Questo è uno dei tanti giorni. Una delle tante domeniche. Una delle tante notti. Questa é una delle tante domeniche passate a studiare, ad approfondire, a cercare, a ricercare, a migliorare. A migliorarsi. A fare. Una delle tante domeniche passate a costruire. A costruire il presente. Progettando un futuro. Una delle tante giornate passate con la testa china sopra il computer. Con il cellulare che impazza. Con le dita che strimpellano sulla tastiera. Con le mail da leggere. Con i whatsapp che riempiono i telefonini. Quelle giornate passate con i pugni che battono sopra i tavoli, con gli scontri, con gli incontri, con i punti di vista, le opinioni. E questa è una delle tante domeniche passate a confrontarsi, a parlare, a cercare soluzioni, una delle tante domeniche prima di partire e incontrare il mondo fuori. Una di quelle tante giornate di quando pranzo in piedi in mezzo alle persone, di quando prendi un caffè al volo, di quando ceni a mezzanotte. Quando torni a casa la sera e stremata lanci le scarpe sul balcone. Una delle tante domeniche passate tra i fogli, i desideri, le carte, le angosce, i sogni, i pezzi e le parole, tra la musica, i caffè, le sigarette, una delle tante notti stremate con gli occhi stanchi, passate a mettere in fila i pezzi per comporre un puzzle. Il più bel puzzle del mondo. E allora c’è una cosa che ho imparato in questi mesi. Una cosa che nella mia vita ho sempre fatto fatica a mettere in pratica. Il restare. Il rimanere. Con il mio lavoro poi, quando finisci una cosa e sei già su quella dopo, quando sai le cose prima che accadano, quando succede qualcosa e non fai in tempo a correre che succede già quella dopo, e quando stai per finire un progetto e pensi già a quello successivo.
Con il mio lavoro che a volte ti porta a stare e a passare da una stella cadente a un’altra, portandoti dietro pesi gioie dolori degli altri, ansie desideri paure e preoccupazioni ma anche soddisfazioni, energie, forze, carichi di energia pura.
E allora c’è una cosa dicevo che sto imparando. Ed è un verbo. Uno di quelli che finisce in Ire. Uno di quelli snob che se ne stanno chiusi in un angolo di un libro ormai stanco. Di quelli quando arrivi a fine anno e per gli ultimi argomenti non c’è mai tempo.
E allora alle elementari amavo, ma avevo soggezione dei verbi in ire. Sentire. Udire. Venire. Soffrire. Li vedevo distanti. Freddi. Nobili. Ricchi. Con questa i magra secca allampanata. L’unico verbo che mi piaceva e che appena lo sentivo mi immaginavo un aereo con le alette blu in volo era partire.
E poi odiavo verbi in ere. Cadere. Rimanere. Contenere. Soggiacere. E mi creavano ansia quelli in are. Amare. Stare. Fissare. Programmare. E quindi dicevo c’è un verbo che non avevo mai considerato ed è costruire. Costruire. Erigere qualcosa. Cercare di tracciare il solco della vita. Una parola che non avevo mai preso in considerazione.
E allora in questi giorni sto imparando che nella vita si può costruire.
E che i sogni se vuoi prendono forma.
#nottesbetti
#sbetti