A Borgo Val di Taro si arriva in autostrada

“A Borgo Taro si va in autostrada. Autostrada della Cisa. Si esce al casello di Borgo Taro. Poi un venti chilometri di strada normale però buona”.
Queste sono le indicazioni che mi ha dato un mio caro collega che vive a Parma.
La sera prima di partire con la troupe gli ho scritto: “Ciao, sono dalle tue parti domani”.
“Davvero?”. “Sì”. “A che ora? Ci vediamo?”. “Sì dai se riusciamo. Ma ho tempo parecchio compressi”. Devo girare. Andare su. Fare l’intervista. Immergermi nel paesaggio. Calarmi nel luogo. Interagire con la gente. Respirare i loro umori. Percepire i loro malesseri.
Perché Dio se mi ci voglio immergere.
Io quando vado in un posto mi ci devo calare. Lo voglio sentire mio. Devo sentire che mi sbatte in fronte. Che mi si scaglia addosso. Che mi entra dentro. Devo farlo mio. Averne il tempo.
Avrei voluto. Dio se avrei voluto incontrarlo. Ma non ce l’abbiamo fatta. Borgo Taro sta nella Val Taro che si trova in Emilia Romagna in provincia di Parma. E che prende il nome dal fiume che ci scorre in mezzo.
Una valle che tra città frazioni e quant’altro c’ha 30 mila abitanti. Fatto sta che io non li ho visti. Ne ho visti soltanto cinque perché sono andata su su in cima a una riserva che Dio solo sa quanto era in cima. E dove sono finita. So che a un certo punto ho visto la scritta Appennino Ligure e mi sono sentita ancora nuovamente a casa. Noi viaggianti abbandoniamo una casa per cercarne un’altra.
A un certo punto la strada è finita. Ti ritrovi in una arteria sterrata che devi stare attento a non finire di sotto e con la troupe ci stavamo finendo di sotto, abbiamo svoltato a una curva ma la ghiaia era tanta, pioveva e tutta la macchina non ci stava.
C’era poco posto per girarsi e se non fosse stato per la brusca frenata probabilmente saremmo finiti giù per il pendio e chissà dove ci avrebbero trovato. O forse no.
Ti trovi in questo posto magico dove i colori che dominano sono il verde e l’arancio. E il marrone ambrato. Il verde è quello dell’erba che è rimasta. È quello delle foglie. Rimaste anche quelle. Sarà che fa troppo caldo. Infatti non c’era uno spruzzo di neve. L’arancione è quello delle foglie secche e vi giuro ne è pieno il mondo e il marroncignolo dei tronchi lasciati spogli nell’attesa che finisca l’inverno. Siamo arrivati su che pareva ciuffasse. Dio se ciufava. Ciufava che Dio la mandava. Ma ciufava in un modo che faceva un bordello che non te lo immagini nemmeno. Poi incuneatici dentro una stradina stretta stretta il rumore del vento si è trasformato in poesia. Un canto. Pareva quello del mare aperto. Dio quanto lo amo il mare aperto.
Le foglie che si muovevano mosse e scaraventate dal vento parevano le onde di quando il mare calmo, che basta a se stesso e non chiede niente in cambio, iniziano a incresparsi e creano quel rumore che ti vengono in mente: il mare che si muove tra gli scogli, le onde che di notte creano quella musica leggera che la racchiuderesti dentro una boccetta e te la ascolteresti tutta la notte e quei capelli al vento. Qui dovevo incontrare un agricoltore che mi ha parlato a lungo e di tante cose. Ve le racconto. Dentro la gip dove sono salita faceva assai freddo ma ero per fortuna vestita. Procedevamo dentro questa riserva con andar lento. Pareva un lento adagio di quelli che i grandi musici usano negli spartiti. Pioveva. Dio se pioveva. E a ogni parola era una tergicristallo che si alzava e abbassava. E su e giù. È giu e su.
“È il giornalismo – ho detto al mio collega – che ha bisogno di respirare. Lo capisci? Lo devo sentire nella testa. Nelle mani. Dentro. Nelle gambe. Lo devo sentire nelle dita che strimpellano sulla tastiera perché non vedo l’ora di scrivere”.
Si è fatto tardi e cerchiamo un posto dove cibarci. Lo stomaco a secco dalla sera prima inizia a farsi sentire e ad arrovellarsi sui suoi tarli. “Stai zitto” gli dicevo e più glielo dicevo più lui continuava a parlarmi. Arriviamo in via Nazionale.
Piove a dirotto e vediamo un bar ristorante, un buco. Ci mettono a mangiare un pollo scotto fuori al freddo, al caldo di un fungo….

sbetti