Questo è il primo racconto di una serie di racconti che raccontano la vita di Anita, mia nipote. E questa è la sua nascita. #sbetti
Ti ho aspettato. Dio se ti ho aspettato.
Dio quanto ti ho aspettato.
Allora questa storia comincia nove mesi fa. Ma vi racconto l’ultima parte. Quella che vale nove mesi. Quella per cui a un certo punto piangi e gridi al cielo che la vita è la vita più bella che abbiamo.
Allora questa piccola storia di una storia durata nove mesi comincia l’altro giorno.
Mia sorella, è lei la persona di cui vi sto parlando, Ambra Bettin, quella che vedete in fondo nella foto, inizia ad avere forti fitte. E fanno male. Ma male cane. Ma male da lacerare lo stomaco. L’intestino. Gli organi vitali. Va al pronto soccorso ma dal pronto soccorso la risposta è chiara: dobbiamo aspettare. Allora torna a casa. Ma le fitte continuano. Aumentano. Non si arrestano. Anita si muove. E sono fitte sempre più forti. Sempre più. Una. Due. Tre. E poi ogni dieci minuti una. Due. Tre. E poi ogni sei minuti. Una. Due. Tre. E poi ancora. E ancora. E ancora. E poi ogni cinque minuti. Una. Due. Tre. E sono fitte lancinanti. Prendono la schiena. Prendono la pancia. Prendono tutto. E intanto. Intanto i minuti passano. Le ore anche ma l’attesa è snervante. Allora prendo l’auto perché devo uscire per lavoro. Fuori le strade sono piene zeppe di luci. La gente comincia ad addobbare a Natale. Ma le luci stesse da sole fanno molto Natale. Le vetrine dei negozi si addobbano di ghirlande e bacche rosse. I fanali dell’auto tagliano a metà l’asfalto e su, su in alto, alzo lo sguardo e c’è una luna piena. Ma piena, che più piena non si può. Se ne sta dietro quella torre dell’orologio che scandisce i minuti e batte il tempo.
Allora mi dico: ci siamo.
Arriva sera tardi e le fitte si fanno sempre più forti. Sempre più lancinanti. Sempre più dilanianti. Una fitta dura dai quattro ai cinque minuti. Poi. Poi la fitta passa. Ma poi. Poi passano cinque minuti. E ancora. Ancora un’altra fitta. Allora io non ce la faccio a vederla così. Vado da mia madre. E mi metto a dire se mai sia possibile che una donna per partorire debba soffrire come un cane. Se sia mai giusto. Qual è il senso. Insomma mi metto a discutere, per passare il tempo sulle teorie del Cristianesimo e del dolore, per dire se mai sia giusto che una donna soffra così per dare alla luce il creato. Allora mia madre mi dice che di lotte le donne ne hanno fatte tante, ma quella per far partorire senza dolore, quella no. Quella non l’hanno fatta. E allora torno in salone e vedo mia sorella soffrire. E se avessi potuto mi sarei presa io una parte di male di lei. Avrei fatto a cambio. Le avrei dato metà pancia. Metà schiena. Un braccio. Bastava che il male fosse diviso a metà. E invece. Invece no. Allora è tardi. Le fitte si fanno sempre più forti. Ma dall’ospedale hanno detto che il travaglio non è ancora iniziato, che quelle non sono contrazioni. Che quello è niente in confronto a quello che dovrà affrontare dopo. Ma niente. Mia sorella non ce la fa più. “Non ce la faccio più a vederla cosi”, mi dice il suo compagno.
Così si prende e si va in ospedale. La corsa. Quelle auto che partono e si mettono in coda. Le grida. Le urla. Le fitte. Questa piccola creatura che non vuole uscire. Ma una vocina dentro di me che sembra dirmi ci siamo. E allora mi accendo una sigaretta. E poi un’altra e un’altra ancora. E ho pianto. Dio solo sa quanto ho pianto. Ho pianto tanto, ma tanto, ma tanto. Ho pianto tanto quando tutti ti aspettavamo. Sono arrivata dentro a quel corridoio di ospedale con il cuore che scoppiava dalla gioia, con il volto pieno di lacrime ma con la pena di vedere mia sorella soffrire. Ma niente. Ancora niente. Ancora te ne stavi lì. E non volevi uscire. Allora ho provato a chiamarti. A invocarti. A fare in modo di far star tranquilla mia sorella. Ma nulla. A mezzanotte sono usciti i medici: “la teniamo qui ma è ancora lunga”. Poi. Poi ieri. Io che scrivo su Whatsapp a mia sorella. Mia sorella che mi risponde. Ciao come va. Forza dai. Posso venire lì. Meglio di no non ti fanno entrare. Ora provo a dormire. Quando. È da poco passata l’una. E inizia. Ricomincia. Le contrazioni stavolta sono fortissime. Una ogni pochi minuti. E poi un’altra. Un’altra e un’altra ancora. Non si può più aspettare. Ma è ancora lunga dicono. Allora ci mettiamo il cuore in pace. Sì continua a lavorare. Poi. Poi nel pomeriggio quella telefonata. In lacrime. “È nata”. Sono nel mezzo del lavoro. Vado a Padova. Saluto i colleghi. Ci stanno Fausto Biloslavo e Gian Micalessin che presentano il loro libro Guerra Guerra Guerra. Li saluto. E poi. Poi corro. Corro. Corro. Prendo l’auto e schiaccio l’acceleratore a più non posso. Dio quanto ho schiacciato quell’acceleratore. Le auto che sbucano da ogni dove. Le rotonde piene. Le luci sono tante ciocche che fanno festa. Le auto che corrono sopra l’asfalto e che sembrano trainarmi verso quella piccola creatura. Qualcuno scrive sul telefonino. Il papà manda una foto. È uno spettacolo. La gente in piazza a Padova fa shopping compera, parla, cammina passeggia. Ci sono le bancarelle quelle prima di Natale. Ci sono già quelle con i dolci i torroni e le carrube. Ci sono già quelle dove é già Natale. Allora tutti corrono. Tutti si affrettano. Tutti che sembrano volerti dire: “vai Serenella corri”. E allora alla radio suona Baglioni. “Sono nato anch’io sotto un quadrato di stelle”. E infatti. Si è fatta sera. Mancano pochi chilometri. Parcheggio. Scendo dalla macchina. Per cena mangio un mandarino e un pacchetto di cracker. Mi accendo una sigaretta. Cammino più veloce che posso. Entro. Sgattaiolo dentro a quel reparto dove ci stanno le ciocche dei bambini e delle bambine, dentro a quel reparto dove ci stanno i bambini che piangono, le mamme che allattano e i papà che vanno in panico. Percorro un corridoio. Poi un altro. Poi torno indietro. Guardo dentro a tutte le stanze. Fino a che. Fino a che non leggo il tuo nome. Fino a che non riconosco la ciocca. Sei tu. Sei qui.
Busso. Entro. Sono dentro. E dentro ci sta lei. Ci stai tu.
Questo batuffolino rosa pieno di vita dentro a questa culla. E poi. Poi ci stanno loro Mamma e Papà. Il resto. Il resto ora ve lo racconta lei. Perché il resto è l’inizio di quello che sarà uno straordinario racconto.
Continuando il viaggio.
#ziasbetti
#sbetti
#nottesbetti
Post scritto benissimo e pieno di sentimento, complimenti! 🙂
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