Questa sera rientravo a casa dopo una giornata di lavoro. Una di quelle giornate dove parti la mattina e rientri la sera. Stanca. Esausta. La testa piena. Le gambe a terra. I piedi stanchi. Una di quelle dove non vedi l’ora di fumarti una sigaretta, spegnere il cervello, silenziare il telefono e di assaporare l’universo. Un film. La musica.
Una di quelle dove hai corso tutto il giorno. Hai preso la pioggia. Hai preso freddo. Hai respirato la brezza del vento. Quella fredda. Quella asciutta. Quella che non vedi l’ora arrivi il freddo freddo per assaporare ancora di più quando arrivi a casa al caldo. Quelle dove le gambe hanno macinato chilometri. Le mani hanno danzato sulle tastiere. Gli occhi hanno visto scorci. Universi. Mondi. Quelle dove le orecchie hanno ascoltato parole. Storie. Anedotti. Pensieri e quelle dove l’anima è tornata a casa un po’ più sazia. E ancora affamata.
E allora dicevo rientravo e lungo la via del ritorno pensavo a quanto dobbiamo amare il nostro lavoro per rincasare alle dieci di sera e non trovare un supermercato aperto.
Poi sono rientrata. Via una scarpa. Via l’altra. Ho appoggiato le borse. Ho preparato la doccia, quando chiudo un attimo gli occhi e mi balzano in mente le scene di oggi. Se ne stanno lì a punzecchiarmi la mente mosse da tanti piccoli omini che scattano i flash con le macchinette.
Insomma sono lì pronta per andare in doccia quando mi viene in mente il palazzo di oggi. Dio mio cosa ho visto. Allora ripenso a quella stanza. A quelle pareti. A quel profumo. E alla fortuna che ho avuto di vedere una simile opera d’arte.
Insomma questa stanza a fine conferenza, dove ho presentato il libro di Michele Florentino, un libro che parla di donne e vino, ma non come le intendiamo noi, ma con tutta l’eleganza e la maestranza di cui il vino ha bisogno, ecco dicevo questa stanza mi dicono a fine conferenza: “indovina di cosa è fatta”, io la guardo ma la mia mente era talmente annebbiata dal voler fumare una sigaretta, che non provo nemmeno a indovinare, me lo faccio dire. Allora insomma questa stanza é fatta di cuoio. E infatti la chiamano la Sala Cuoi. Insomma la Sala Cuoi c’ha cuoio ovunque. Lungo le pareti. Su su in cima alle colonne. Lungo i pomelli delle porte. Appiccicato alle finestre. Lungo il muro che va su. Lungo quello che torna in giù. Cuoio. Cuoio. Cuoio ovunque.
Allora guardo la stanza. Spalanco la bocca. Alzo gli occhi al cielo. Ex esclamo “mio Dio che meraviglia”. “Già – mi dice un tipo che è lì con me e che lavora in Regione – prima era foderata con cuoio dorato, poi è stata rivestita completamente di cuoio. Così come la vedi ora”. E infatti.
Infatti, lascio andare la doccia. Mi accendo una sigaretta e spinta da una curiosità immensa apro il libro che oggi mi hanno donato. Un libro sul Palazzo Ferro Fini, la sede del Consiglio regionale del Veneto. Insomma lo apro e fatalità ci sta una foto che prende due pagine che raffigura proprio questa stanza di cuoio. E così insomma leggo che nel Seicento, di proprietà di Fangini, da cui poi Fini, le pareti di cuoio consentivano una minore dispersione di calore, mentre l’oro, in alternativa alle pitture ne impreziosiva l’estetica e ne favoriva la luminosità. Il cuoio era pressato e lavorato a rilievo tramite la pressione di stampi metallici incandescenti che poi veniva fissati al muro.
Cioè in sostanza per farci i disegni, prendevano degli stampi, li riempivano di cuoio, li pressavano e poi li incollavano. Un po’ come il nostro Didò.
Così come si presenta inoltre la Sala dei Cuoi è stata realizzata alla fine dell’Ottocento. E c’ha finti cuoi spagnoli. Due specchiere. Porte incorniciate da decorazioni moresche, dodici statuette che fanno da porta torcia e che stanno issate su colonnine di legno a torciglione, un soffitto a travi lavorate e questo grande lampadario. Non solo. C’avea pure il caminetto. A quell’epoca ogni stanza ne aveva uno.
E inoltre questa era pure la “sala caffè e fumo”, una sala di sosta. Una sala di incontro.
Già mi chiedo io. Dove potevo finire se non in una sala caffè e in una sala di fumo.
E così mi sono chiesta quante belle cose abbiamo di cui non sappiamo l’esistenza. Quante. Quante cose abbiamo a cui dobbiamo dire grazie. Grazie alla natura. Grazie all’opera degli uomini. Grazie per farci entrare in simile bellezze. Un bagno di umiltà che ti fa sentire piccolo dinanzi a simili grandezze. Perché oggi poi. Oggi mi hanno colpito le parole di un amico. Quando congedandosi e salutando ha detto: “grazie a voi, per averci ospitato qui dentro”. Già. Grazie. Perché la gratitudine è qualcosa di immenso.
#sbetti
Palazzo Ferro Fini Consiglio regionale del Veneto
A proposito di film, l’hai visto Le Mans ’66?
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