeno quelli. Nemmeno questi.

La gente bivacca sui gradini di piazza San Marco, così come a fare picnic in aperta campagna il giorno dopo Pasqua.

La gente dorme sopra i gradini di Palazzo Ducale e getta le coppette del gelato davanti le vetrine di quelle poche botteghe artigianali rimaste, dove una maschera costa quattrocento euro.

Gente che con le mani impiastricciate di gelato si posa sulle vetrine appena lucidate dai cinesi. E gente che si tuffa dai ponti, perfino di Rialto, o che va a surf tra i vaporetti, come era successo con il giapponese gettatosi dal Ponte degli Scalzi.

Insomma di tutto. Per non parlare di quelli che pisciano in mezzo alle gondole. Di quelli che gettano rifiuti in laguna e di quelli che, guarda caso, fanno sesso accanto ai battelli e se vengono ripresi con il telefonino da qualcuno, pure ti salutano e continuano.

Così, come se Venezia fosse uno sfogatoio libero. Come fosse il museo del sesso. Della cafoneria. E della mancanza di eleganza.

Allora sì. Allora Venezia è trattata come una puttana. E voi, noi… non abbiamo capito un cazzo.

#avantisbetti #nottesbetti

Trova il tempo

Oggi mi è successa una cosa. Allora me ne stavo tutta indaffarata e impicciata. Avevo tremila cose da fare. Uno che ti chiama da una parte, uno che ti chiama dall’altra. Uno: “Serenella fai tu vero?”, un altro “Serenella ho un problema”, un altro ancora “Serenella scusa come si fa qua?”, “Serenella ti sei ricordata?”, ecco e allora era una richiesta dietro l’altra quando ho deciso di mandare in culo tutti per mezz’ora e di andare a prendere un caffè. Bisogna fare così. Quando le richieste diventano insistenti e sono tante. Devi fregartene. Lasciarle defluire sul corpo come l’acqua che defluisce sulla parete e fare finta che non esistano. Che non succedono. Che non accadono. Che non intaccano minimamente la tua sanità mentale. Sì insomma devi pensare che le ore sono quelle e che tutto andrà liscio. E allora dicevo ho preso, ho staccato e sono andata mezz’ora da sola a bermi un bel caffè. Non vi dico la goduria. E allora entro, mi avvicino al bancone, ordino, il caffè arriva, quando sto per sorseggiare e sento una voce dietro di me. Una voce di un uomo che scherza con una donna. Allora mi giro e dietro di me ci sta un vecchietto. Quatto quatto sta seduto su una sedia con le spalle ricurve, il cappotto e ancora indossa il berretto. C’ha un capotto uno di quelli verdi militare, e sotto il cappotto c’ha una stoffa a quadri. In testa invece c’ha un cappello, accanto a lui sta un bastone e se ne sta lì a sorseggiare un aperitivo con tanto di patatine. Le dita sottili lunghe mangiucchiate dal tempo e affusolate stanno sopra la tavola in attesa di qualcosa. Gli occhi ancora vispi lucidi e arzilli sono di un azzurrino o forse verde chiaro. Sembra il tizio di Baglioni che accanto c’aveva il bimbo che “si tuffa dentro a un bignè”. Ecco questo sembra quello “Seduto con le mani in mano, Sopra una panchina fredda del metrò, Sei lì che aspetti quello delle 7:30, Chiuso dentro il tuo paletot”. E allora dicevo dietro di me ci sta sto tizio che vedo che scherza con una signora che sta al banco. Una donna che c’avrà più o meno la sua età. Lui le dice: “guarda che ti vedo”, e lei sorride. Insomma uno dei primi innamoramenti riportato in epoca matura quando ormai l’amore è già stato rubato, si è già donato, ha già sofferto, si è strappato, l’hanno mangiucchiato, l’hanno strappato. L’hanno stracciato. Ne hanno fatto quello che hanno voluto, l’hanno mangiato e l’hanno sputato. A terra. Come si sputano i vermi. E allora lui le dice: “alla mia età dovrò avere pur qualcosa no?”. E poi. Poi la tipa se ne va. Il vecchietto si alza e viene verso il bancone. La barista lo guarda e lui le dice: “sono sempre qua, ma ho tanto tempo”. E poi continua: “pensare che da giovane non avevo mai tempo, mai, mi svegliavo alle quattro del mattino per lavorare e andavo a letto la sera subito dopo il lavoro, tempo per divertirmi mai avuto”. Poi. Poi mi guarda. E mi dice: “non è vero forse? Cosa ne dice lei giovane?”. E così lo guardo. Gli sorrido. E penso. E allora penso che è proprio strana la vita. Sì. È proprio strana se da giovane non hai tempo, e da vecchio ne hai tantissimo quando non hai più tempo, che è proprio strana. Cioè mi sono detta: tu guarda questo poverello, ha passato una vita a non aver tempo, a lavorare tanto per ritrovarsi ora ad avere troppo tempo. E così. Così poi lui se n’è andato. Avvolto nel paletot ha imboccato la via d’uscita e ha salutato tutti. E allora lì mi sono detta: al diavolo gli impegni, ogni tanto riprendiamoci questo cazzo di tempo.

