
Mi ha destabilizzato il caso di Cloe Bianco.
Mi sento come se la mia schiena fosse un pezzo di marmo scalfito da un piccolo scalpello che piano piano fa saltare via a uno a uno tanti piccoli frammenti.
Partono schegge. Scaglie. Frantumi. Pezzi. A poco a poco cadono tutti quei sipari che avevamo costruito. E a poco contano le tifoserie da stadio.
Le storie si raccontano guardando in faccia la gente. Cloe Bianco è la professoressa transgender che nel 2015 nell’istituto di San Donà di Piave (Venezia) dove insegnava fisica, si presentò vestita da donna.
Ai suoi alunni disse: “Da oggi chiamatemi Cloe”. Lì si scatenò il putiferio. Assessori. Presidi. Alunni. Insegnanti. Genitori.
Passano gli anni e Cloe Bianco finisce col ricoprire incarichi in segreteria. Per una sua volontĂ .
Ma arriva l’11 giugno 2022 e il suo camper, quello che lei usa come casa mobile, viene ritrovato distrutto dalle fiamme in un bosco tra Auronzo e Misurina in provincia di Belluno.
Dentro: il corpo carbonizzato di lei.
Quando mi sono infilata dentro a questa storia venerdì scorso non sapevo a cosa sarei andata incontro. Le storie ti prendono. Ti avvolgono. Ci entri dentro. Non ci mangi. Non ci dormi la notte. Te le porti appresso. Te le senti addosso.
Ci lascio sempre qualcosa quando le racconto.
La cosa che più mi ha destabilizzato e mi ha fatto sudare è stata l’omertà delle persone.
Il capire poco a poco, tassello dopo tassello, passo dopo passo, ripresa dopo ripresa, telecamera dopo telecamera, che fondamentalmente nessuno ti voleva parlare.
In alcuni paeselli è ancora radicata la vergogna. Per cosa poi. Per cosa. Gente che si batte il petto in chiesa e poi si nasconde dietro un’acquasantiera.
“Non giudicare qualcosa che non puoi capire”, mi ha detto una cara amica.
Mi ha lasciato sgomenta la freddezza. A cominciare dalla famiglia.
Ancora conservo dentro di me quegli occhi del padre che mi fa entrare in casa scambiandomi per la nipote, io che gli dico: “no forse si è sbagliato sono una giornalista”. E lui che stringendomi la mano e guardandomi dritta dritta negli occhi come a volerli bucare col punteruolo mi dice: “E allora no. Allora vada via. Allora vada fuori. Non ne vale la pena. Non ne vale la pena. Deve capire che non ne vale la pena. Ha capito?”.
Cosa non ne vale la pena? Parlare del figlio? Della figlia? I suoi occhi che prima erano calmi pacati. Poi sono diventati pieni di rabbia. E di tanto dolore. Lo vedevi tutto. Lo percepivi nelle pieghe di quel volto che lentamente cambiava. Poi la moglie di Cloe. Cloe quando era Luca era sposato. Aveva una figlia.
Alla moglie ho scritto una lettera.
Poi il parroco. Se non fosse stato per un parroco di un’altra parrocchia, mio vecchio professore del liceo, a cui ho chiesto aiuto, non avrei saputo alcune cose. Il parroco di San Donà di Piave pensate, con tutti i buoni principi che ha la Chiesa, mi ha letteralmente sbattuto il telefono in faccia. Come se gli stessi chiedendo qualcosa di sconcio. Di sporco. Di losco. “De scondon me raccomando”.
Come se ti beccassero al lavoro col grembiule sporco e tu fai di tutto per nascondere. Ci butti l’acqua. Il sale. Quella frizzante. Lo fai smacchiare. Ma non serve a nulla.
Il sindaco di San Donà del Partito Democratico non mi ha nemmeno voluto parlare. Un altro mi ha detto: “basta che non mi metti in mezzo”.
Ma in mezzo a cosa?
Alcune alunne che ho contattato, prima mi hanno detto sì. Poi noi. Poi qualcuna ci ha ripensato. Solo due mi hanno parlato. Una brutalmente mi ha detto: “non ho niente da dire”.
L’ex preside prima non mi ha voluto parlare. Poi invece si è lasciato andare in una lunga telefonata che trovate nel mio servizio mentre colavo in macchina a 35 gradi all’ombra.
I vicini di casa non li ho sentiti perché una volta ho letto un’intervista di una giornalista che ha detto: “i vicini di casa è da provincialotti. Non limitarti a loro. Vai oltre”.
E oltre sono andata. Oltre anche le mie convinzioni. E ci ho visto una storia di solitudine. E angoscia. Un incubo. Anche in paese ho provato a chiedere. Ma nessuno voleva parlare. Ti guardavano con quelle boccucce di rosa bagnate dal sudore dei 44 gradi sotto il sole che sembravano figli di Dio immacolati dal perbenismo.
Gli insegnanti poi. Uno ne ho trovato. Un altro, cuor di leone, mi ha tirato pacco all’ultimo.
Cloe era completamente lasciata sola. Forse anche perché quando si innesta quel meccanismo dentro la testa per cui non vieni capita, ti isoli. Ti ammazzi. Ti lasci andare.
Nel suo blog aveva pubblicato le sue ultime intenzioni. Lo aveva fatto il 10 giugno. Il giorno prima di bruciare viva.
Chi seguiva il suo sito, quelli che sapevano la sua storia, non hanno visto. Non hanno letto. Non hanno capito. Quell’annuncio della sua morte è rimasto così, totalmente ignorato da tutti. Anche quelli che dovevano starle accanto non hanno avuto il coraggio di seguirla fino in fondo.
Riemergo oggi dopo giorni di ricerche. Di porte chiuse in faccia. Di falsi sorrisi. Di gente che posta per avere un like. E fondamentalmente se ne sbatte. L’unica immagine che conservo di quel padre e che non vi posso mostrare è lui che mi stringe la mano. E la sua voce che mi dice: “non ne vale la pena”.
Spero che questo servizio serva a qualcosa. Al di là delle nostre convinzioni. Spero di essere andata oltre. Anche per me è stata a modo suo una notte prima degli esami.
“Teach me again – cantavano Elisa e Tina Turner – teach me again”. Insegnami ancora.
Insegnami ancora.
#sbetti
Qui sotto 👇 il mio servizio andato in onda su Controcorrente Rete 4