Viaggio nel #Veneto colpito.
Dal diario di Facebook del 23 febbraio
Il vigile piantonato davanti all’ospedale di Schiavonia, nel Padovano, non accenna nemmeno un sorriso. Sta bardato con la mascherina e rimane immobile. «È qui l’ospedale da campo?» chiediamo. Ma lui non accenna nemmeno una risposta, da sotto la maschera mugugna qualcosa e con la mano ci fa segno di proseguire dritto.
L’ospedale da campo con 96 posti letto è qui dietro. Alcune tende le stanno sistemando ora. È sabato pomeriggio. E il presidio è blindato. Polizia, carabinieri, tutti piantonati davanti all’ospedale, con addosso le mascherine, circondati dal filo bianco e rosso che delimita il cortile. Ci inoltriamo nel retro. I primi dipendenti stanno uscendo. «Fanno uscire quelli risultati negativi ai test» ci dice un uomo in divisa.
La tensione è alta. Fino a poche ore prima erano chiusi dentro l’ospedale dove hanno passato la notte. «È un incubo. Mia moglie lavora in ospedale a Schiavonia. Ci sono tutti i dipendenti chiusi dentro» ci aveva detto un uomo; «non fanno più uscire nessuno» ci avevano detto altri.
Al tampone per verificare un eventuale contagio infatti sono stata sottoposte 450 persone, di cui 300 tra pazienti e frequentatori occasionali dell’ospedale, quindi 150 dipendenti. Ma anche tutto il personale che non si trovava venerdì in ospedale sarà sottoposto al test. I dipendenti sono in tutto 600.
Un uomo delle forze dell’ordine racconta di come abbia passato tutta la notte a svuotare l’ospedale. «Come in un film». Hanno evacuato pure le salme…
Da Schiavonia a Vò Euganeo – il paese dove abitava Adriano Trevisan, la prima vittima italiana del Coronavirus – sono ventotto minuti…
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