Se ci sono errori perdonatemi. Ho scritto di getto. Non rileggo. E vado a letto.

#nottesbetti

#sbetti

Il Paese dei Coglioni

Allora siamo il Paese dei coglioni. Abbiamo proprio il primato, proprio. E allora vi volevo dire una cosa. Dunque sono un po’ di giorni che volevo scrivere questo post ma il tempo. Ah il tempo. E allora adesso ve lo scrivo. Insomma l’altro giorno mi arriva sta notizia dell’autista dello scuolabus che ad Arquà Petrarca #Padova, dopo aver fatto una manovra azzardata ed essersi ribaltato col bus, ha abbandonato i ragazzini feriti sul mezzo ed è scappato. Sì insomma ha caricato i bambini sull’autobus all’uscita da scuola, come sempre. Poi facendo un tornante, una manovra azzardata, l’autobus si è rovesciato su un fianco, i bambini sono rimasti dentro e lui ha preso ed è scappato. Non solo. Quando i carabinieri l’hanno trovato dopo due ore, ha provato a fuggire anche dai militari stessi. E il baldanzoso, Deniss Panduru il suo nome, che evidentemente per lui l’incidente di uno scuolabus con bimbi a bordo è come giocare a guardia e ladri, è pure risultato positivo all’alcol test, dopo due ore. Figuratevi dopo cinque minuti quale tasso avrebbe potuto avere. Non solo, il tipo, nazionalità romena, anni 51, da un mese lavorava per la ditta che aveva in appalto il trasporto, e aveva anche precedenti penali.

Per questo incidente all’ospedale sono finiti undici ragazzini bambini, tutti dai 6 ai 12 anni, con ferite, escoriazioni, abrasioni. Tutti impauriti. I giorni di prognosi sono stati da uno a cinque, tutti con diagnosi di contusioni lievi.

Tre traumi cranici, di cui uno con piccola ferita. Due minori trasferiti in Pediatria poi dimessi e alcuni traumi alle spalle e alla caviglia. Nessuno ricoverato. Così uno dice. Bè dai. Insomma successo niente. Eh no invece. Un cazzo. Perché adesso ve lo dico io cos’è successo. Insomma al di là dell’incidente, qui è successo che uno che aveva già precedenti penali e che era pure ubriaco aveva in mano uno scuolabus dove a bordo ci stavamo bambini e ragazzini.

Ed è successo che uno che aveva un curriculum di tutto rispetto aveva in mano la vita di decine di bambini quando non avrebbe potuto avere in mano nemmeno il trasporto di un quintale di cacca.

Perché poi, non si capisce bene perché in Italia accade sempre così. Sì insomma così. Che se hai un professore analfabeta te lo spostano e te lo piazzano in qualche altra scuola e se hai un autista negligente mezzo delinquente che prima di prendere in mano dei bambini si fa l’aperitivo, il bicchiere, l’amaro, il bicchierino e pure l’ultimo, viene messo a guidare un autobus che trasporta ragazzini appena usciti da scuola.

