
Quella scritta impressa nel petto che a volte ti pare di avere un giubbotto anti proiettile ma non lo è. Quella scritta che una volta mia madre mi disse: “Che vol di’ Serenè Press?”.
Quella scritta che tanto pensi sempre di tornare. Perché non puoi andartene. Non puoi andartene adesso sul più bello quando cominci a raccontare. Quando sai che il mondo vuole vedere.
Quella scritta che ti fa sentire un po’ più al sicuro quando sicuro non è un cazzo.
Ne ho vista di gente deridere i giornalisti. Prenderli in giro. Non avere rispetto. Ne ho vista tanta. Da due anni a questa parte i giornalisti sono la categoria più mitragliata e bistrattata e bersagliata di tutte. Scoppia il covid è colpa dei giornalisti.
Ci sono i vaccini è colpa dei giornalisti.
C’è il Green Pass è colpa dei giornalisti. C’è la guerra in Ucraina è colpa dei giornalisti.
“Ci stanno raccontando un sacco di balle i giornalisti”, ti dicono. “Non è così come ce la raccontano”, ti dicono quelli col culo al caldo davanti al computer che si masturbano con i numeri delle visualizzazioni.
I giornalisti diventano buoni solo quando hai bisogno di loro. “Vuoi una mia dichiarazione?”. “Potresti farmi un’intervista”. “Guarda che domani presentiamo il progetto, sarebbe importante una presenza massiccia della stampa”.
Ma quando i giornalisti ti raccontano cose scomode, cose vere, allora diventano dei bersagli da togliere. Da togliere di mezzo. Non solo a parole. Anche premendo il grilletto. Anche facendoli finire sotto le macerie. Anche mettendoli a tacere.
Anche denigrandoli.
Quanti giornalisti morti ammazzati . Quanti. Troppi. Alcuni che se non fosse per i loro colleghi che li tengono in vita continuando il mestiere il mondo avrebbe dimenticato. Almerigo Grilz. David Beriáin. Ilaria Alpi, Enzo Baldoni, Raffaele Ciriello, Maria Grazia Cutuli, Dario D’Angelo, Miran Hrovatin, Marco Luchetta, Alessandro Ota, Marcello Palmisano, Guido Puletti. Andrea Rocchelli. Questi quelli italiani.
E ora Brent Renaud. 51 anni. Morto mentre faceva quello che più amava fare. Il suo lavoro. Perché non è retorica. Non è banalità. Non è scontato. È vero. Un giornalista che muore facendo il suo mestiere è veramente un giornalista che muore facendo quello che più amava fare. Perché non si vedrebbe a fare nient’altro. Perché questo mestiere non lo puoi comandare. Non lo puoi mettere a tacere. Non lo puoi sotterrare. Non lo puoi spegnere. Diventa uno stile di vita. Il prolungamento del braccio. Delle gambe. Diventa la tua acqua da bere. Il tuo pane da mangiare. La tua aria da respirare. Non è un mestiere che alle sei di sera hai finito. È un mestiere che ti porti appresso, che te lo senti addosso, che viene a letto con te. Mangia con te. Fa l’amore con te. È un mestiere che anche se sei in giro e pensi ad altro rimane sempre lì con te attaccato.
Renaud è stato ucciso a Kiev perché gli hanno sparato contro. Colpito al collo. È morto sul colpo.
Il collega che era con lui, Juan Arredondo, in un video diffuso sui social racconta: “Stavamo attraversando il primo ponte a Irpin con altri colleghi, per filmare i rifugiati in fuga. Si è avvicinata un’auto che ci ha chiesto se volevamo andare con loro per passare il secondo ponte, abbiamo superato il checkpoint e ci hanno sparato contro”. Renaud è crollato a terra.
Sul petto quella scritta. Press.
Morto facendo quello che amava fare.