Io non ho visto la guerra. Ma ho visto gli strascichi devastanti che lascia

Questo mio post finirà nel letamaio di tutti gli altri post che si sono scritti oggi.
Le dichiarazioni. I tweet. Le foto prese da internet. La bramosia. La foga di postare prima degli altri. In me non ci sono studi geopolitici, spiegazioni internazionali, dichiarazioni di pace. Anzi probabilmente non servirà manco a un tubo. Ma una cosa ve la volevo dire lo stesso.
Quello che vedete in foto è il mare dell’Adriatico visto dalle Marche. Al di là c’è la ex Jugoslavia.
Mi hanno fatto questa foto quest’estate al mare.
Un tardo pomeriggio quando non avevo voglia di parlare.
Mi capita spesso. E quando mi capita mi devi stare lontano. Quel giorno avevo appena conosciuto un uomo. Erano anni che lo vedevo al mare. Sempre la stessa spiaggia. Ero convita fosse tedesco.
Quel giorno io andavo in passeggiata. Lui tornava. E facemmo un pezzo di strada assieme.
Mi racconta che viene dal cielo di Bosnia. Gli dico che in Bosnia ci sono stata. Così come in Bosnia Erzegovina. In Serbia. In Kosovo. Lungo la rotta Balcanica. Non ho fatto la guerra. Non l’ho vista. Ma ho visto gli effetti che lascia. L’acredine nell’aria. La rabbia. L’odio. Il rancore. La violenza. Il puzzo della guerra lo respiri tutto. Lo vedi. Lo senti. Lo annusi. Lo percepisci. Lo vedi dai vestiti sgualciti. Dalle labbra secche. Dagli occhi impavidi. Lo vedi negli occhi della gente. Nei loro sorrisi rassegnati. Fiacchi. Deboli.
Nel loro avere tutto perché hanno conosciuto il niente. Lo vedi nelle case sventrate. Nella melma al posto delle strade. Nelle pareti ancora colpite dai colpi di mortaio.
L’uomo mi racconta che lui a 19 anni partì per andare a combattere. “La vedi questa?”, mi chiede. “Questa è una cicatrice che mi sono fatto durante un combattimento. Mi dicevano di ammazzare e ammazzavo. Mi dicevano di sparare e sparavo. Ti insegnavano chi era il nemico. Diventa normale poi. In guerra non pensi nient’altro che a salvare te stesso”.
Lo guardo con gli occhi sempre più interrogativi. Più affossati. Mi riporta con la mente a quando ho fatto quei giri nei Balcani. Mi ricordo in quella scuola al confine con la Bosnia dove la vegetazione incolta e la nebbia di quella mattina disegnavano un paesaggio spettrale. Qui l’insegnante mi disse: “La vedi questa scuola? Venne bombardata. Non c’era più niente. Le case qui davanti non c’erano più. Le buttarono giù un sabato pomeriggio”. Quando scoppiò il covid un ragazzo di Sarajevo mi disse: “Noi non abbiamo paura. Noi abbiamo conosciuto lo stato di assedio”.
L’uomo del mare mi racconta che la sua famiglia era divisa. La madre croata. Il padre bosniaco. Per anni non vide più la sua famiglia. Lui voleva studiare. Darsi da fare. Trovare lavoro. Aveva sogni. Ambizioni. Desideri. Quegli stessi desideri che ha un ragazzo di 20 anni.
Ma non gli è stato concesso. “Ho ammazzato persone. Avrei ammazzato anche mio padre. In guerra non ragioni. Pensi solo a salvarti. Quando la guerra è finita non avevo più niente. Nemmeno un paio di jeans. Non avevo una casa. Un lavoro. Una macchina. E così ho preso. Mi sono imbarcato e sono arrivato in Italia”.
Mentre mi parlava lo vedevo che soffriva. Ma davanti c’aveva un muro di ghiaccio. Quando in guerra conosci l’odio è difficile sradicarlo poi. Non trasmetterlo ai tuoi figli.
Lo stesso odio che ho incontrato quando sono stata a Sarajevo. A Belgrado. In Kosovo. Quando me ne sono andata dalla Bosnia, quel giorno, con l’auto che mi riportava in Croazia. Col sole che mi lasciavo dietro. Col tramonto che mi si apriva innanzi, in compagnia ma sempre più sola, riscaldata dal calore di quella palla infuocata, ripensavo ai tanti discorsi.
Ma c’era una domanda. Una domanda alla quale dovevo trovare una risposta.
Ho preso in mano il telefono. E ho chiamato quel ragazzo di Sarajevo. Gli ho chiesto “Ma perché? Perché tutto questo. Perché tutto questo odio”.
“Troppo male è stato fatto”, lui mi ha risposto.
Io non l’ho vista la guerra.
Ma ho visto gli strascichi devastanti che lascia.

#sbetti

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