Allora scusate. Ma dove straminchia siete tutti. Dove? Dove siete? Dove sono quelli che dovrebbero controllare e non controllano?

Perché poi ci facciamo belli. Poi siamo il Paese che investe sulla sicurezza, che predica tanti bei discorsi, siamo il Paese che fa le leggi, che intensifica i controlli, che aumenta le pene, siamo il Paese che fa i corsi di formazione, che se non indossi le scarpe antinfortunistiche in pasticceria ti fa la multa, siamo il Paese che ti irroga la sanzione se l’oleandro di casa sporge di dieci centimetri in strada, e siamo il Paese che così, fa guidare uno scuolabus a un ubriaco con precedenti penali. E allora sì. Siamo il Paese dei coglioni.

#nottesbetti

#sbetti

Oggi ho incontrato una donna

Oggi mi è successa una cosa. Oggi ho incontrato una donna. È una mamma. Una madre che conosco. Una madre di quelle che ha perso il figlio e che ho seguito quando facevo la cronaca nera locale. Allora l’ho incontrata stamattina. E appena mi ha visto mi ha sorriso. Sì mi ha sorriso. Mi ha guardato. E mi ha detto: “Ciao Serenella, come stai?”. E allora io le ho detto bene. E poi gliel’ho richiesto. Ma non era un “come stai” di circostanza. Un come stai dettato dalla situazione. Era un come stai dettato dall’emozione. Sì. Sì insomma ci siamo guardate e insieme abbiamo capito. Che non c’era molto da dire. Lei mi ha guardato come a dire: “sì tu lo sai. Tu lo sai quello che ho passato, ma ora sto meglio”. Lei mi ha guardato come a ringraziarmi del rispetto. Quel rispetto che a volte manca quando scriviamo di morti e incidenti come fossero auto accartocciate senza esseri umani.

E allora dovete sapere che questa madre ha perso il figlioletto in un incidente stradale. E io me lo ricordo quell’incidente stradale. Dio se me lo ricordo. Arrivai che era appena successo. E trovai il caos. Auto sbattute, sparpagliate in mezzo alla strada. Gente che urlava. Una persona insanguinata che stava in mezzo alla carreggiata senza saper che fare. E allora mi ricordo di quando arrivarono i soccorsi. Di quando arrivarono i rinforzi. Di quando capii che il figlio di questa donna era morto dagli occhi di un soccorritore. E poi. Poi ricordo quella madre. Sorretta dal marito. Uno strazio. A fine di quel lungo pomeriggio camminava per la strada con gli occhi sbarrati. Pieni di pianto. Lucidi. Con gli occhi di chi aveva perso un pezzo e non sapeva da che parte iniziare. E allora quando nel lavoro mi sono trovata a seguire o mi trovo a seguire questi casi, sto sempre un passo indietro. Anziché uno avanti. Lascio sempre che siano loro ad avvicinarsi, a provare a raccontare un mondo che fino a qualche istante prima c’era e nel giro di mezzo secondo non c’è più. Lascio sempre siano loro a raccontare quel mondo spazzato via in pochi attimi. E mi sono accorta che sempre con queste famiglie poi, ho sempre trovato una mano, una mano a cercare di farmi capire, una mano a poter scrivere di un dolore così grande che non ci sta nemmeno nelle parole. Un po’ come il caso di un altro bimbo. Oggi il nonno mi ha scritto ringraziandomi per un pezzo che feci in ricordo del nipote. Grazie di cuore.

E allora per quanto possano dirne, per quanto possano farci credere che non sia vero e che siamo tutti degli avvoltoi in cerca delle parole disperata per un po’di carta da riempire, ecco questo è il mestiere più umano che ci sia. Quello dove ti metti a nudo e non usi nient’altro che la parola data.

