
Faccio la giornalista dal novembre 2013 e ho fatto in tempo a vedere il Veneto martoriato e rivoltato e ributtato più e più volte.
In sei anni e mezzo di attività giornalistica vissuta sempre con estrema passione e in prima linea (scusate se lo dico così ma io l’ho sempre vissuta tale) anche quando scrivevo di cessi sporchi e piste ciclabili, ho fatto in tempo a vedere un tornado spazzare via tre comuni. Era l’8 luglio 2015. Le tegole volavano dentro le case. La gente disperata.
Ho fatto in tempo a vedere lo scandalo del Mose. Era il 4 giugno 2014. Quella mattina saltarono via le poltrone e i vetri si infransero buttando i detriti a mare.
Ho fatto in tempo a vedere la crisi delle banche. Migliaia di risparmiatori sul lastrico di chi aveva percorso le loro schiene calpestandole.
Le rivolte dei migranti. A novembre 2017 marciarono per giorni in via di una resurrezione.
Poi l’alluvione che ha spazzato via il cuore delle Dolomiti bellunesi. La tempesta di Vaia. Era il 27 ottobre 2018. Gli alberi cadevano come cadono i soldati in guerra trafitti dai cecchini.
Venezia sott’acqua, con la gente disperata, con i negozi devastati, con le persone che non sapevano dove andare. Ed era il 13 novembre 2019. Quattro mesi fa.
Ed ora questo. Il Coronavirus.
E c’è una cosa che qui è diversa. Ed è che coinvolge tutti. Che tutti ci sentiamo vulnerabili. Che non è come l’alluvione che colpisce un paese e quando passa sai che è passato. Qui sai che il virus potrebbe annidarsi ovunque.
E in questo clima sospeso di incertezza, mista a sprazzi di angoscia, è per quello che non sopporto chi fa il gradasso, perché non va bene nemmeno il panico, ma la dovuta attenzione, bé quella sì. Quella potrebbe salvarci.
Vi auguro buon pranzo.
Oggi si torna a Vo’.
Vi aggiorno.