
Il ragazzo con la divisa di Trenitalia mi intima di andare avanti e di fermarmi per compilare l’autocertificazione. Mi spinge oltre la linea rossa dove davanti a me ci stanno già altre persone. Per chiunque entri o esca dalla Lombardia è necessario compilare un foglio, con delle penne messe a disposizione di tutti, con le caccole appiccicate, dove ti chiedono nome cognome residenza codice fiscale numero carta d’identità che sei consapevole a cosa vai incontro che non hai avuto contatti con positivi che non sei isolamento o quarantena e che ti stai muovendo per comprovati motivi di lavoro salute o altro urgenti barra necessari barra indispensabili barra non prorogabili hashtag #responsabili. A Padova addirittura accade di peggio. Quando arrivi in stazione, e vai verso i binari ci sono due code. Come sul #Titanic quando alla gente controllavano i pidocchi. Se sali su una Freccia ti misurano la temperatura. Se sali in prima classe ti danno anche il caffè. E se sali su un regionale la temperatura non te la misurano perché tanto chi se ne frega va bene lo stesso. Se sali poi in seconda classe il caffè ti dicono non può essere servito per motivi di contagio. In prima classe invece è risaputo stando a dati certi epidemiologici valutati e convalidati dall’Istituto superiore di Sanità, ecco è risaputo che il virus non esiste. Attacca i deboli. Gli emarginati. I casi sociali.
Quando poi compili l’autocertificazione, il tipo al gate se gli stai antipatica te la controlla, se gli stai simpatica come è successo a me “ammazza che occhi che c’hai – ma da dove vieni dove vai – tieni famiglia – complimenti alla mamma”, ecco ti lascia andare e la tua autocertificazione sale in treno con te utile per pulirsi il sedere se per caso vai al gabinetto e hanno finito la carta.
Giunta in stazione chiamo un taxi. È tardi. E sono in ritardo. Il tassista fermo da ore mi implora di salire tutto contento e mi comincia a parlare. Mi racconta che è pugliese. Che lui a casa mangia bene. Che la moglie gli fa sempre da mangiare. Che come mangia il pesce a casa lui non lo mangia nessuno. E mi dice una cosa bella e cioè che se si deve mangiare male tanto vale non mangiare e quindi lui preferisce spendere di più ma almeno mangia bene. Cose genuine. Nel tragitto che mi separa dalla stazione alla redazione il tassista pugliese che si chiama Antonio ma per gli amici Antoine mi dice come il cantante napoletano – “però tu scii bimba che vo’ capì, mica eri nata” – ecco mi fa una carrellata di frutte e verdure di stagione con tanto di pomodori e pomodorini suddivisi in base ai mesi ai giorni alla provenienza. Quando mangiare l’uno. Quando l’altro. Poi mi fa scendere e mi dice: “si prenda del tempo per sé, impari a farsi da mangiare”. Io ci rimango un po’ male e comincio a guardarmi le mani le braccia le gambe – forse gli sarò sembrata patita – forse crede che non mangio – o forse si vede che non ho tempo di fare da mangiare e nemmeno voglia – a ognuno il suo mestiere.
Poi entro in un bar. Il mio caffè. Finalmente. Non hanno il limone da mettere dentro l’acqua perché hanno riaperto ieri e non lo sapevano. Sono rimasti perfino a corto di carta igienica. Ma è tutto buono lo stesso. Gentili. Educati. Cordiali. Mi serve pure un ragazzo di colore che parla milanese. E che è lì che lavora.
Qui si vede che sanno cosa vuol dire aver vissuto la pandemia. Qua i gesti procedono ancora al rallentatore. Qui le persone procedono lente. Accorte. Attente. Camminano senza alzare lo sguardo. In questo clima nefasto di un’attesa snervante. Sospesi nella speranza che primi o poi passi tutto…
#sbetti