E allora l’altro giorno a una cena mi hanno chiesto com’è seguire questi casi di cronaca nera. Già. Com’è. È spersonalizzante. A volte devastante. Scrivi e poi arrivi la casa la sera e ci pensi. Poi però, poi però ti capita di reincontrare queste persone, di parlarci, capita a volte che siano loro a chiamarti. E quando oggi ho rivisto quella donna. Che mi ha sorriso e mi ha chiesto: “come stai”, mi sono sentita bene perché ho capito che nel lavoro ci avevo messo il cuore.

#sbetti ❤️

Trentacinque sono gli anni della libertà

Trentacinque. L’altro giorno guardavo questo numero e mi sono detta che trentacinque in fondo è un bel numero. Sì, bello come numero. Mi piace. Sì insomma mi piace sapere che non ho trent’anni ma nemmeno quaranta. E allora l’altro giorno i miei hanno voluto farmi una festa. Io. Io che sono sempre più scofice a queste feste. Io che da quando ho fatto ventinove anni, storco sempre il naso per fare queste feste. E allora cominciano a chiederti: “Serenè nun vo’ fa’ co’ per lu compleanno?”. Che tradotto dal marchigiano all’italiano significa: “Serenella non vuoi fare nulla per il tuo compleanno?”. No nulla rispondo io. “Ma come? Nemmeno mezza fetta de dolce?”. E io: no, te so ditto de no. Che vo’ fa?

E allora quest’anno però ho festeggiato. Sì. Sarà che era perché ci stava pure mia nipote, ho festeggiato. E allora all’inizio quando mi hanno messo sta torta davanti, quel 35 mi ha fatto un certo effetto. Poi. Poi l’altra sera per caso l’ho riguardato. Mi è capitato sott’occhio. E allora ho pensato. Sì ho pensato che è bello averne 35. Come sono belli tutti gli anni. Trentacinque però è l’età in cui sei ancora vicina ai 30 e sei ancora lontana dai 40. Insomma stai giusta a metà. Trentacinque è quell’età in cui non ha più trent’anni che la tua vita si sta formando, sta crescendo, si sta indirizzando. In questo mondo dove le vite si formano sempre più tardi. Ma non hai nemmeno quarant’anni dove la tua vita magari è già indirizzata. Trentacinque sono gli anni della libertà. Quelli in cui puoi permetterti di mandare a fanculo qualcuno. Quelli in cui puoi permetterti di scegliere. Quelli in cui puoi permetterti di indirizzare la tua vita. Quelli in cui puoi decidere che fare. Trentacinque sono quegli anni in cui puoi permetterti di farti sentire senza urlare. Quelli in cui sei libera da condizionamenti. Quelli in cui te ne fotti e inizi a capire alcuni meccanismi. In cui frequenti certi ambienti. In cui ti trovi catapultata in un mondo che non sembra il tuo ma che osservi con gli occhi di una donna. E trentacinque sono gli anni frutto delle lotte. Delle ribellioni. Dei mal di pancia. Dei toni forti. Trentacinque sono gli anni e anni di rivoluzioni. Sono gli anni che te li mangi. Che ci credi. Che vivi questa vita come se fosse sempre attivo l’acceleratore. Trentacinque sono gli anni in cui sei ancora spensierata ma con i piedi per terra. Sono gli anni in cui puoi ancora permetterti di non prenderti troppo sul serio. Di ridere. Di scherzare. Di giocare. Trentacinque sono gli anni in cui puoi ballare a piedi nudi sull’erba. In cui puoi fare l’amore in mezzo alla sabbia. In cui puoi cantare e chi se ne fotte se ti stanno ad ascoltare. Trentacinque sono gli anni di ideali non ancora del tutto traditi. E trentacinque sono gli anni in cui viaggi a trecento all’ora, perché hai capito che la vita va vissuta. Va amata. Va mangiata. E allora oggi mi hanno detto: “sei una macchina da guerra”. Sì. E la verità? Bisogna tenersi in forma.

