“Signora ha una camomilla?”

“Signora ha una camomilla?”
Salgo su sull’Altopiano di Asiago e mi viene mal di stomaco. Non mi fa male l‘auto. Ma la sera prima avevo cenato tardi; poi prendi, parti, dormi poco, sveglia all’alba, prepara la borsa, tutto di corsa, controlla che ci sia tutto, chiudi casa, butta via le immondizie e deve essermi successo qualcosa tra le pareti di quella sacca che contiene il cibo dopo averlo mangiato. Del resto che vuoi farci.
Per noi sempre in giro che sembra così figo – e si lo è – i ritmi sono allucinanti, non fai in tempo a partire che devi tornare, non fai in tempo a tornare che devi partire. Fatto sta che andando su al decimo tornante mi si è gonfiata la pancia.
Nella caffetteria dove ci fermiamo la tipa che mi sta davanti capisce subito che non mi sento tanto bene e mi prepara una camomilla. Con questa mi passa.
Cominciamo a parlare. E mi dice che la caffetteria è in piedi dal 1861. C’è anche scritto. Se n’era accorto il cameraman. Io ero troppo presa e stravolta dall’ascoltare lo stomaco che mi riportava su e mi faceva andare giù. E su e giu. E giù e su. Ribolliva come ribolle l’acqua quando la metti in pentola e ci spari il fuoco da sotto. La caffetteria pasticceria è lì in quelle mattonelle dal 1861. Ci sono passate la sua trisavola, la sua bisnonna, la
sua nonna, la sua mamma, lei e ora suo figlio. Non riesco a osservarla per bene come avrei voluto. La mia vista era un po’ annebbiata perché mi dovevo concentrare sulle parole separando dal cervello il mal di pancia. È questione di allenamento. Se ci provi ci riesci.
Non riesco a metterla a fuoco. Mi dice che per fortuna il figlio ha voluto prendere in mano l’attività che altrimenti sarebbe andata scomparendo. Lei mi pare indossi una cuffia e un camice blu. E che abbia i capelli biondi. E anche una pelle bella rosa rosata. Guardo quei fantastici biscotti gialli sopra il bancone. Mi dice che sono fatti con la loro farina gialla. Un’antica ricetta che si tramanda.
Torno in auto. Saliamo verso l’alto. E mi aspettano un allevatore, un veterinario, un cacciatore, una esperta di malghe che all’inizio pareva tanto snob e che se la tirasse e invece poi si è sciolta come neve al sole. Sarà l’effetto delle telecamere le prime volte. E poi una veterinaria molto brava. Lei sì me la ricordo bene. Alta. Si mantiene giovane. È venuta a stare qui ad Asiago. Da queste parti sono tutti molto ospitali. Ma molto ruvidi. Loro il freddo ce l’hanno dentro le ossa. Non lo temono. Ci sguazzano. La loro esistenza è costellata dal gelo. Ma non c’è storia. Hanno un’altra buccia. Un’altra scorza. Stanno fuori in maniche di camicia. Una giornalista mi si è presentata in minigonna, con calze trasparenti e la sola giacchetta, roba che io manco fuori al sole d’inverno. Il tipo invece che scaricava la roba era in maniche corte. Anche l’altro. Quello dov’è quella volta in bagno mi sono messa la calzamaglia. Se n’è ricordato. “Tu sei la sbetti”, m’ha detto appena sono entrata. “Sì sono la sbetti”. “Ah mi ricordo quella volta. Io in maniche corte. E tu che sei andata in bagno a metterti la calzamaglia”. Già.
Ci spostiamo ancora più su. Dobbiamo aspettare la notte. Davanti a noi si apre un paesaggio fiabesco. Dall’Altopiano sembra tutto bello. La valle. Il sole che spunta. Che sorge. Che scompare. E riappare. Sembra fare lo stronzo. La neve che non c’è se non più in alto. Più avanti. Più avanti ancora. Il sole che trafigge i rami trafitti dai raggi solari. Queste montagne scoscese che fanno su e giù e giù e su come il mio stomaco la mattina. Metto una mano dentro la borsa, cerco una sigaretta, e mi viene in mano quel biglietto da visita di quella signora. “Mi fa una camomilla?”. Il mal di stomaco è passato…

sbetti