#sbetti

Qui dove si canta la Storia

Quando l’altro giorno sono entrata in questa stanza. In questa bottega. In quest’eremo come ama descriverlo Francesca Gallo, ci sono andata con l’intento di immergermi in una storia. Di chiudere per un attimo la porta. E lasciare il mondo fuori. Di immergermi un attimo in un altro mondo per cercare di capire il mondo fuori.

Perché lei, Francesca Gallo, 43 anni di #Treviso, ha raccolto e raccoglie le storie degli emigrati italiani, le ha registrate, le ha messe su carta, le ha archiviate e ora le narra in giro per il mondo. Le canta. Le racconta. Le interpreta. Le intona con quella sua fisarmonica di legno di pero fatta a mano col padre.

E allora ho conosciuto Francesca durante una serata. E subito sono rimasta incantata dalla sua voce, così soave e calda, e dalla sua capacità così schietta di parlarti prima in dialetto e poi in un italiano perfetto. Che più perfetto non si può. Vocaboli scelti. Semplici. Lineari. Così lineari come la Storia che lei vuole raccontare. Perché a un certo punto della sua vita ha sentito che le mancava un pezzo. Che stava sì vivendo il presente, che era proiettata verso il futuro, ma che era come se mancasse il passato.

E così ha deciso di partire. E di ricostruire il puzzle cercando prima i pezzi. Senza scatola. Senza confezione di pezzi già pronti.

Per otto mesi, con la fisarmonica in spalla e uno zaino, ha percorso i sentieri del Canada e del Belgio alla ricerca di quegli italiani migrati all’estero nel secondo Dopoguerra.

E infatti. Infatti ha raccolto 3000 canti che poi ha portato in giro in 24 Paesi per oltre 1400 concerti.

Una “straccivendola d’anime”, ama definirsi.

E allora c’è stato un momento quella sera quando l’ho conosciuta in cui alla frase: “sono partita per raccontare le storie degli emigrati italiani”, mi sono rizzata sulla sedia e ho pensato che questa persona dovesse avere una storia pazzesca. Che dovevo conoscerla. Che dovevo seguirla. Che non volevo limitarmi al fatto che lei fosse l’unica in Italia a costruire le fisarmoniche a mano. No. Volevo di più. E allora lì, lì ho cominciato a chiedermi perché. Perché mai una persona quasi trentenne, un giorno avesse dovuto prendere la borsa e mettersi in cammino.

E così l’ho avvicinata e sono andata a trovarla.

Poi. Poi l’altro giorno ho capito un po’ perché. Mentre Francesca mi parlava in quella stanza avvolta dal profumo del legno appena raccolto, e in quella stanza piena dei suoi attrezzi così meticolosamente riposti, e in quella stanza con le foto di lei che contempla il padre, ecco dicevo in quella stanza ho capito un po’ perché.

E il suo perché sta tutto racchiuso in una lavagnetta che vi racconto oggi sul #Giornale. In quella lavagnetta ci sta scritto: “Tradizione è custodia del fuoco, non venerazione della cenere”. Una missione che lei vuole portare avanti. Perché se dimentichiamo chi siamo, chi sono stati, chi siamo stati, siamo come tanti bagagli senza una base. Senza la via del ritorno. Siamo come tante valigie anonime che passano i nastri della vita aspettando che qualcuno scelga. E perché come mi ha detto Francesca verso la fine, dopo una chiacchierata di circa tre ore, “una freccia con l’arco prima la tiri indietro e poi la lanci avanti”.

Già. E allora mi sono detta che nelle cose vale la pena entrarci. Che bisogna spingersi fino in fondo. Anche quando costa fatica. Anche quando richiede sacrificio. E lei di sacrifici per questa bottega che un giorno vorrebbe tramandare ne ha fatti tanti.

Sì insomma mi sono detta che a volte bisogna chiudere un attimo la porta, lasciare il mondo fuori per immergersi in una storia che vale la pena raccontare.

E oggi la trovate sul #Giornale.

Buon pomeriggio.

#sbetti ❤️ 👇

http://m.ilgiornale.it/news/2019/05/05/la-dama-della-fisarmonica-che-canta-le-storie-degli-emigrati-italiani/1689144/